
La donna nel Settecento viveva nei limiti imposti da una condizione di inferiorità rispetto all’universo maschile. Oltre al ruolo di mogli o suore non erano contemplate ulteriori aspettative. La cultura era un privilegio per pochissime ed Eleonora fin da ragazzina ebbe la fortuna di poter studiare alimentando una curiosità intellettuale vivida e brillante che procedeva ponendosi domande e cercando risposte oltre la superficiale riflessione.
Alla fine del XVIII secolo a Napoli convivevano classi sociali ben distinte: da una parte la nobiltà oziosa che consumava la sua vita agiata tra vita di corte e affari redditizi, dall’altra il popolo, quello laborioso che viveva dello stretto necessario senza velleità. Poi c’era la plebe, o meglio i “lazzari”, un esercito di nullatenenti che sopravvivevano con piccoli espedienti quotidiani ed elemosine. A latere cresceva una nuova classe, la borghesia, e con essa gli intellettuali il cui pensiero riformista e lungimirante puntava ad orizzonti nuovi e rivoluzionari. Furono quegli gli anni della “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri e della prima cattedra di Economia Politica di Antonio Genovesi.
Eleonora si era imbevuta dei loro insegnamenti ed apparteneva alla borghesia “illuminata”, pur se i de Fonseca Pimentel si fregiavano del titolo nobiliare di marchesi, ma le condizioni economiche di quella famiglia di origini portoghesi, erano troppo modeste e ben lontane dagli sfarzi tipici dell’aristocrazia napoletana.
Eleonora era nata a Roma, ma trascorse praticamente tutta la sua vita a Napoli assorbendone usi, lingua e soprattutto i problemi sociali. Visse tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli, sentendosi parte di un popolo assoggettato ad una monarchia troppo occupata a preservare gli interessi dell’aristocrazia piuttosto che a migliorare le condizioni dei meno abbienti, garantendo loro almeno un grado elementare di istruzione e la possibilità di una vita più decorosa. Quella dei Borbone è risaputo fu una politica dell’immagine: da una parte gli sfavillanti palazzi nobiliari, le regge e lo sfarzo della corte, dall’altra la miseria dei lazzari e dei contadini nelle province.
Quali vicende segnarono la storia della Repubblica Napoletana del 1799?
Sotto i colpi della rivoluzione francese, le sue conseguenze e l’avanzata napoleonica crollarono i pilastri di monarchie secolari.
Nella prima metà del ‘700 il regno illuminato di Carlo di Borbone aveva restituito alla capitale del Mezzogiorno d’Italia un’immagine prestigiosa. Tra riforme sociali ed ambiziosi progetti edilizi, l’antica Partenope aveva guadagnato un ruolo da protagonista a livello europeo. Ma l’erede al trono Ferdinando IV, dopo l’uscita di scena del ministro riformista Tanucci, non ebbe le stesse capacità del padre nel proseguire l’ammodernamento dello Stato, e pertanto, intimorito dalla minaccia dei francesi rivoluzionari, adottò una politica oscurantista e reazionaria. Del resto Maria Antonietta, la regina di Francia che fu decapitata nel 1793 durante la fase del “Terrore”, era la sorella di Maria Carolina la regina di Napoli. Gli intellettuali napoletani, che in tempi non sospetti avevano frequentato la corte borbonica nella speranza di veder attuate riforme politico-sociali, furono allora sentiti come delle “serpi in seno”, potenziali cospiratori filo-francesi e pertanto entrarono nel novero degli inquisiti.
Eleonora poco più che adolescente si era già fatta conoscere a corte per le sue doti di poetessa e in seguito di bibliotecaria. La frequentazione degli ambienti letterari aveva favorito la conoscenza con gli intellettuali riformisti che guardavano con ammirazione gli eventi rivoluzionari francesi. Profondamente delusa dalla politica reazionaria dei Borbone finì anche lei come gli altri nella lista dei congiurati.
Quali risvolti umani si intrecciarono al suo impegno civile?
Indubbiamente l’infelice matrimonio con il tenente Pasquale Tria de Solis segnò in modo indelebile l’esistenza di Eleonora. La violenza domestica, le incomprensioni, la morte dell’unico figlio ancora in fasce, gli aborti provocati dalle percosse e gli squallidi tradimenti del Tria, contribuirono ad alimentare in lei un dirompente desiderio di libertà, che la condusse a scelte scandalose per una donna di quel tempo, come la separazione che socialmente rappresentava una ignominia. Ciononostante lei affrontò tutto con “fermezza di spirito” e da quei sette anni di sofferenza seppe uscirne a testa alta e più forte di prima.
Fece il suo giro di boa, si ricostruì dalle macerie, trasportando quella fame di libertà oltre la sua vicenda personale. Allora il suo impegno divenne civile: anche Napoli e il suo popolo meritavano di essere liberi e libertà significava Repubblica.
Quale fu il drammatico epilogo della sua esistenza?
Quella della Repubblica Napoletana fu un sogno che finì all’alba. Durò appena sei mesi, giusto il tempo di respirarne l’aria.
