“Elogio dell’invidia. Una riflessione filosofica” di Gualtiero Lorini

Prof. Gualtiero Lorini, Lei è autore del libro Elogio dell’invidia. Una riflessione filosofica edito da Carocci: è possibile dare una definizione univoca dell’invidia?
Elogio dell’invidia. Una riflessione filosofica, Gualtiero LoriniUno dei punti di partenza di questo saggio è proprio la difficoltà che si incontra quando si cerca una definizione univoca dell’invidia. Ciò vale tanto per l’invidia in sé, che può essere (ed è stata) definita come una passione, un sentimento e, in un ambito più strettamente morale, un vizio e un peccato, quanto per quei comportamenti che vengono considerati come conseguenze dell’invidia. Questi comportamenti hanno in comune il fatto di ricadere quasi sempre nella sfera di quanto è eticamente disdicevole ed esecrabile, eppure presi individualmente possono essere associati a vissuti assai diversi fra loro. Ad esempio, se consideriamo molti atti che, di primo acchito, non esiteremmo a definire come “mossi dall’invidia” e li analizziamo uno ad uno, ci accorgiamo che in alcuni casi è più opportuno parlare di gelosia, perché si teme di perdere ciò che si ha a causa di un terzo che irrompe nel nostro mondo, o di disapprovazione mossa dal modo in cui una certa persona si serve di beni di cui noi riteniamo di poter fare un uso migliore o, ancora, di malevolenza verso qualcuno che non ci sembra meritare i beni che ha, senza che questi siano necessariamente desiderati da noi (e si potrebbero fare molti altri esempi). Eppure sovente non esitiamo ad accomunare questi vissuti interiori con l’etichetta “invidia”. Questa tendenza mi sembra mossa più dal riconoscimento di una postura esistenziale comune alla radice di simili vissuti, che non da un’effettiva affinità fra le azioni che si pretendono “mosse dall’invidia”. Di qui sorge, a mio avviso, la necessità di collocarsi a monte delle azioni che esprimerebbero invidia, e quindi di indagare una dimensione preriflessiva, metafisica, del tutto previa rispetto a qualsiasi valutazione di ordine morale, valutazione che ha senso solo una volta che queste strutture esistenziali si sono tradotte in effettive intenzioni o azioni. Il risultato sorprendente di questa operazione speculativa – che in una certa misura può dirsi “sperimentale” – è che le strutture esistenziali che incontriamo spingendoci a monte degli atti invidiosi possono essere riconosciute come la radice anche di altri atteggiamenti di tutt’altro genere, come ad esempio l’ammirazione e l’emulazione virtuosa dell’allievo nei confronti del maestro. Si tratta infatti di uno strutturale interesse per l’alterità, nello specifico per l’alterità più prossima, da cui dipende in parte anche la costruzione della nostra identità personale.

Attraverso quali linee metodologiche viene esaminata, nel Suo saggio, l’invidia?
Per catturare questa dimensione ancora del tutto neutrale rispetto alla condanna morale che normalmente accompagna l’invidia intesa come vizio, ho ritenuto necessario indagare il punto di intersezione di tre possibili approcci metodologici, ciascuno dei quali, individualmente, si sarebbe rivelato a mio avviso insufficiente, e cioè la metafisica, la fenomenologia e l’antropologia filosofica. La metafisica mi serve per mostrare come la polarizzazione fra soggetto e oggetto conosca un momento di fragilità nel momento in cui il soggetto ha di fronte a sé qualcosa che non si lascia ridurre totalmente al suo orizzonte di senso come “oggetto” perché rivendica le medesime prerogative del soggetto giudicante. Questa dinamica innesca quella che nella storia della filosofia, da Hegel in poi, è nota come “lotta per il riconoscimento”, e ha conosciuto approfondimenti e sviluppi significativi in ambito fenomenologico, da Husserl a Sartre. La fenomenologia entra in campo appunto per cercare di decostruire la rigidità dell’impianto metafisico soggetto-oggetto nel caso particolare del confronto fra due soggetti. Infine, l’antropologia analizza le dinamiche peculiari che si innescano nel confronto fra soggetti che, pur non potendosi ridurre del tutto l’uno all’altro, hanno tuttavia bisogno di costruire forme di relazione per adattare al mondo in cui si muovono la rappresentazione di sé da cui, in quanto soggetti pensanti, inevitabilmente muovono. Tengo qui a precisare che l’antropologia filosofica a cui mi riferisco è quello studio del carattere inteso come “modo di pensare” [Denkungsart] che, a partire da Kant, si afferma in radicale alternativa alla psicologia empirica rivolta invece allo studio dell’anima come una sostanza della quale è possibile un’esperienza sensibile. L’antropologia filosofica alla quale mi richiamo nel libro è dunque strettamente legata al tentativo di affinare gli strumenti della metafisica classica e non indaga quegli sviluppi, pur fecondi, che l’hanno vista in una tensione problematica con l’etica.

