“Elementi di geoarcheologia. Minerali, sedimenti, suoli” di Diego E. Angelucci

Prof. Diego E. Angelucci, Lei è autore del libro Elementi di geoarcheologia. Minerali, sedimenti, suoli edito da Carocci: innanzitutto, cosa studia la geoarcheologia?
Elementi di geoarcheologia. Minerali, sedimenti, suoli, Diego E. AngelucciL’archeologia è oggi una disciplina complessa. Seppur unitaria nel metodo, comprende approcci diversi e impiega un’ampia gamma di tecniche, proprie e mutuate da altri ambiti conoscitivi, di stampo scientifico o umanistico. Questa ‘segmentazione’ dell’archeologia attuale aiuta a comprendere la complessità del passato umano e a risolvere le numerose questioni a cui l’archeologia deve rispondere e che fanno riferimento, ad esempio, allo stile di vita degli umani del passato, alla loro organizzazione sociale, agli aspetti ideologici, alle abitudini quotidiane o al loro rapporto con il territorio in cui vivevano e all’uso delle risorse naturali disponibili. La geoarcheologia è uno dei ‘segmenti’ dell’archeologia odierna e si propone di rispondere ad alcuni di questi quesiti combinando i metodi delle scienze della Terra con quelli dell’archeologia tradizionale.

Gli studi geoarcheologici si concentrano sostanzialmente su due filoni concettuali. Il primo riguarda i gruppi umani del passato; in quest’ambito la geoarcheologia fornisce gli strumenti per analizzare le caratteristiche del territorio, la sua evoluzione e trasformazione nel tempo, le relazioni tra l’insediamento e l’assetto geologico e geomorfologico o le modalità di sfruttamento delle risorse naturali di origine minerale. Questi studi possono essere applicati a siti archeologici di qualsiasi età, posizione, funzione e articolazione. Il secondo filone è invece dedicato al contesto archeologico, per cercare di comprendere come si è formata la stratificazione di un sito, cosa si è conservato (oltre a come e perché si è conservato), quali sono gli apporti di origine antropica rispetto a quelli naturali all’interno del deposito e quali metodologie applicare – sul terreno o in laboratorio – per ricostruire tutto questo.

La geoarcheologia, disciplina relativamente giovane, nata negli ultimi decenni del XX secolo, si occupa soprattutto di contesti: quelli da cui l’archeologia raccoglie i propri dati (i siti, gli strati, le strutture), ma anche quelli più ampi (i territori e i paesaggi intorno ai siti).

Il capitolo 1 del libro comprende una breve rassegna sui metodi e le finalità della geoarcheologia.

Quali sono i principali minerali d’interesse archeologico?
La sopravvivenza e il benessere dell’umanità sono stati da sempre garantiti dall’utilizzo appropriato, corretto e sostenibile delle risorse naturali, di origine animale, vegetale e minerale. Da queste ultime derivano molte delle informazioni disponibili agli archeologi e alle archeologhe: le sostanze minerali (tra cui si contano i minerali veri e propri, le rocce e altri materiali quali quelli amorfi o vetrosi) si conservano infatti più facilmente nelle stratificazioni archeologiche, grazie alla loro composizione e alla loro struttura. Per quanto concerne i minerali, lo spettro di specie mineralogiche impiegate nel passato umano è amplissimo, così come molto vasta è la funzione per cui sono stati usati. Basti pensare al quarzo, minerale composto da biossido di silicio e principale componente delle rocce usate nel Paleolitico e nel Mesolitico per produrre manufatti in pietra scheggiata come la selce o la quarzite, ma utilizzato anche direttamente a partire da cristalli incolori trasparenti (il cosiddetto cristallo di rocca, o più correttamente quarzo ialino) per lo stesso scopo o per altre finalità in tempi più recenti, al fine di ottenere oggetti artistici che riproducevano l’aspetto del vetro incolore e trasparente. Un altro esempio può essere fornito dai minerali delle argille, silicati che, grazie alla particolare microstruttura formata da strati alternati di silicio e di idrossidi (tecnicamente vengono indicati come fillosilicati), possono assorbire o rilasciare acqua secondo diverse modalità, permettendone così la lavorazione a temperatura ambiente ma, allo stesso tempo, la cottura, in modo da ottenere prodotti artificiali come la ceramica. Un ulteriore caso tra i molti è dato dalle sostanze coloranti, nella loro maggioranza ossidi, spesso di ferro (tra questi va menzionata l’ematite, che in polvere o in ammassi microcristallini è il principale costituente dell’ocra rossa), sfruttate fin dai tempi dei Neanderthal per ottenere pigmenti.

