
Ma lei mi chiede cosa ha consentito quei successi, tanto importanti quanto lontani. Perché un’economia possa crescere occorre (ma come vedremo tra un attimo non basta) che siano disponibili lavoro (a basso costo), capitali e tecnologia. Nell’Italia degli anni cinquanta la riserva di lavoro proveniva da coloro che abbandonavano le campagne per riversarsi nelle città attirati dalla speranza di trovare un lavoro e un reddito (un po’ come fanno, oggi, i migranti che abbandonano l’Africa); il capitale iniziale per mettere in moto il processo proveniva dall’estero; all’inizio dagli aiuti americani all’Europa; in seguito provenne dal flusso di investimenti delle imprese italiane e di quelle estere. Infine, la tecnologia proveniva sempre dagli Stati Uniti (su quel terreno loro erano molto più avanti di noi; bastava copiarli per rendere molto più produttive le nostre imprese).
Naturalmente quelle condizioni favorevoli andavano sfruttate. La politica economica di quegli anni ha contribuito abbattendo le barriere doganali e inserendo la nostra economia in un sistema di tassi di cambio fissi, cosa che ha allargato i mercati italiani di rifornimento (di materie prime) e di sbocco (di prodotti esportati). Infine ha contato, per l’Italia come per gli altri paesi, il clima macroeconomico, allora ispirato alle idee keynesiane che rassicuravano le imprese che gli sbocchi per la domanda dei loro prodotti sarebbero stati garantiti, ove fosse stato necessario, dagli interventi pubblici. E la cosa interessante è che di questi interventi non c’è stato bisogno perché la rassicurazione pubblica spingeva le imprese a investire e a far crescere la domanda aggregata.
Quali fattori hanno determinato il successivo declino economico del nostro Paese?
Le cose avevano cominciato a guastarsi con la fine della golden age, più o meno all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, quando venne meno gran parte degli elementi che avevano favorito la grande crescita dell’economia mondiale nei decenni precedenti. La piena occupazione determinò una forte crescita dei salari e del costo del lavoro, cui si aggiunse, a livello mondiale, un rapido aumento dei prezzi delle materie prime culminato nella esplosione del prezzo del petrolio. Infine venne meno il regime di cambi fissi. Tutto ciò fece esplodere l’inflazione dei prezzi. Anche in questo caso il fenomeno era generale (riguardava un po’ tutte le economie) ma da noi era particolarmente forte. Per un’economia come quella italiana, caratterizzata da una moltitudine di piccole imprese esportatrici, il nuovo quadro comportava una forte perdita di competitività. Per alcuni anni si è cercato di recuperarla e di alimentare la crescita economica ricorrendo alla svalutazione del cambio, che però aveva il costo di accrescere l’inflazione dei prezzi.
Alla fine degli anni settanta i vantaggi di questa continua rincorsa tra cambio, prezzi e costi si esaurirono e si decise di cambiare strada. Si provò a ricorrere al vincolo estero (che aveva dato così buoni risultati negli anni cinquanta). Per farlo si decise di rientrare in un sistema di cambi fissi e di realizzare l’indipendenza della Banca d’Italia (che in precedenza era obbligata a finanziare i disavanzi e i debiti del tesoro). La cosa, però, non funzionò: l’inflazione diminuì ma la crescita economica si arrestò. Anche per contrastare la recessione, i governi continuarono spendere (male) e a indebitarsi (stavolta verso il mercato). Il debito pubblico iniziò una rapida crescita che, nel corso di poco più di un decennio, condusse al suo raddoppio. Da allora esso rappresenta un macigno che ha spiazzato le risorse disponibili per le imprese e ha drasticamente tagliato i margini per gli interventi di politica economica.
Cosa ha significato per l’economia italiana l’ingresso nell’Eurozona?
Come argomento nel mio libro, l’euro non è stato una buona idea, e inizialmente (all’inizio degli anni novanta) era stato pensato per risolvere problemi geopolitici tra la Francia e la Germania unificata. Non c’era alcuna intenzione di estenderlo a paesi come l’Italia (o la Spagna e la Grecia). Ma l’invito a partecipare andava comunque rivolto a tutti i paesi dell’Unione europea, purché, appunto, rispettassero certi requisiti (i parametri di Maastricht) nella convinzione che i paesi da lasciar fuori non avrebbero avuto né l’interesse né la capacità di rispettarli (come appunto avvenne inizialmente per la Grecia). Invece l’Italia decise di accettare l’invito e di impegnarsi a rispettare quei requisiti. Il motivo era duplice: la speranza che un vincolo esterno ci imponesse di fare le riforme di cui avevamo bisogno e i grandi vantaggi in termini di bassi tassi di interesse e di apertura dei mercati (delle merci, dei capitali, del lavoro) promessi dall’adesione alla moneta unica.