Al di là di questi tre approcci tecnici, uno degli elementi – mi sembra – di maggior originalità del libro consiste nel tentativo di tenerli insieme tramite il ricorso alla letteratura. Questa funge tanto da fonte di esempi, quanto da ideale prolungamento del laboratorio antropologico, e consente di studiare la vita nella sua costante possibilità, mantenendo al tempo stesso quella ripetibilità dell’esperimento scientifico che ci è negata nell’esistenza concreta.

Quali sono i presupposti del modo di pensare alla base delle tensioni invidianti?
In estrema sintesi, direi che l’attività di pensiero propria dell’uomo – prima ancora della caratterizzazione di questo pensiero come “razionale” – implica la capacità di dire “io”, come Kant afferma in apertura della sua Antropologia pragmatica. Questa consapevolezza di sé implica ipso facto la costruzione di un’immagine di sé, in altre parole di un’autorappresentazione che è costantemente chiamata in causa dalla “semplice presenza” di altri “io”, secondo una dinamica che, come si diceva al punto precedente, dalla metafisica conduce alla fenomenologia. Nella relazione strutturale e strutturante fra queste soggettività si gioca la correzione e l’adattamento di questa autorappresentazione che può vedersi più o meno confermata o negata dall’altro. Si tratta di una vera e propria dialettica fra diversi “mondi”, a cui questa attività rappresentativa dà vita, e dalla composizione adattativa fra i mondi di ciascun soggetto scaturisce la dimensione della convivenza intersoggettiva. L’esito è sempre asimmetrico e innesca relazioni che possono assumere le tinte etiche più diverse, ma sempre mosse dall’originario squilibrio fra la propria autorappresentazione e la “realtà”. Nel libro cerco di spiegare che l’unico margine per parlare dell’invidia come di qualcosa di individuato e non ingannevolmente sfuggente consiste nel collocarsi al livello di questo originario incontro intersoggettivo, che però non può (ancora) implicare alcun giudizio morale. Evidentemente occorre quindi – a mio avviso – accettare un decisivo slittamento semantico.

Cosa rivela la decostruzione di tali presupposti?
Per rispondere alla domanda con quella che potrebbe suonare come una battuta, potrei dire che l’invidia, in quanto passione, sentimento, vizio, peccato, ecc., non esiste in senso proprio. Nel libro si fa un’affermazione di questo genere, proprio laddove si tenta di mostrare che la dinamica esistenziale da cui scaturiscono, fra gli altri, anche i comportamenti che si tende a considerare invidiosi è sempre dislocata fra due poli, quello autorappresentativo e quello della frizione fra questa autorappresentazione e il mondo esterno, altrui o, quanto meno, non più individuale poiché fattosi intersoggettivo. È un po’ come se, riconducendo gli atteggiamenti supposti invidiosi alle loro radici esistenziali, si trovasse una fonte tutt’altro che accidentale nella costituzione dell’essere umano. Questa fonte non si lascia tuttavia afferrare nella singolarità di una definizione, ma richiede piuttosto la pazienza di una ricostruzione genetica, che descrive un processo e non cattura alcuna essenza. Un simile processo è quello tramite cui la soggettività pura esce come una scultura dal blocco di marmo venendo sbozzata e poi sempre più rifinita dal suo ingresso nel mondo che condivide con gli altri soggetti. A me sembra che, su queste basi, voler parlare di invidia come si parla di amore e odio, o come si parla di gelosia e rancore equivalga, per rimanere nella similitudine, a considerare l’essenza della scultura come la somma delle singole parti, dimenticando che tale essenza risiede invece in una combinazione inestricabile di fattori che possono essere ricondotti alle quattro cause aristoteliche, che vengono infatti evocate nell’Epilogo del volume.

