“Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività” di Isabella Pinto

Dott.ssa Isabella Pinto, Lei è autrice del libro Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività edito da Mimesis. Quale soggettività incarna la Ferrante, voce femminile e, al contempo, affermativamente depersonalizzata?
Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, Isabella PintoGrazie per questa domanda, che nel libro affronto nella terza e ultima parte intitolata Performatività. Diffrangere l’autorialità, perché mi dà modo di dire fin da subito che definire la soggettività di Elena Ferrante desumendola dalla sua opera è affare complesso, di cui troviamo però molte utili tracce in La frantumaglia e in L’invenzione occasionale. La ricerca che ho condotto sull’opera della misteriosa autrice – in Italia ancora troppo spesso osteggiata come materia di studio accademica – mi ha permesso di apprezzare come Elena Ferrante costruisca una soggettività basata su un “continuum realfinzionale” – richiamando implicitamente il continuum naturcultura di Donna Haraway – e dunque mettendo in scena elementi autobiografici ma a cui non possiamo assegnare un preciso autore empirico.

Affondando la propria genealogia in una eterogenesi del postmoderno, ma aprendosi alle poetiche che si situano all’interno del cosiddetto “ritorno alla realtà”, la soggettività incarnata da Elena Ferrante fa tesoro dei traumi, delle lotte e delle invenzioni dei delle donne dei movimenti femministi, che forse per prime hanno dovuto fare i conti con la necessità di divenire soggettività autonome e al tempo stesso di sentirsi soggetto collettivo, e dunque fare spazio al molteplice e alla singolarità. Ecco quindi tutta una rivisitazione, da parte di Ferrante, delle tecniche narrative e delle teorie filosofiche per raccontare una serie di voci individuate, ma al tempo stesso costruita da tante altre voci. Una modalità messa in atto già da Roberto Saviano, con Gomorra, che genera uno sguardo molto potente, ma a cui quest’ultimo non ha saputo sottrarsi, preferendo far credere che fosse solo lui l’unico e il miglior testimone di ciò che raccontava, rappresentando individualmente la voce moltitudinaria che aveva costruito nel romanzo.

Differentemente Elena Ferrante usa la potenza della storyteller creando uno spazio di assenza nel posto di potere dell’autore empirico che, a ben volere, può essere “occupato” da altr* – come testimonia l’esempio della visibilità data al lavoro della traduzione, poiché negli USA è spesso intervenuta in sua vece Ann Goldstein, traduttrice di Ferrante dall’italiano all’inglese -, con una coerenza che dura da quasi trent’anni, ovvero dal 1992, anno di pubblicazione del suo primo romanzo, L’amore molesto.

Quali tratti caratterizzano la scrittura di Elena Ferrante?
La scrittura di Elena Ferrante è caratterizzata da un’apparente fluidità, che nasconde diversi artifici molto interessanti e innovativi nel panorama letterario contemporaneo.

Un esempio è l’uso allusivo del dialetto napoletano, che emerge dal mantenimento delle strutture sintattiche del parlato dialettale e dalla traduzione italiana di alcune parole, come il caso esemplare di frantummàglia, che in italiano diventa “frantumaglia”, andando a ricoprire una funzione simile a quella della glossolalia.

Un altro elemento che caratterizza la scrittura della misteriosa autrice è l’adozione di una serie di tecniche narrative per costruire narrazioni polifoniche, come, ad esempio, l’uso della soggettiva libera indiretta, che affonda le sue radici nel discorso indiretto libero di I Malavoglia di Giovanni Verga, e arriva fino a Pier Paolo Pasolini, quale modalità per far emergere non solo più voci di diversi personaggi, ma anche la distanza che separa il punto di vista dell’autore empirico e i punti di vista delle narratrici, rendendo in un certo senso possibile risalire al travestimento di quello sguardo, di quella voce.

