“Elementi di psicologia giuridica e criminologica” a cura di Irene Petruccelli

Prof.ssa Irene Petruccelli, Lei ha curato l’edizione del libro Elementi di psicologia giuridica e criminologica edito da FrancoAngeli: di cosa si occupa la psicologia giuridica e criminologica?
Elementi di psicologia giuridica e criminologica, Irene PetruccelliSì, questo testo è il frutto di vent’anni di esperienza maturata in questo ambito come docente universitaria, ma anche come esperta sul campo. La mia carriera come psicologa giuridica, infatti, si è costruita affiancando per dieci anni il mio maestro, il prof. Gaetano De Leo padre della psicologia giuridica romana, per il quale sono stata cultrice della materia e responsabile dell’area perizie della Sua cattedra presso la Sapienza e, con lui, ho appreso e praticato le diverse metodologie peritali nei vari contesti.
Questo testo, pertanto, nasce dall’esigenza da un attento lavoro del gruppo di esperti dell’Accademia di Psicologia Sociale e Giuridica di Roma per l’informazione, la formazione e l’aggiornamento necessari per studenti e studentesse, ma soprattutto per operatori e operatrici su tematiche attuali, di ambito civile e penale, che accendono la diatriba sia scientifica, che giudiziaria, così come anche clinica, su argomenti attuali ed estremamente controversi quali l’alienazione parentale, la rilevazione e rivelazione nei casi di abuso su minore, l’omogenitorialità, la disforia di genere, il femminicidio, il figlicidio, etc..

La psicologia giuridica si configura come una disciplina a cavallo tra i “saperi” psicologici e quelli giuridici; nello specifico può essere ulteriormente declinata in psicologia giudiziaria: che si occupa di studiare le dinamiche dei processi giudiziari e le persone che vi partecipano (testimoni, avvocati, giudici); in psicologia legale: che riguarda l’insieme delle nozioni psicologiche che intervengono nell’applicazione delle leggi, le dimensioni psicologiche presenti nelle norme, il contributo della psicologia all’elaborazione normativa in ambito civile e penale; in psicologia rieducativa: che si interessa della persona condannata, dell’esecuzione penale, dei trattamenti attuati; infine, in psicologia criminologica: che studia la persona in quanto autrice di reato, analizzando quindi sia i fattori inerenti la criminogenesi, ma anche quelli della criminodinamica e le carriere devianti.

Tra i temi affrontati dal volume, vi è l’alienazione genitoriale: cos’è la PAS (Parental alienation syndrome) e quali conseguenze psicologiche produce?
Richard Gardner, psichiatra statunitense, nel 1985 descrisse la sindrome di alienazione genitoriale (PAS) come «un disturbo che insorge principalmente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. La sua manifestazione principale è la campagna di denigrazione rivolta contro un genitore: una campagna che non ha giustificazioni. Essa è il risultato della combinazione di una programmazione effettuata dal genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino, in proprio, alla denigrazione del genitore bersaglio. In presenza di reali abusi o trascuratezza, l’ostilità può essere giustificata e, di conseguenza, la diagnosi di PAS come spiegazione dell’ostilità del bambino, non è applicabile» (Gardner, 1985). Tuttavia la Sua teoria è stata ampiamente contestata all’interno della comunità scientifica e non solo, anche perché il termine “sindrome” ha portato confusione e incomprensione in ambito sia giuridico sia psicologico e numerosi studiosi si sono scagliati contro l’idea che il minore, inserito in una separazione conflittuale, possa essere affetto da una malattia mentale diagnosticabile. Ad ogni modo la collega Cristina Verrocchio, nel Suo capitolo su questo tema, spiega chiaramente tutte le caratteristiche evidenziate da Gardner e tutte le critiche che gli sono state mosse, con le relative risposte e conclude che: “nella letteratura più recente alienazione genitoriale è il termine utilizzato (Baker, 2014) per descrivere una dinamica familiare nella quale un genitore (alienante o preferito) mette in atto comportamenti (strategie di alienazione) che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (alienato o bersaglio). Non tutti i figli esposti a tali comportamenti cedono alla pressione di rifiutare un genitore, ma quando accade, essi esibiscono specifici segni rivelatori (manifestazioni comportamentali di alienazione genitoriale) e possono essere considerati figli alienati”.