Quale funzione svolge, nella costruzione dell’identità personale, la componente invidiante?
Direi una funzione centrale, poiché la nostra identità si forgia, almeno in parte, inevitabilmente nell’incontro fra la nostra autorappresentazione e ciò che il mondo o, se si preferisce, “gli altri” ci restituiscono quando interagiamo con loro. Per questo il titolo del saggio è da intendersi in senso provocatorio, ma fino a un certo punto. Infatti, sin dalla fine del secondo capitolo il lettore dovrebbe aver chiaro che con il termine “invidia” non mi riferisco ormai più al vizio condannato unanimemente sul piano etico, quanto piuttosto a quella disposizione eticamente neutra, ma antropologicamente strutturante, che ci porta a diventare noi stessi in virtù di un ineludibile confronto con l’altro. Questo confronto nasce da un insopprimibile interesse verso l’alterità che è alla nostra portata, e allora “elogiare” questa dinamica significa elogiare l’uomo. E, sia chiaro, questo nulla ha a che vedere con prese di posizione di carattere teologico, campo nel quale né intendo né potrei addentrarmi. Con questa precisazione mi riferisco soprattutto al mio utilizzo del Paradiso perduto di Milton, nel terzo capitolo. Il riferimento a questo poema rientra nella scelta metodologica più generale che caratterizza tutto il libro, ossia l’adozione della letteratura come una sorta di laboratorio antropologico. La letteratura ci consente infatti una rappresentazione plastica, vitale e dinamica di quegli stati di cose che i tecnicismi metafisici e fenomenologici rischiano di far apparire astratti o, peggio, oscuri. In questo senso, mi sembra poco efficace misurare l’Eden descritto da Milton con il metro dell’ortodossia teologica, e lo stesso vale per le considerazioni che svolgo a partire dal poema. Sulla base dell’idea – acquisita nei primi due capitoli – per cui l’invidia è ormai da intendersi come quella strutturale tensione verso l’altro ancora scevra da ogni possibile giudizio morale, io ritrovo nell’Eden di Milton una sorta di “mondo della vita” fenomenologico. Qui la creatura umana vive un’“esperienza in prima persona” nel senso più radicale dell’espressione, perché non è ancora giunta a porsi il problema dell’“appaiamento” (per usare un altro termine fenomenologico) con l’altro. Le circostanze che occasionano il sorgere del confronto (in questo caso con il Creatore) sono sì offerte dalla caduta di Satana, ma l’uomo diventa pienamente tale non già perché pecca cadendo nella tentazione demoniaca, ma per il fatto di essere attraversato, prima del peccato, dalla semplice tensione data dal confronto con l’altro, tensione che possiamo ormai chiamare invidiante senza il rischio di connotarla moralmente. È il libero arbitrio dell’uomo che lo porta a tradurre questa tensione in un’azione moralmente condannabile, ma qui siamo già oltre la dinamica originaria che ho cercato di mettere in luce. Peraltro nel testo di Milton, a differenza di quanto leggiamo nella Genesi, Adamo ha una consapevolezza netta della propria disobbedienza prima ancora di compierla, e questo a ulteriore testimonianza del fatto 1) che non c’è l’intenzione di rivisitare la Scrittura (e ci mancherebbe!); e 2) che c’è uno stacco netto tra il momento del sorgere della tensione invidiante e la determinazione dell’arbitrio a un’azione passibile di giudizio morale.

Per chiudere e tornare al fulcro della domanda: nella mia prospettiva è essenziale comprendere che il termine “invidia” va risemantizzato. Io cerco di sottrarlo all’ambito etico che valuta intenzioni e azioni, e lo colloco invece in una dimensione esistenziale, preriflessiva, matrice di una serie di condotte che vanno ben la di là di quelle che l’etica condanna come viziose. Ammettendo queste premesse (e nessuno è obbligato a farlo) possiamo cogliere nella dinamica di autorappresentazione-richiesta di riconoscimento che ha luogo nella tensione invidiante una componente strutturante della nostra identità personale.

Gualtiero Lorini (Brescia, 1982) è ricercatore in filosofia teoretica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Alumnus della Alexander von Humboldt-Stiftung. Il suo ambito di ricerca abbraccia la filosofia classica tedesca, con particolare attenzione alla filosofia kantiana e alle sue fonti nell’ambito della teoria della conoscenza e dell’antropologia, la ricezione della filosofia kantiana nell’idealismo tedesco relativamente al rapporto fra etica, diritto e religione, il dibattito fra Neokantismo e Fenomenologia e le possibili applicazioni della “Filosofia dei segni e dell’interpretazione”.

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