La polifonia della traduzione si rivela così essere, nella scrittura di Elena Ferrante, un elemento per far emergere una polisemia relazionale, creando narrazioni sorrette da un’inedita istanza narrativa che, richiamandomi al lavoro di traduzione e teorico di Anita Raja, propongo di chiamare “narratrice traduttrice”.

Come si esprime il rapporto mitologico madre-figlia nelle sue opere?
Il rapporto mitologico madre-figlia, soprattutto nella prima fase della ricerca letteraria di Elena Ferrante – ma ripreso altresì nell’ultimo romanzo, La vita bugiarda degli adulti -, si esprime a mio avviso come occasione per raccontare parti di realtà rimaste non simbolizzate nella cultura occidentale, ancora profondamente patriarcale, ovvero che mette al centro delle narrazioni solamente figure maschili, eteronormate, eroiche, lasciando alle figure femminili o femminilizzate il ruolo ornamentale di ancelle e muse ispiratrici.

Attraverso la riscrittura delle versioni minori di alcuni miti, come quelli di Demetra e Kore, di Medea, di Didone, di Leda e Zeus – che Ferrante rintraccia per lo più nei testi di Apollodoro – in un certo senso l’autrice ripete il gesto di alcune filosofe e scrittrici come Luce Irigaray, Hélène Cixous, Christa Wolf, Luisa Muraro, Adriana Cavarero – gesto utile a rintracciare un diverso ordine sociale che ha preceduto il tempo raccontato dai miti greci e latini, in cui le figure femminili erano maggiormente centrali nella cultura e nella vita pubblica – per riaffermare la funzione mitopoietica di una nuova soggettività.

D’altronde però, il rapporto mitologico madre-figlia per come raccontato da Elena Ferrante fa tesoro delle invenzioni di Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, della “matrofobia” di Adrienne Rich, del pensiero cyborg di Donna Haraway, dell’analisi storica della strega di Silvia Federici, per includere il perturbante femminile quale elemento chiave nella costruzione delle relazioni, che spesso e volentieri sono relazioni di disparità, proponendo una sorta di “storicizzare le genealogie femminili”, ovvero il sentire il lato oscuro del “potere” della “madre” anche all’interno del proprio processo di soggettivazione, sempre relazionale, sempre transindividuale.

Qual è il rapporto tra soggettività e narrazione nell’opera della Ferrante?
Il rapporto tra soggettività e narrazione è un tema che corre attraverso tutto il mio libro. Credo infatti che l’opera di Elena Ferrante offra interessanti spunti per comprendere poeticamente e politicamente come narrazione e soggettività siano due elementi fortemente interconnessi nel nostro presente. Dal ritorno di leader “forti”, all’avvento dei social network – che inducono le persone a uno svuotato “parlare di sé” -, fino alla riemersione di forme di scrittura quali l’autofiction, il memoir e il personal essay, vediamo come da un lato l’ordine del discorso neoliberista sussuma il racconto di sé, ma dall’altro esso si rivela anche essere, potenzialmente, una tecnologia di sé non solo assoggettante, ma anche di soggettivazione.

L’opera di Ferrante mette in scena almeno due elementi che tentano di scardinare il lato assoggettante di questa forma di cattura linguistica e culturale. Il primo è la femminilizzazione delle voci narranti, che paradossalmente, proprio grazie alla loro parzialità, si rivelano essere maggiormente aderenti ad un nuovo racconto della realtà (caratterizzato dal trauma e da un rinnovato impegno civile). Il secondo è l’assenza dell’autrice empirica dai riti mediatici e dalla verifica fattuale delle sue “fantasie di autofiction”, che hanno il potere di mostrare tutto l’artificio sotteso a questo tipo di scritture, ma anche l’artificio sotteso alle narrazioni che si dicono veritiere per il semplice fatto che chi le racconta si dice singolo testimone di qualcosa. Anche quando raccontiamo un’esperienza personale non è detto che stiamo raccontando la verità, proprio perché l’arte del racconto è un fatto culturale corredato da stereotipi, ripetizioni, tecniche, saperi pregressi, pregiudizi, che vestono irrimediabilmente il nostro sguardo, e in cui la differenza sessuale e di genere risulta essere spesso uno svantaggio nella lotta tra testimoni.