Comunque, per chi opera in questo ambito, i casi di questo tipo purtroppo sono molto frequenti e meritano un’attenzione particolare al di là delle eventuali etichette diagnostiche e non, proprio perché si tratta di comportamenti disfunzionali che possono produrre delle conseguenze negative sui minori coinvolti. Gli effetti dell’alienazione genitoriale sui minori dipendono dall’intensità con cui viene promossa l’influenza, dal tipo di tecniche utilizzate, dalla severità con cui viene portato avanti e mantenuto l’obiettivo dal genitore alienante, dall’età del/la figlio/a e dalla sua fase di sviluppo, oltre che dalle sue risorse personali, nonché dalla quantità di tempo che essi/e hanno trascorso coinvolti/e nel conflitto coniugale.
Ad esempio, le regressioni possono essere presenti in vari ambiti di sviluppo in quanto il processo psicologico in atto è molto costoso, nello specifico è tipica la regressione a livello morale (continuando ad operare, anche oltre l’adolescenza, una netta dicotomia tra bene e male). Può comparire un’ampia confusione cognitiva, una dissonanza difficile da gestire tra la realtà e le razionalizzazioni usate per mantenere e giustificare il biasimo verso il genitore alienato e la creazione di genitori immaginari a sostituzione del genitore perduto. I minori più dipendenti, più fragili e meno autonomi, sono i più vulnerabili alla programmazione, così come quelli con bassa autostima, quelli che si sentono colpevoli per qualcosa che pensano di aver fatto, quelli che già avevano problemi emotivi al momento della separazione.

A complicare il tutto interviene l’effettivo abbandono da parte del genitore bersaglio il quale, da principio rimane disarmato di fronte alla volontà di allontanamento da parte dei minori; successivamente passa dalla rabbia, alla protesta, alla confusione e alla depressione. Finisce progressivamente per desistere nei suoi tentativi di vedere i/le figli/e. L’allontanamento crea una situazione di assenza di confronto con la realtà che rende ancora più facile cadere vittima dell’influenza del genitore alienante. In questo caso vengono a mancare anche le condizioni necessarie per un sano sviluppo della personalità dei figli: la perdita del secondo legame genitoriale comporta delle limitazioni nello sviluppo della propria identità e della propria autostima così come della capacità sociale di instaurare e mantenere rapporti sociali. Infine, i minori vittime di alienazione genitoriale possono presentare anche le seguenti conseguenze negative: forti sentimenti di ostilità manifesta (possono essere irrispettosi, non collaboranti, ostili, maleducati, ricattatori e ricattabili), problemi nel rendimento scolastico, uso della manipolazione come strumento relazionale, disturbi dell’identità (sovente anche nella sfera sessuale), maggiore vulnerabilità alle perdite e ai cambiamenti, senso di colpa e vergogna (per aver volutamente allontanato un genitore). Resta il fatto che l’impatto dell’alienazione genitoriale non è mai benigno, poiché coinvolge manipolazione, rabbia, ostilità e malevolenza, a prescindere dal fatto che il genitore programmante ne sia più o meno consapevole. Ciò che si ottiene sui minori è sempre un grave lutto di una parte di sé.
Infine, quando i/le ragazzi/e alienati/e ricostruiscono l’accaduto e lo disgelano a sé stessi/e, possono finire per escludere anche il genitore alienante, rischiando una seconda perdita. I minori potrebbero inoltre uscire dai vissuti di ambivalenza con strategie autodistruttive, auto colpevolizzanti e autolesioniste.
Ne consegue che un genitore che inculca l’alienazione genitoriale in un minore commette una forma di violenza emozionale, in quanto questa programmazione può produrre nel/la bambino/a non solo un’alienazione, nei casi più gravi anche permanente, da un genitore affettuoso, ma anche disagi psicologici, affettivi e relazionali importanti come abbiamo potuto vedere. Pertanto, questi genitori rivelano un grave deficit nel loro ruolo genitoriale che dovrebbe essere preso in seria considerazione.

