
Successivamente ho deciso di approfondire questo amore, e i tre passaggi fondamentali sono stati il viaggio ad Auschwitz, quello a Gerusalemme e lo studio della lingua ebraica. Entrare nel cuore del progetto che voleva eliminare l’ebraismo, la sua gente e la sua memoria dalla faccia della terra mi ha dato una specie di compito quasi protettivo (se posso dire così) nei confronti di questa cultura da sempre perseguitata; Gerusalemme è il cuore pulsante di tre religioni, un luogo sulla Terra che chiunque dovrebbe visitare per poi poter provare a capire che cosa è la spiritualità quando impregna di sé la vita quotidiana; infine la lingua ebraica, come tutte le lingue umane, è attraversata dalla cultura e avvicina al mondo del Testo Sacro (il TaNaK) da una prospettiva del tutto diversa dalla lettura di una traduzione.
Queste tre strade mi hanno condotto al crocevia dell’ebraismo, un luogo sempre diverso, che non è mai monotono, non presenta mai lo stesso volto. Un luogo in cui non è possibile rimanere fermi ma che ti conduce con sé in un movimento continuo che è poi il movimento della domanda, dell’inquietudine, dell’interrogazione
Quanto del pensiero ebraico è comprensibile da un goy?
Credo che occorra un esercizio di umiltà quando ci si approccia a una cultura, qualsiasi essa sia. Occorre immergersi in essa liberandosi il più possibile dei propri pregiudizi, cercando al contempo di capire quali profonde domande di senso trovano una riformulazione nella cultura che si sta approcciando. Io credo fermamente che le culture siano affratellate e assorellate dalle domande; certo spesso si dividono anche aspramente sulle risposte, ma le domande sul senso della vita, sul dolore, sull’amore, sulla generatività, sulla morte, sul sacro sono trasversali a tutte le culture umane. Il dialogo interculturale e interreligioso deve partire dallo spazio aperto dalle domande se non vuole naufragare; e il fatto che certa filosofia della scienza le ignori o le schernisca come domande mal poste rende conto di quanto il fondamentalismo e l’integralismo non si ammantino solo di vesti religiose.
La cosa che personalmente mi affascina dell’ebraismo è l’estrema capacità di tenere aperte le domande, di non chiudersi nella apparente facilità di risposte banali da catechesi superficiale. Il che non significa affatto che l’ebraismo lascia l’uomo e la donna nello smarrimento e nell’assenza di risposte, ma che àncora queste ultime all’interno di un percorso di ricerca, di un viaggio esistenziale che non si accontenta mai dell’ultima risposta ma la mette sempre e continuamente in discussione.
È ovvio che la pretesa di capire sempre tutto di una cultura è arrogante e non porta da nessuna parte; la comprensione intellettuale è fondamentale (soprattutto per l’ebraismo che dà comunque molta importanza alla cultura e alla intelligenza umane) ma c’è una dimensione emotiva profonda che viene sollecitata dall’approccio alle culture e nello specifico a quella ebraica; non si tratta di un buio recesso irrazionale ma di una zona mista, tra ragione ed emozione, tra affetti e cognizioni, che permette anche a un goy l’accesso alle acquisizioni più profonde dell’ebraismo. Del resto questa è la profonda intuizione del noachismo, ovvero l’idea di rivolgersi ai goim per far gustare loro i frutti più dolci dell’ebraismo, compresa la forza insita nel rispetto dei precetti.
Quali sono i punti cardine dell’identità ebraica?
Nel libro parto per questo viaggio all’interno dell’identità ebraica affrontando il tema della storia; l’ebraismo è intriso di storia perché è costituito da un pensiero e una prassi che devono accompagnare l’essere umano nel suo pellegrinaggio nel mondo storico. Il dio degli ebrei e delle ebree è il Dio che sceglie di farsi storia, è il Dio-con-noi, l’Emmanuele, implicato per sua scelta (ma anche senza possibilità di tornare indietro) nella vicenda storica dell’essere umano. Dunque l’ebraismo non è una religione che esiste nonostante la storia, come se quest’ultima facesse parte di un mondo che è da svalutare, ma esso si dà dentro la storia, in un intrico che non si può sciogliere, almeno fino al momento della Redenzione, quando tempo ed eternità si fonderanno dando luogo a una figura totalmente inattesa.
