
Quali sono le difficoltà insite nell’abbandono del petrolio in favore di energie “verdi”?
Cominciamo col dire che il tema non è quello dell’”abbandono” del petrolio e più in generale dei fossili. Il tema è quello di un livello di consumo dei fossili nel nostro paniere di fonti che si abbassi sino ad essere compatibile con l’arginare il riscaldamento globale generato da attività antropiche. Il processo sarà nel senso di un progressivo mutare delle percentuali del nostro mix energetico, senza perciò soluzioni di continuità. Le principali difficoltà di questo processo sono che esso necessita di una fortissima iniezione di investimenti, di una grande spinta tecnologica ed infine di catturare consenso sociale. Per gli investimenti basta pensare al fabbisogno di nuovi convertitori, soprattutto nell’ambito della generazione di elettricità e del suo utilizzo. Poi la tecnologia. Le fonti sostitutive (eolico, fotovoltaico, solare a concentrazione, biofuels e quant’altro) nascono per densità energetica (energia per unità di peso o di volume) e per densità di potenza (W/m2, ovvero di quanto spazio/superficie necessito per unità di potenza) inferiori ai fossili che dovrebbero andare a sostituire. Al progresso tecnologico di colmare il gap; perché la sostituzione con fonte di inferiore densità potrebbe altrimenti essere di ostacolo allo sviluppo ed alla crescita economica.
Infine il consenso. La transizione non è un pasto gratis. Costa e ci costa. Per far partire le rinnovabili abbiamo dovuto usare alternativamente di tasse, divieti e sussidi; chè altrimenti non sarebbero mai riuscite a competere con i fossili. Tasse, divieti e sussidi non possono che far aumentare il costo marginale dell’energia (il produttore fossile che deve pagare una tassa sulle emissioni o riesce a scaricarla sul prezzo a cui vende oppure chiude; onde di fatto alla fine della catena chi paga la tassa sulle emissioni è il consumatore finale). Si dice che il progresso tecnologico abbia per alcune applicazioni già portato al pareggio se non già alla maggiore convenienza del rinnovabile. È in buona parte vero, e però andrebbe raccontato applicazione per applicazione (se ad es. volete far l’acciaio con l’idrogeno su scala industriale e non sperimentale, richiamate dopo il 2024 e forse vi daranno notizie). Sta di fatto comunque che oggi il 20% grosso modo di quel che la Signora Gina paga in bolletta elettrica serve a finanziare i sussidi ai produttori rinnovabili; che per un altro decennio continuerà a finanziarli significativamente; e che questa non è una buona premessa per invitare la Signora Gina a votare per la decarbonizzazione.
Quali sono i costi della transizione energetica?
Ci siamo già detti delle implicazioni connesse al cambiare convertitore ed anche del maggior costo relativo dell’energia connesso alla sostituzione; ed in generale credo possiamo affermare che più cercheremo di velocizzare la decarbonizzazione maggiori saranno i costi a ciò connessi negli anni immediatamente a venire (mi si dirà che ne beneficeremo nel dopo; ma il problema è proprio di far sì che le politiche di decarbonizzazione trovino il consenso necessario all’arrivarci, al dopo). Quello su cui dovremmo soprattutto concentrarci non è tanto il tema dei costi in assoluto; quanto quello della loro distribuzione. Una carbon tax, e dunque la tassazione delle emissioni, rende competitivo l’uso di energie rinnovabili attraverso un aumento (fiscale) del costo della generazione fossile. Applicata indistintamente, avrebbe un effetto equivalente a quello di una tassazione recessiva (comprimerebbe cioè la capacità di consumo dei ceti più deboli assai più che proporzionalmente rispetto ai decili più abbienti). Se mai imboccheremo la strada della tassazione delle emissioni (che è probabilmente lo strumento più diretto e trasparente per stimolare transizione) dovremo perciò porre seriamente il tema delle finalità cui dedicare i suoi introiti. Se li imputiamo a spese pubbliche generali a fini di consenso è già catastrofe; e se invece vogliamo utilizzarli per investire in rinnovabili ed aumentare l’accelerazione, temo ci stiamo scordando che quella tassazione ha in realtà ridotto la capacità di consumo delle famiglie. Tassare senza un vincolo di finalità il carbonio è stata la causa prossima della venuta al mondo dei gilet gialli; e ci sarà pure una ragione se dagli Stati Uniti al Brasile le elezioni sono state vinte da leaders che non avevano il riscaldamento globale nei titoli di testa delle loro agende. Per trovare consenso maggioritario forse dovremmo riuscire a trasformare la tassazione ambientale in strumento di (ri)equilibrio sociale. Redistribuirne i proventi ai cittadini in maniera progressiva (il meno abbiente che riceve più di quanto ha pagato) anziché metterla solo regressivamente in bolletta. Signora Gina le faccio pagare di più l’elettricità ma le aumento ancora di più le detrazioni fiscali; o addirittura e persino la pensione.
Una transizione messa in conto ai meno abbienti ed a quella classe in via di estinzione che una volta chiamavamo piccola borghesia non vince le elezioni; e dunque rischia di non andare neanche ad incominciare.
In che modo la transizione metterebbe a rischio la stessa democrazia?
Ogni volta che abbiamo cambiato fonte e modo di addomesticare energia questo ha anche determinato un mutare delle nostre forme politiche e sociali. Da cacciatori raccoglitori eravamo comunisti; da agricoli democristiani e assai credenti; e poi il fossile ci ha portato la fabbrica, il sindacato, le forme politiche dell’altro secolo e financo le condizioni per l’emancipazione femminile. Sto ovviamente ipersemplificando; ma resta comunque il dato per cui l’energia, per dirla con Smil, è la sola “valuta universale”; che nulla si compie senza una sua trasformazione; e che perciò le forme disponibili ed il modo in cui le addomestichiamo sono tra le determinanti della nostra organizzazione sociale.