Quali problematiche solleva l’ascolto del minore in ambito giudiziario?
Le modalità di ascolto e la testimonianza infantile in ambito giudiziario sono oggetto di vivace discussione scientifica sia nell’ambito forense che psicologico da diverso tempo, anche perché i segnali di disagio del minore potrebbero essere utilizzati come indicatori di un eventuale abuso o trascuratezza con pesanti conseguenze giudiziarie.
È inoltre indispensabile che l’ascolto del minore in ambito giudiziario venga effettuato da esperti di psicologia giuridica e forense in grado di contestualizzare il loro operato nella cornice giudiziaria che evidentemente presenta le sue specifiche regole. L’esperto/a inoltre dovrebbe essere in grado di mettere il minore a suo agio, di valutare e di sintonizzarsi sulle sue competenze linguistiche, di valutare il patrimonio cognitivo e le competenze mestiche del minore, ma anche il suo equilibrio emotivo e affettivo, così come il suo grado di suggestionabilità.
Ma soprattutto è di fondamentale importanza che l’esperto/a conosca e padroneggi la corretta metodologia dell’ascolto del minore in ambito giudiziario. Il rischio infatti, se non si conoscono i protocolli di intervista adeguati è di formulare domande suggestive o implicative ad esempio che possono inficiare l’attendibilità della testimonianza del minore stesso.

Come viene valutata l’idoneità del minore a rendere testimonianza?
La prof.ssa Curci, dell’Università di Bari, all’interno del capitolo da lei trattato su questo tema nel del testo Elementi di psicologia giuridica e criminologica edito da FrancoAngeli, espone molto chiaramente le aree su cui verte la valutazione riguardo l’idoneità del minore a rendere un’attendibile testimonianza in ambito giudiziario.
“In particolare, l’indagine circa la capacità di accuratezza si concentra sulla capacità della persona di ritenere e di riprodurre gli stimoli ed è orientata ad identificare gli aspetti percettivi e cognitivi della testimonianza nel rapporto tra la realtà soggettiva (psicologica) e la realtà oggettiva; la credibilità riguarda invece il rapporto tra ciò che il teste ritiene di sapere e le motivazioni implicite ed esplicite a dichiararlo, ed è quindi relativa al rapporto tra la realtà soggettiva e la realtà riferita. (….) È bene precisare che l’unica verità che deve essere valutata dall’esperto/a non è né quella storica, né quella processuale, bensì quella clinica, cioè l’insieme di dati anamnestici, clinici, strumentali e di sussidio diagnostico necessari per rispondere ai quesiti posti dal magistrato”.
Pertanto, le dimensioni psicologiche su cui verte la valutazione dell’idoneità del minore a rendere testimonianza riguardano le capacità senso-percettive e cognitive, le abilità intellettive e di introspezione, le caratteristiche di memoria e suggestionabilità, le competenze linguistiche e credibilità clinica con gli aspetti affettivi e motivazionali che possono interferire, volontariamente o involontariamente, sulle aree di funzionamento cognitivo e sui processi del pensiero, la capacità di discriminare tra fantasia e realtà, così come tra verità e bugia, eccetera.
Ovviamente, per svolgere adeguatamente queste valutazioni saranno necessari strumenti psicologico giuridici e psicodiagnostici ad hoc che l’esperto/a e il/la perito/a dovranno conoscere e padroneggiare adeguatamente e rispetto ai quali sono necessari formazione e aggiornamento continui.

Veniamo ora a un tema di stretta attualità: l’omogenitorialità. Quali preoccupazioni e interrogativi a livello psicosociale e giuridico sollevano le nuove strutture familiari?
Esistono allo stato attuale nel nostro Paese diversi tipi di famiglie: monoparentali, allargate, famiglie miste dal punto di vista etnico e religioso, famiglie che dopo un evento critico si ricostituiscono e famiglie composte da genitori gay e lesbiche. Tuttavia, queste ultime vengono spesso ancora oggi filtrate da lenti pregiudizievoli, che portano ad assumere un approccio che esclude ciò che non è esattamente conforme alla società tradizionale; pertanto, le preoccupazioni emergono solo in funzione di pregiudizi e stereotipi ancora oggi dilaganti nei confronti delle persone con un orientamento sessuale diverso da quello etero.
Non considerare le trasformazioni dei sistemi familiari vuol dire negare non soltanto l’identità di quanti la rappresentano, ma la stessa identità del sistema sociale all’interno del quale esse si realizzano.