Come sappiamo, l’Italia riuscì, al prezzo di rilevanti sacrifici, a rispettare (quasi) tutti i parametri di Maastricht (l’eccezione era appunto il livello del debito pubblico) e all’inizio del nuovo millennio entrò nell’Eurozona. Naturalmente, dato il costo dell’operazione in termini economici e sociali, chi aveva condotto il nostro paese fino al traguardo perse le elezioni. I vantaggi del nuovo regime vennero ereditati da un nuovo governo che, a parte una breve parentesi, avrebbe gestito l’economia italiana fino all’avvento della grande crisi economica mondiale. Purtroppo non approfittò di questi vantaggi. Avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare questo periodo di vacche grasse per fare le riforme e per ridurre significativamente il debito pubblico. Ma non lo fece. Anzi, per molti aspetti si comportò da cicala (per i dettagli non posso che rinviare al libro). Sicché, quando scoppiò, la crisi colpì l’economia italiana in modo violento: la recessione da noi è stata molto più forte e prolungata che nel resto dell’Europa e del mondo.
Come ha affrontato l’Italia la grande recessione?
All’inizio negandola (i ristoranti sono pieni). Poi ci hanno pensato i mercati (lo spread) a costringerci a un bagno di realismo. E inizialmente, più che un bagno, fu proprio una doccia gelata. Il governo Monti, chiamato a gestire il paese nel pieno della crisi, si trovava a dover fronteggiare una situazione di sostanziale collasso. Esso agì in fretta e non fece sconti a nessuno. Riuscì a riportare sotto controllo i conti pubblici, a ripristinare la fiducia dei mercati e a tamponare le falle, ma ha finito con l’accentuare la recessione calamitando su di sé l’odio degli italiani. Il suo lavoro sporco ha ottenuto il risultato di riportare in linea di galleggiamento la barca dell’economia italiana. I governi successivi hanno cercato di indirizzarla lungo un percorso di crescita. Era, come è stato detto, un sentiero stretto, un compito arduo. La struttura economica aveva (e ha ancora) bisogno di riforme, ma l’esistenza del debito pubblico e la necessità di tenerlo sotto controllo (e, possibilmente, di ridimensionarlo) sottraeva risorse da destinare alla loro realizzazione e al sostegno della domanda aggregata. Al tempo stesso, l’atteggiamento di politica economica dell’Unione europea, di segno inutilmente restrittivo, non ci ha certo aiutato. Nonostante ciò, la crescita è ricominciata, anche se ancora un po’ troppo timida. Nell’ultima relazione della Banca d’Italia troviamo scritto che basterebbe ancora insistere per un po’ sulle linee di politica economica degli ultimi anni per consolidare i risultati e vedere finalmente un po’ di luce.
Quale futuro a Suo avviso per l’economia italiana?
Dipende da tante cose. Come ci racconta la cronaca di questi mesi, i governi che hanno guidato il paese negli ultimi anni sono stati sconfitti alle elezioni (un po’ come era successo, all’inizio del millennio, per i governi che ci avevano portato al traguardo della moneta unica). Il nuovo governo, almeno a parole, ha intenzione di cambiare strada. Per vincere le elezioni i partiti che lo hanno costituito hanno cercato di sfruttare il vento dell’antipolitica, il diffuso malessere per l’eccesso di carico fiscale (al nord) e per l’assenza di prospettive di occupazione (al sud) e la crescente ostilità nei confronti dell’Unione europea formulando una serie di promesse: riduzione del carico fiscale (soprattutto per i più ricchi), generalizzazione dei sussidi di disoccupazione, politiche di espansione della domanda aggregata (investimenti) da finanziare accrescendo il disavanzo, non escludendo l’ipotesi, ove si rivelasse necessaria, dell’uscita unilaterale dall’euro. Sono promesse che sono risultate attraenti per una parte (maggioritaria) dell’elettorato, ma che sembrano francamente irrealizzabili. E la sola idea di provare a metterle davvero in agenda rischia di avere effetti destabilizzanti, e non solo per la nostra economia (il fatto che lo spread sia tornato recentemente a crescere è un chiaro campanello d’allarme). C’è insomma il rischio che abbandonando il sentiero stretto dei precedenti governi si finisca in un vicolo cieco, al termine del quale non rimane che la richiesta di aiuto alla trojka e l’inevitabile contropartita di una drastica perdita di autonomia per quanto riguarda le proprie scelte (esattamente il contrario di quanto rivendicato a parole).
Inoltre il quadro internazionale non promette nulla di buono. Ci sono chiare avvisaglie dello scoppio di una guerra commerciale degli Stati Uniti contro il resto del mondo (in primis contro la Cina, ma anche contro tradizionali alleati come l’Unione europea e il Canada). Di nuovo, il contrario di quel che era avvenuto negli anni cinquanta del secolo scorso, quando l’apertura dei mercati aveva favorito la grande crescita dell’economia mondiale (e di quella italiana). In teoria potrebbe supplire una politica di sostegno della domanda aggregata da parte dell’Unione europea, ma, al momento, una prospettiva del genere appare minoritaria e improbabile.
D’altra parte anche la strada vecchia, quella dei precedenti governi, appariva tutt’altro che priva di ostacoli. Ricordiamo i due principali: il primo è l’insufficiente dinamica della produttività, la quale fa sì che la crescita dell’economia italiana sia stata, prima e dopo la crisi, molto inferiore a quella degli altri paesi europei; il secondo è il livello abnorme del debito pubblico, che assorbe le risorse che potrebbero essere destinate a far crescere gli investimenti e la produttività, e che toglie quasi tutti gli spazi all’adozione di politiche economiche di sostegno della domanda aggregata. Con questi problemi qualunque governo che guiderà l’Italia nei prossimi anni dovrà necessariamente confrontarsi.