
L’evento cancro rappresenta un trauma per l’essere umano. Oltre a essere un evento inaspettato, improvviso, imprevedibile, lo coglie impreparato e incapace di gestire l’enorme e intensa sofferenza emotiva che genera. Ogni evento traumatico, infatti, è caratterizzato da elementi che spiegano sia il grosso sconvolgimento emotivo al momento della diagnosi, sia i grandi cambiamenti psicologici che avvengono nel lungo periodo. Sostanzialmente, chi vive un trauma è costretto a fare i conti con la propria mortalità – naturalmente “negata” alla luce della spinta alla sopravvivenza con la quale ogni essere umano nasce; con la propria vulnerabilità – chi si vive immortale è anche naturalmente convinto che niente gli può accadere; con la consapevolezza di non avere il controllo su futuro, vita, salute; l’esperienza traumatica, inoltre, inducendo la chiara comprensione di come va la vita e, quindi, fa perdere l’ingenuità correlata alle illusioni che, generalmente, la governano quando non ci si è mai confrontati con importanti eventi dolorosi. Nel lungo periodo, quindi, l’importante compito che aspetta ogni paziente oncologico, come ogni altra persona che vive un qualsiasi altro trauma, è quello di riorganizzare la propria esistenza su premesse nuove che contemplano le dolorose acquisizioni di essere mortale, vulnerabile e di non avere controllo.
Oltre alla paura di morire, e all’ansia correlata alla situazione di incertezza tipica di questa malattia, altre emozioni caratterizzano la traiettoria del paziente oncologico adulto – quali rabbia, tristezza, colpa, per lo più correlate a specifica biografia del singolo, fase del ciclo vitale attraversato e progettualità correlata, presenza/assenza di supporto familiare e sociale, esiti e andamento del percorso di malattia e cure.
L’elevata sofferenza psicologica implica un elevato consumo di energia mentale che giustifica, accanto alle conseguenze fisiche dei trattamenti, la stanchezza fisica, la mancanza di voglia di fare e l’abbandono di usuali attività familiari e/o lavorative. In alcuni casi, questo stato può essere erroneamente interpretato come depressione.
Anche la fase della lungosopravvivenza può essere caratterizzata da stressors, per quanto diversi da quelli delle fasi iniziali. Il passare del tempo induce preoccupazioni relative ad una possibile ricaduta e all’insorgenza di un nuovo cancro: la condizione di “sopravvissuto” è caratterizzata da incertezza – ulteriormente confermata dalla necessità di continui controlli ed esami –; consapevolezza della morte e del potenziale accorciamento della vita; diversa percezione del proprio corpo a causa di interventi mutilanti che alterano, in diversi gradi, l’immagine corporea; preoccupazioni riguardo a sessualità e fertilità; sofferenza psicologica legata alla perdita del senso di identità o all’alterazione delle relazioni familiari e sociali; ansia, stress e depressione, che possono permanere anche a molta distanza dalla diagnosi; preoccupazioni legate a possibile discriminazione sul lavoro e assicurativa.
Quale importanza riveste la dimensione psicologica dell’esperienza di malattia?
La letteratura dimostra sia l’associazione tra disagio mentale e malattie gravi ed invalidanti, sia come un miglior funzionamento psicoemozionale (per esempio, resilienza, strategie di coping adattive, ottimismo, autoefficacia, percezione di controllo) svolga un ruolo protettivo nelle avversità, e tali risultati riguardano anche l’oncologia.
Gli approcci bio-psico-sociale e patient-centered sono una realtà incontestabile oggi, così come è incontrastato il ritenere la salute non mera assenza di malattia, ma completo benessere fisico, psicologico e sociale.
Non c’è dubbio, quindi, che la dimensione soggettiva-psicologica sia importante in ciascuna delle fasi di malattia e che la qualità dello stato psicologico influenzi le risposte alle sfide imposte dalla malattia.
In questa sede ci piace anche richiamare la complessità della dimensione psicologica che comprende non solo l’ambito strettamente emozionale (vissuti, emozioni, stati d’animo, sentimenti, significati), ma anche quello cognitivo (pensiero, memoria, ragionamento, percezione, attenzione..), sociale (relazioni familiari, amicali, lavorative) ed esistenziale.