I fossili sono in qualche modo stati in Occidente “democratici”; ma lo sono stati perché vien facile essere democratici in condizioni di affluenza ed il fossile ci ha consentito oltre un secolo di Schumpeteriano embarras de richesse. Insomma ci ha fatto impennare reddito e demografia. Adesso stagna (il reddito, non la demografia; che si marcia spediti verso i nove miliardi di sapiens); e se è vero che la transizione costa quel di cui stiamo parlando è che la transizione passa da una contrazione (temporanea?) della capacità di consumo del popolo elettore.
Siamo sicuri di riuscire a decarbonizzare in tempo utile mantenendo le forme del suffragio universale? E siamo sicuri che quella forma politica sopravviverà alla necessità di addomesticare e distribuire energia per nove miliardi di persone?
Lei traccia un nesso tra i gilet gialli francesi e la cerata di Greta Thunberg dello stesso colore, quasi a dare graficamente l’idea che populismo ed estremismo ambientale si alimentino l’un l’altro: in che modo la politica è chiamata a gestire la questione energetica?
La politica ha due handicap, uno culturale e l’altro elettorale.
Quello culturale è che nei cento o duecentomila anni di storia di Homo sapiens (e anche in quel milione o più di anni precedenti in cui per l’orbe terraqueo già si agitavano altri Homini) quello che oggi chiamiamo sviluppo sostenibile è l’esatto opposto di quel che abbiamo praticato. Abbiamo aiutato i mammut ad estinguersi; e poi via agricoltura abbiamo asservito la terra; e poi via rivoluzione industriale ne abbiamo spremuto risorse e le abbiamo restituito rifiuti sul terreno ed emissioni in atmosfera. Non abbiamo mai definito il nostro rapporto di umani con la natura in termini di interrelazione. La natura è nostra creazione, e non nostra interrelazione. La natura che conosciamo è il modo come l’abbiamo rimodellato e come lo rimodelliamo. Temo che la metamorfosi culturale dallo sfruttamento alla conservazione non sarà semplice a compiersi; e la politica avanguardia di una metamorfosi culturale nelle condizioni dell’oggi parmi ipotesi improbabile.
Anche perché la politica misura il tempo in elezioni; ed il clima in generazioni. Lord Carney l’ha definita la tragedia degli orizzonti (temporali). Le elezioni si vincono su argomenti di cortissimo termine; ed il pianeta avrebbe bisogno di visioni di lungo periodo. Purtroppo è raro che qualcuno ti voti se gli chiedi un sacrificio con la promessa di un miglior futuro per suo nipote. Non casualmente l’apparente avanguardia politica della carbonizzazione è composta di politici nominati (ONU, Commissione Europea…); e l’apparente retroguardia da politici eletti dentro i rispettivi confini nazionali. Il Segretario Generale dell’ONU ha proclamato la fine dei sussidi ai fossili; e lo stesso giorno dal Green Deal in salsa italiana veniva cancellata la proposta di sopprimerli. Si erano accorti che togliendo i sussidi aumentava il prezzo del gasolio (agricolo e per autotrasporto) e tendenzialmente diminuivano i voti.
Bisognerebbe esse capaci di costruire un programma che concili la decarbonizzazione con la salvaguardia dei consumi dei cittadini più deboli; e che lenisca anziché approfondire disuguaglianza (insomma immaginarci una transizione un pochino socialista…). Dove le ragioni “verdi” portano a casa il 2%, forse è perché sono rimaste estranee ai temi del consenso e della costruzione di un fronte di governo che ne incorpori almeno progressivamente le ragioni. Tutto e subito, o niente e subito, sono le logiche che apparentano chi veste di giallo; e sono logiche minoritarie, perché il consenso prima ed il governo poi passano dalle virtù della progressività e della mediazione intelligente.
Non ho quasi speranza di una politica all’altezza; però proviamoci, e comunque andiamo a votare.
Se poi non possiamo contare più di tanto su un’efficace azione di governo non ci resta che prestare devozione a Madama Tecnologia e pregare che ci renda tempestivamente possibile una decarbonizzazione che anziché rallentare acceleri lo sviluppo (e a quel punto ovviamente il consenso cesserebbe di essere problema). Buona fortuna a tutti. In passato, in fondo, è sempre successo. La necessità di trovare cibo ci ha fatto inventare l’agricoltura; e la Rivoluzione Industriale usando di fonti che non avevano bisogno di terra ha ricreato le condizioni della nostra sussistenza. Magari ci scappa il miracolo anche col clima, e prima che si affoghi o si finisca arrosto. Se volete fidatevi. Però nell’attesa metteteci del vostro, magari ripensando ai vostri consumi e a forme che vi consentano di indirizzare la politica. Perché per citare Angus Deaton, la necessità può essere e può essere sempre stata la madre dell’invenzione; ma non c’è nulla che ci garantisca il successo del concepimento.
Massimo Nicolazzi è attualmente consulente e a vario titolo amministratore di alcune società operanti nei settori energetico e finanziario. Ha vasta esperienza manageriale nel settore energetico, dove ha sviluppato e gestito importanti progetti in Europa Orientale, Kazakistan e Libia, ricoprendo alte cariche in Agip/Eni e Lukoil e poi come Ceo di Centrex Europe Energy & Gas AG.
Docente di Economia delle risorse energetiche all’Università di Torino, è membro del Comitato Scientifico di Limes e autore di numerose pubblicazioni in materia energetica, tra cui le monografie Il prezzo del petrolio (Boroli 2009) ed ora Elogio del petrolio. Energia e disuguaglianza dai mammut all’auto elettrica, Feltrinelli 2019.