D’altronde l’analisi del rapporto tra soggettività e narrazione nell’opera di Elena Ferrante è stato il taglio che mi ha permesso di far emergere le tecniche narrative di autrici e autori come Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Audre Lorde, Sibilla Aleramo, e le filosofie femministe, transfemministe e queer che hanno risignificato le soggettività che non coincidono con la norma dell’Uomo, maschio, bianco, occidentale, normodotato, proprietario di donne, macchine e bambini. Un taglio politico e poetico, e forse, infine poethico, per citare Denise Ferreira Da Silva, filosofa e artista brasiliana, che ci permette di apprezzare altri sguardi e altri ordini narrativi, oltre quello egemone.

Quali dispositivi narrativi caratterizzano L’amica geniale?
L’amica geniale è una tetralogia che conta 1630 pagine, e dunque al suo interno possiamo trovare davvero molti dispositivi narrativi. Per ovvi limiti di tempo è spazio ne cito solo alcuni, come l’uso di una scrittura emotiva – sulla scia di Pier Vittorio Tondelli e Gilles Deleuze – che serve a destabilizzare la temporalità lineare e progressiva, come testimoniano, ad esempio, le riscritture delle parti che raccontano gli episodi di smarginatura di Lila. Questo elemento si aggancia alla serialità della narrazione ma ridefinendola totalmente, infatti Ferrante riattualizza la forma del felluiton per scavare all’interno di episodi già narrati da Lenù, narratrice inattendibile, per estirpare dalle soggettività femminili e femminilizzate l’immaginario dell’irrazionalità patologica come unico modo per differenziarsi dalla cultura patriarcale.

Su questo solco la diffrazione temporale, teorizzato per altri versi da Karen Barad, è un dispositivo che decostruisce anche la forma del Bildungsroman, unendolo al racconto di un divenire soggetto che è relazionale, a due, come testimonia il dispositivo narrativo dell’amicizia femminile (altro luogo impensato dalla cultura patriarcale, che in L’amica geniale torna come occasione creativa), modellato, per certi versi, sulle pratiche femministe dell’inconscio e dell’autocoscienza.

Infine la “fantasia di autofiction”, dispositivo narrativo che costituisce una incredibile novità, a mio avviso, nel panorama del Global Novel, poiché unisce racconto autobiografico, narrazione finzionale e discorso meta-narrativo, decostruendo e mettendo in crisi le dicotomie realtà/finzione e vero/falso. Grazie all’ultimo libro della tetralogia, Storia della bambina perduta, lettrici e lettori sono catturati all’interno della trama finzionale, sentendosi in qualche modo spronati a interrogarsi sul senso generale di ciò che hanno letto, su come la voce che hanno seguito fino a quel momento abbia ordinato la realtà a proprio modo, uno tra tanti possibili, e su cosa di vero c’è in questa narrazione geniale e popolare al di là della verifica fattuale sulle singolari esperienze dell’autore empirico.

Isabella Pinto è ricercatrice indipendente, dramaturg e attivista. Nel 2019 ha ottenuto un Ph.D. European Label in Studi Comparati presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Collabora con riviste culturali e scientifiche tra cui «DWF», «Testo & Senso», «L’ospite ingrato», «Leggendaria» e «Narrative – The Ohio State University Press». Dal 2017 è coordinatrice del Master in Studi e Politiche di Genere dell’Università degli Studi di Roma Tre. Nel 2018 ha co-curato i volumi Women Out of Joint. Dopo Hegel, su cosa sputiamo?, La Galleria Nazionale e Bodymetrics. La misura dei corpi. Quaderno Tre: crisi, conflitto, alternativa, IAPh-Italia. Nel 2020 è stato pubblicato il suo primo volume monografico Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, Mimesis Edizioni.

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