Il popolo non ne aveva sentito il bisogno, abituato com’era da secoli a vivere sotto il potere di un sovrano. Era rimasto fedele al suo re che intanto il 24 dicembre del 1798, impaurito dall’arrivo dei francesi lo aveva abbandonato scappando alla volta di Palermo con tutta la corte. Il popolo di Ferdinando IV si fece massacrare dai “liberatori” d’Oltralpe pur di difendere il Regno, ma soprattutto per crogiolarsi in una sfrenata anarchia che consentì agli istinti più primordiali di sprigionarsi in tutta la loro ferocia ammazzando e saccheggiando le case dei sospetti giacobini. Del resto per le masse analfabete era praticamente impossibile comprendere i valori profondi di una democrazia e le responsabilità che la libertà comporta. E la Repubblica non ebbe il tempo di educare quella plebe a diventare popolo. La plebe era troppo avvezza a vivere alle dipendenze di un sovrano padre-padrone, viveva d’istinto e di pulsioni primitive. Consapevole dell’abisso che intercorreva tra gli intellettuali e le masse, Eleonora propose di scrivere e rivolgersi a loro in lingua napoletana, una parte del clero si adoperò a spiegare nelle chiese e sotto gli alberi della libertà il catechismo repubblicano, ricordando che era stato per primo Gesù a parlare di Uguaglianza, ma evidentemente tutto questo non bastò. Refrattarie e superstiziose le masse si scagliarono inferocite finanche contro San Gennaro che aveva osato fare il miracolo in presenza del generale francese Championnet e degenerarono fino a terrificanti scene di cannibalismo.
I teorici del riformismo avrebbero avuto bisogno di tempo per farsi capire, accettare, per varare leggi e soprattutto per liberarsi dalle pretese del Direttorio francese che da liberatore si rivelò ben presto conquistatore pretendendo di tassare anche l’aria. E allora gli intellettuali napoletani e i sostenitori della nascente democrazia furono doppiamente delusi e si ritrovarono da soli ad affrontare la controffensiva borbonica.
Eleonora aveva dato l’anima per quella Repubblica. Fu la prima donna a dirigere un giornale politico. E fu proprio quel foglio, il Monitore Napoletano, a determinare la sua condanna a morte col ritorno dei Borbone.
Napoli vide morire sul patibolo la sua migliore intellighenzia. Fu l’apoteosi del popolo di Ferdinando a cui però lo stesso re, restaurata la monarchia, non volle donare nemmeno una lapide commemorativa.
Durante la Repubblica Napoli si era resa grande agli occhi dell’Europa, ma quando questa finì stroncata nel sangue l’indignazione del mondo fu rimbombante. E allora si rese necessario oscurarne anche la memoria. Tutto, per ordine del re, fu dato alle fiamme: processi, documenti, libri, ritratti. I parenti dei condannati furono perseguitati per generazioni.
Non sapremo mai come era il vero volto di Eleonora. Quell’unico ritratto che oggi di lei conosciamo è di fattura ottocentesca, un miscuglio di ricordi e vaghi lineamenti di una parente che le rassomigliava. Ma almeno sono sopravvissute le sue idee, stralci di vita e le orme indelebili di un’anima rara.
Qual è l’eredita di Eleonora Pimentel Fonseca?
La scarna documentazione storica, finita vittima della damnatio memoriae perpetrata dai Borbone, rarefacendosi col trascorrere dei decenni, ha prodotto di Eleonora ricostruzioni biografiche discutibili e controverse
Da qui le tante ‘Eleonore’ dai variegati volti: la borbonica, la poetessa, la traditrice, la femminista, la rivoluzionaria, l’esaltata, l’infanticida e finanche l’ermafrodita, tutte definizioni arbitrarie, forzate e spesso offensive, ma purtroppo avallate dalle incolmabili lacune documentarie.
Dopo oltre venticinque anni di ricerche, che ho intrapreso da quando ero ancora una ragazzina fresca di laurea con Maria Antonietta Macciocchi, in questo volume ho cercato di raccogliere e far dialogare tra loro una serie di frammenti inediti che ho raccolto nel tempo allo scopo di colmare e rettificare tanti luoghi comuni e incongruenze. Ma il mio intento è stato soprattutto quello raccontare la vita di questa donna inimitabile in modo chiaro, comprensibile, sfatando leggende e maschere teatrali, cercando di restituire alla vera Eleonora la sua identità di persona che va ben oltre gli orpelli di un personaggio enfatizzato. Ho cercato di rendermi strumento del suo ultimo messaggio «Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo» trasmettendolo a chi è desideroso di conoscere quel pezzetto della nostra storia che da secoli fa fatica ad emergere da grovigli di interpretazioni soggettive e infinite contraddizioni.
L’eredità di Eleonora è data dal suo esempio, dalla capacità di esserci senza autocelebrarsi, di vivere e sopravvivere alle avversità, di ritrovare la luce oltre gli anfratti bui e la polvere dei secoli.
Antonella Orefice, ricercatrice storica, saggista e autrice di diversi lavori sul XVIII secolo napoletano patrocinati tra gli altri dalla Società Napoletana di Storia Patria, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e l’Archivio Storico Diocesano di Napoli, collabora attivamente con Enti Culturali e dirige la rivista digitale Nuovo Monitore Napoletano. Fra i vari riconoscimenti ha ottenuto il premio alla ricerca storica dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e la medaglia di benemerenza dal Comune di Napoli.