Indubbiamente le sfide e i compiti di sviluppo che la famiglia composta da nuclei omogenitoriali deve affrontare si discostano da quelle delle famiglie tradizionali. Una coppia composta da persone gay e lesbiche deve riuscire a rispondere a diversi compiti di sviluppo: riuscire a far fronte allo stigma sessuale interiorizzato e all’omofobia sociale, coordinarsi in più diversi nuclei e ruoli (qualora ad esempio si progetti un figlio tramite maternità surrogata la coppia composta da due papà dovrà avere contatti con la madre biologica), riuscire ad ottenere il consenso della famiglia d’origine e dei membri della vecchia famiglia (se presente e se si parla di famiglie di seconda costituzione), esercitare in maniera adeguata una genitorialità sociale e, inoltre, riuscire a rapportarsi con il contesto allargato (amici, parenti, ecc.), che spesso può mostrare ostilità, stigmatizzazione e/o atteggiamenti negativi verso un progetto di omogenitorialità. Ma è un dato di fatti che le famiglie omogenitoriali esistono già da decenni nella nostra società, impregnata di una cultura omofoba, sessista e fortemente stereotipata, che tenta di controllare l’“ordine sociale” e di eliminare tutto ciò che lo minaccia, trasformandosi in stigma sessuale interiorizzato, che può portare la persona alla compromissione dei propri ideali e desideri sulla genitorialità, e pertanto una persona gay o lesbica potrebbe pensare che un figlio o una figlia potrebbero subire delle vessazioni dai compagni o che le loro capacità genitoriali potrebbero non risultare adeguate. Infine, va rilevato che nel nostro Paese purtroppo i figli e delle figlie delle coppie omogenitoriali non hanno gli stessi diritti dei figli e delle figlie delle coppie etero, poiché non gli viene ancora automaticamente riconosciuto il diritto universale di tutti i minori alla bi-genitorialità.

Come avviene la valutazione psico-forense della disforia di genere?
Come in modo estremamente esaustivo spiegano i colleghi Chiara Simonelli e Stefano Eleuteri, la disforia di genere rappresenta la condizione in cui c’è discordanza, parziale o completa, tra il sesso di nascita assegnato in base ai genitali esterni, da un lato, e il genere codificato dal cervello, dall’altro. È importante in primis effettuare una diagnosi differenziale per evitare di etichettare eventuali tipologie di disagio diverse o anche solo flessibilità di genere alternative alla “norma”.

Nel caso specifico la valutazione psico-forense della disforia di genere si pone per quelle persone che chiedono la rettificazione chirurgica e anagrafica del sesso.
Pertanto, nella riattribuzione chirurgica di sesso appare evidente quanto un’accurata indagine peritale possa sostenere il soggetto durante il lungo ed emotivamente stressante iter medico e giuridico, prendendo in considerazione la situazione psichica del soggetto stesso e le aspettative legate alla riattribuzione chirurgica del sesso, aspettative spesso magiche e miracolistiche.
Al consulente tecnico può essere affidato dal giudice l’incarico di accertare le effettive condizioni psicosessuali della persona che richiede una rettificazione dell’attribuzione di sesso, ed in particolare di verificare la condizione clinica del periziando (ivi compresi gli aspetti genetici ed endocrinologici) e di accertare la sussistenza di un’oggettiva condizione di “transessualismo”, differenziando la stessa da problematiche meno specifiche connesse all’identità di genere o da motivazioni di carattere psicopatologico o strumentale.
Pertanto, il lavoro peritale avrà inizio con un’attenta raccolta dell’anamnesi della persona e una valutazione della sua realtà attuale, attraverso, quindi, un esame globale della struttura di personalità, un esame approfondito della problematica relativa all’identità di genere, una valutazione delle motivazioni profonde che sottendono la richiesta della riattribuzione chirurgica di sesso e un’indagine circa le aspettative su quest’intervento. Inoltre, sarà necessario valutare attentamente il contesto personale e ambientale della persona (famiglia, lavoro, ecc.) e gli strumenti che questa ha a disposizione per affrontare eventuali disagi e difficoltà derivanti da quest’intervento e le risorse da mettere in atto per affrontare la sua nuova identità. In merito alla metodologia specifica, inoltre, si rinvia non solo alla lettura del testo ovviamente, ma anche alla necessità che gli/le esperti/e che intendono cimentarsi in questi percorsi di valutazione peritale devono necessariamente formarsi in contesti professionalizzanti ad hoc.