Nella storia dunque uomini, donne e dio intraprendono un viaggio, e quella del viaggio è una dimensione fondamentale per la cultura e la religione di un popolo in esilio; l’esilio babilonese e la Diaspora hanno dato forma all’identità ebraica, velandola di nostalgia e conferendole quel senso di resistenza e di fedeltà alla terra che le è proprio. Ma la nostalgia dell’ebreo non si è tramutata in depressione, in inattività, in accidia; al contrario, il popolo ebraico ha continuato a viaggiare, prima per raggiungere la Terra Promessa, poi per tornare da Babilonia, poi ancora per vagare per il mondo, alternando la capacità di mettere fragili radici in un luogo a quella di avere le ali pronte per spiccare il volo.
Ho parlato sopra della lingua ebraica; la Torah è scritta in ebraico, nella lingua sacra, e dunque YHWH, il dio degli ebrei e delle ebree, parla ebraico. È un punto fondamentale, al quale spesso non si presta abbastanza attenzione. L’ebraico è la lingua sacra, non è una lingua come le altre perché è quella che dio ha scelto per rivolgersi agli esseri umani, e dunque affrontare le Scritture leggendole in ebraico significa sentire la voce di dio, entrare nei suoi vocalizzi (anche se ahimè le vocali sono presenti solo nell’ebraico biblico e sono davvero difficili da imparare: io continuo a confonderle!)
Ma forse l’elemento davvero pregnante per quanto riguarda l’identità ebraica è la continua dialettica tra dolore e speranza che questo popolo ha mantenuto viva nel corso dei millenni. Colpisce nell’ebraismo la capacità di osservare lucidamente il presente con tutte le sue brutture e tutto il portato di violenza che spesso l’essere umano vi deposita, e al contempo di alzare lo sguardo, aprire gli orizzonti, cercare di non smettere mai di credere nel cambiamento, nella Redenzione, in quei nuovi tempi che sono il sostegno morale spirituale e materiale caro a chiunque abbia incontrato l’ebraismo sulla strada della sua vita. Si tratta di una speranza concreta, non di uno stato d’animo ma di un indice messianico presente nelle cose del mondo, come dicevano con parole diverse filosofi come Walter Benjamin ed Ernst Bloch. Il messianismo dell’ebreo è concreto, parte dalle piccole cose del mondo, dagli oggetti dimenticati, dagli spazi inesplorati. Come scrisse appunto Benjamin, per l’ebreo ogni istante può essere la piccola porta dalla quale potrà entrare il Messia.
Quali prospettive per il dialogo tra l’ebraismo e il futuro?
L’incertezza, la fragilità, la precarietà dentro le quali viviamo e che spesso ci rifiutiamo di osservare con occhio lucido sono forse il vero motivo per cui un pensiero come quello ebraico deve essere mantenuto in vita e anzi rafforzato. L’ebraismo non dà garanzie sul futuro, non tratteggia la strada di un destino già segnato, ma pone l’essere umano di fronte all’orizzonte della domanda, della possibilità e per questo lo abitua e lo richiama alla responsabilità.
L’ebraismo è una filosofia della speranza e come tale deve entrare sempre più in contatto con i pensieri religiosi e non che mantengono viva questa dimensione dello spirito umano. Penso a un dialogo interreligioso (e per me l’ateismo è una forma di religione perché è comunque una risposta all’interrogativo su dio) che serva a sciogliere le incrostazioni dogmatiche di ogni posizione ma che al contempo non le annacqui tutte un una specie di relativismo religioso pret-a-porter.
Il futuro attende l’ebraismo come motore di questo dialogo, il che significa affermare che l’ebraismo p un antidoto alla disperazione che spesso comprensibilmente ci attanaglia. L’ebraismo non accetta il cinismo e il nichilismo, filosofie da ricchi, ma si mantiene come pensiero degli ultimi e dei diseredati all’interno di una prospettiva di speranza per la quale il futuro è ancora da scrivere; ma ci ammonisce anche all’urgenza dei tempi, al fatto che il deposito di speranza non è infinito, può consumarsi, può anche esaurirsi. L’urgenza dei tempi è enorme e l’ebraismo può essere un monito per ricordarci che, comunque. sia dobbiamo agire. Il fatto che l’ebraismo sia prima un’ortoprassi che un’ortodossia può far sì che anche in questa urgenza dell’azione questa cultura ci possa essere amica.
Raffaele Mantegazza vive e lavora a Milano. È Professore associato di Scienze umane e pedagogiche al Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano Bicocca e saggista per FrancoAngeli, Castelvecchi, Dehoniane, Fefè. Tra le sue ricerche: la lettura pedagogica della Bibbia; indagini pedagogiche sui confini della vita, nascita, morte, suicidio; la pedagogia e la Shoah.