Come viene affrontata l’esperienza di malattia in altre fasi del ciclo di vita?
Il parlare di “fasi del ciclo di vita” sottende il ritenere che nelle diverse epoche dell’esistenza di una persona ci siano specifici livelli di sviluppo (esiti dell’interazione tra fattori biologici innati e fattori ambientali) e obiettivi di sviluppo. Entrambi questi elementi influenzano il nostro agire in ciascuna situazione, malattia compresa. Il nostro interagire con il mondo (fisico e sociale) dipende da abilità e competenze possedute, ma anche dall’esperienza accumulata. Così, ad esempio, la “qualità” del mio stare in gruppo (a scuola o al lavoro) dipende dalla mia conoscenza delle dinamiche relazionali che si istaurano nel gruppo, dalla mia capacità di cogliere segnali e significati, dall’esperienza maturata in frangenti simili. Un bambino della scuola dell’infanzia, un bambino della scuola primaria, un ragazzo della secondaria di secondo grado, un adulto e un anziano si comporteranno in modo diverso, per esempio entrando a far parte di un gruppo nuovo, perché il loro bagaglio esperienziale dei gruppi, ma anche le loro conoscenze, abilità e competenze collegate sono diverse. Ciò accade anche nella malattia. L’ampiezza e la solidità dello “strumentario” cognitivo, emozionale, ma anche sociale, del minore di età diverse è diverso e ciò determina la sua comprensione e la sua “immersione” nella malattia stessa. Mutatis mutandi, ciò accade anche per le persone anziane, che devono fare i conti con il naturale processo di invecchiamento psicofisico connaturato all’avanzare dell’età. Eventi paranormativi “importanti”, come l’insorgenza di un cancro, rappresentano (come detto in precedenza) un’interruzione della propria “trama esistenziale”; provocano, nella maggior parte dei casi, il dover posporre il raggiungimento di un obiettivo e/o un suo ridimensionamento: la natura e l’urgenza di tale obiettivo sono direttamente proporzionali alla gravità attribuita all’evento causa del suo ridimensionamento.
Non va poi dimenticato come, sia in età evolutiva che nella terza età, la famiglia ha un ruolo fondamentale in tutte le esperienze dell’individuo, e ciò è ancora più vero in frangenti “faticosi” quali sono appunto le malattie gravi come il cancro. Il livello di presenza e la qualità del funzionamento della famiglia rivestono un ruolo imprescindibile nell’esperienza soggettiva del suo componente, minore o anziano, malato.
Quale impatto ha il cancro sulla famiglia del malato?
Nel suo ciclo di vita la famiglia può trovarsi ad affrontare eventi traumatici non previsti (paranormativi). La famiglia, in quanto organismo unitario, va considerata un sistema colpito dal cancro (malattia familiare); così come accade al paziente, anche per la famiglia si apre una crisi che richiede importanti cambiamenti – ruoli, organizzazione, responsabilità, priorità, ritmi della vita quotidiana, ecc. – finalizzati all’accudimento del malato e alla propria sopravvivenza come sistema.
Anche il processo di adattamento della Famiglia al cancro prevede delle fasi: shock (diagnosi), in cui la risposta emotiva prevalente è l’angoscia derivante dall’impatto con la morte e dalla repentina sensazione di privazione di progettualità. Come il paziente, anche il sistema familiare si organizza dal punto di vista difensivo attraversando una fase di negazione-rifiuto, cui segue una fase di disperazione – dovuta alla graduale acquisizione di consapevolezza delle possibili conseguenze del cancro –, per approdare, infine, a un auspicabile adattamento nella fase di rielaborazione-accettazione. Quest’ultima è idealmente caratterizzata dal complessivo raggiungimento di un nuovo equilibrio, da un atteggiamento più operativo centrato sulle difficoltà da affrontare.