Sempre nel libro, si affronta il tema scottante della Intimate Partner Violence: come si sviluppa questo preoccupante fenomeno, dall’abuso emotivo sino al femminicidio?
I colleghi che trattano questi aspetti nel manuale chiariscono che l’abuso emotivo, così come la gelosia violenta e patologica possono rappresentare un importante campanello d’allarme relativo allo sviluppo di comportamenti violenti che in alcuni casi possono concludersi anche con un femminicidio. Quest’ultimo si connota come l’omicidio di una donna, all’interno di una relazione, quasi sempre di coppia, conosciuta come Intimate Partner Femicide, che a sua volta è strettamente collegata con l’Intimate Partner Violence e rappresenta uno dei principali fattori di rischio per l’omicidio di una donna unitamente allo stalking.

Tra quelli che sono i fattori di rischio maggiormente analizzati dalla letteratura scientifica, emergono in primo luogo i fattori connessi alla relazione, ma anche aspetti strettamente legati alla vittima (dipendenza economica dal partner, mancanza di supporto familiare e sociale, dipendenza da sostanze, ecc.), così come ancora più importanti risultano i fattori di rischio legati al profilo socio-psicologico del carnefice (provenire da una famiglia patriarcale con valori maschilisti, con modelli rigidi e stereotipi misogini; la dipendenza da sostanze, disturbi mentali e il provenire da una famiglia violenta, i precedenti penali per comportamenti violenti, ecc.). Infine, gli Autori giustamente mettono in luce anche la rilevanza di un aspetto che per diverso tempo ha contribuito al dilagare di questo fenomeno: “il silenzio da parte delle comunità e il non riconoscimento del femminicidio come un reato. La tendenza a “lavare i panni sporchi in famiglia”, a tollerare comportamenti abusivi, sia emotivamente che psicologicamente, hanno fatto sì che per anni, il femminicidio rimanesse un fenomeno sommerso: vittime e carnefici non potevano chiedere aiuto ad istituzioni e la mancanza di una corretta gestione dei centri che si occupano di queste situazioni hanno contribuito al silenzioso dilagare della violenza. Non solo, anche i media, con la loro rappresentazione distorta della donna oggetto, della madre casalinga e con i sensazionalismi stereotipati che sfruttano il dolore delle vittime di femminicidio e dei loro parenti, hanno contribuito al diffondersi del fenomeno, promuovendo disinformazione e falsi miti”.

Un’ultima considerazione sul tema del trattamento dell’autore di reato: quali sono le evidenze più recenti della ricerca internazionale sull’efficacia del trattamento rieducativo?
La prof.ssa Cabras chiarisce ampiamente nel suo capitolo che per il trattamento dell’autore di reato “le attività del trattamento rieducativo intramurario sono proposte, dietro coordinamento della direzione, dal gruppo di educatrici/ori, assistenti sociali UEPE, esperte/i ex art.80 (tra cui psicologi/he e criminologi/he), e prevedono una individualizzazione del percorso, tenuto conto dei bisogni emersi durante l’osservazione scientifica della personalità”. Certamente la ricerca in questo ambito dovrebbe ulteriormente indagare l’efficacia di percorsi di trattamento del reo per un miglior reinserimento sociale. Per ulteriori informazioni su questi aspetti rimando al testo redatto dalla collega.

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