In generale, quanto più i processi relazionali si adeguano alle minacce di separazione e perdita rappresentate dalla malattia tanto maggiore sarà l’adattamento psicologico. Nella maggior parte dei casi, la famiglia affronta l’evento imprevisto del cancro con la giusta adattabilità riuscendo, quindi, a mantenere e/o preservare il proprio equilibrio. In alcuni casi, però, la malattia sortisce l’effetto di modificare non solo le relazioni attuali ma anche il loro destino, divenendo un catalizzatore potente di una nuova organizzazione delle relazioni e un punto di non ritorno per il sistema familiare perché opera, inevitabilmente, una radicale trasformazione dei comportamenti e dei legami.
Quale importanza assume la comunicazione nella relazione terapeutica?
In ambito sanitario, il livello di complessità della comunicazione aumenta notevolmente rispetto alla comunicazione quotidiana in relazione a: 1. pervasività di emozioni negative (paure e ansie), sperimentate dal paziente in relazione all’esperienza di malattia, che alimentano in lui un’attesa di accudimento, oltre che di risoluzione del problema fisico; 2. tipo di rapporto operatore sanitario-paziente, caratterizzato dall’asimmetria delle posizioni ricoperte dai due interlocutori, poiché l’uno – il paziente – ha un bisogno (di salute) cui l’altro – l’operatore sanitario – è tenuto a dare una risposta (responsabilità terapeutica). Nel contesto sanitario il concetto di responsabilità terapeutica assume un’accezione ampia, che va oltre la ‘cura’ (Cure) della malattia organica e include il prendersi cura (Care) della persona malata affinché questa, sentendosi compresa e meno sola, possa contribuire a curare se stessa attraverso atteggiamenti più fiduciosi e attivi. 3. Difficoltà proprie del contesto di cura (mancanza di spazi adeguati, interruzioni continue, rumori). 4. Non da ultimo, la mancata formazione/preparazione degli operatori sanitari alla valorizzazione e all’utilizzo della comunicazione come strumento terapeutico.
Per tali ragioni, va fermamente sottolineato che la comunicazione con il paziente non può essere lasciata alla spontaneità e allo spontaneismo: non si può pensare di gestirla attraverso le competenze sociali della comunicazione quotidiana, né di acquisirla “automaticamente” con il passare degli anni e/o con l’“esperienza” lavorativa. In quanto comunicazione professionale, segue regole diverse da quella quotidiana e necessita di abilità tecniche che vanno adeguatamente apprese e allenate.
La relazione è l’obiettivo nuovo della medicina centrata sul paziente, per la creazione e il mantenimento della quale è fondamentale occuparsi delle emozioni del paziente, del suo punto di vista su quanto gli sta accadendo, delle sue aspettative, dei suoi desideri, e del suo contesto familiare/sociale di riferimento. In definitiva, la premessa perché una relazione realmente terapeutica, si possa realizzare è il riconoscimento, da parte del professionista, dell’Altro come essere umano che ha un problema di salute, con tutti i suoi bisogni, che cerca sì la soluzione al problema fisico, ma si aspetta anche di trovare accudimento al suo dolore psichico. Alla luce di quanto affermato, la relazione si struttura come relazione di aiuto.
Maria Antonietta Annunziata, psicologa-psicoterapeuta, Responsabile della Struttura Operativa Semplice Dipartimentale di Psicologia Oncologica dell’IRCCS Centro di Riferimento Oncologico di Aviano (PN). Da più di vent’anni è docente a contratto di Psicologia/Psiconcologia presso l’Università di Udine; ha una consolidata esperienza di formatore nell’ambito della comunicazione-relazione per medici e infermieri in oncologia; è autrice di numerose pubblicazioni in lingua italiana ed inglese.
Barbara Muzzatti, psicologa, dottore di ricerca e psicoterapeuta, è docente a contratto per il settore scientifico-disciplinare di psicologia clinica e ha una consolidata esperienza di ricerca, maturata soprattutto in ambito psico-oncologico. È autrice di numerose pubblicazioni in lingua italiana ed inglese e nel 2012 ha pubblicato con Carocci Salute e qualità della vita, il benessere globale dell’individuo, mentre nel 2014 ha curato con M. A. Annunziata La qualità di vita dopo il cancro, Il Pensiero Scientifico Editore.