Non va dimenticato, però, che i minerali non si formano solo per effetto di azioni geologiche, ma che possono derivare anche da processi biologici: le ossa dei vertebrati – comprese quelle umane – sono costituite da un materiale che è una sostanza minerale a tutti gli effetti, un minerale della classe dei fosfati, precisamente un fosfato di calcio denominato carbonato-idrossiapatite.

Ai materiali di origine minerale sono dedicati il secondo capitolo del libro (minerali) e il terzo (rocce), in cui si riportano numerosi altri esempi.

Quale importanza assume, nella pratica archeologica, la conoscenza dei processi sedimentari?
Le stratificazioni archeologiche prendono origine da processi che avvengono presso la superficie terrestre. Tra questi si includono i processi di erosione, trasporto e accumulo – che danno origine ai sedimenti – e le dinamiche di alterazione pedogenetica – che portano invece alla formazione di suoli. La comprensione delle dinamiche sedimentarie (al pari di quelle pedogenetiche) è quindi fondamentale per ricostruire come si è formata una stratificazione archeologica. I processi che avvengono in ambiente fluviale sono diversi da quelli che hanno luogo lungo un versante, in un bacino lacustre o in un’area di alta montagna dominata dall’azione glaciale, e da questi dipenderanno – a loro volta – le caratteristiche del deposito e la sua organizzazione stratigrafica, ma anche la maggiore o minore probabilità di conservazione delle differenti classi di reperti o delle strutture archeologiche.

Alcuni ambienti sedimentari sono tendenzialmente conservativi: si pensi al fondo di un bacino lacustre, dove l’accumulo è controllato dalla decantazione di particelle rimaste in sospensione nell’acqua, che vanno così ricoprendo gli eventuali resti archeologici presenti, o alla base di un versante, dove l’arrivo continuo di materiale trasportato lungo il pendio soprastante provoca il rapido seppellimento di resti e strutture, dando spesso origine alla formazione di successioni di spessore ingente. Altri ambienti sono invece meno conservativi: è il caso, ad esempio, della sponda esterna di un fiume meandriforme, dove la stessa dinamica fluviale porta allo spostamento laterale del meandro, con rimozione dei sedimenti ivi affioranti e delle evidenze archeologiche eventualmente presenti.

L’analisi degli ambienti sedimentari e geomorfologici permette inoltre di comprendere quali fossero le scelte insediative operate dai gruppi umani del passato e, attraverso le tecniche di analisi oggi disponibili in campo geoarcheologico, di determinare come l’intervento umano abbia interagito con l’ambiente naturale. L’interazione dinamica tra sistemi naturali e azioni antropiche – ovverossia l’impatto antropico – è infatti dimostrata fin da età preistoriche, quantomeno dal Neolitico (età in cui compaiono le prime economie produttive legate alle pratiche dell’agricoltura, dell’allevamento e della pastorizia), seppur con effetti ben più limitati rispetto a quelli odierni. Un inizio, ancora contenuto, di quello che sarà l’Antropocene.

Ai sedimenti e agli ambienti sedimentari sono dedicati il quarto e il quinto capitolo di Elementi di geoarcheologia.

Che relazione esiste tra suoli e archeologia?
I suoli sono, in certo qual modo, il ‘convitato di pietra’ dell’archeologia. In primo luogo, va ricordato che nell’accezione scientifica il termine ‘suolo’ indica la fascia di alterazione presente al di sotto della superficie topografica, articolata in più orizzonti pedogenetici; non si tratta cioè del solo terreno che calpestiamo (il ‘suolo’ inteso nell’accezione comune), ma di un profilo di un certo spessore (da qualche decina di centimetri fino al metro e oltre, in alcuni casi) che si trova al di sotto della superficie e che va trasformandosi nel tempo per effetto di processi fisici, chimici e biologici, oltre che per l’impatto antropico (ad esempio per calpestio, aratura, fertilizzazione o altro).

Per decenni la pratica archeologica ha ritenuto che la genesi delle stratificazioni archeologiche avvenisse (solo) a causa di processi di accumulo sedimentario. Tuttavia, l’accumulo di sedimenti avviene in corrispondenza di superfici instabili, che si accrescono verso l’alto per effetto dell’accumulo degli stessi sedimenti, mentre gli umani occupano e sfruttano, nella grande maggioranza dei casi, superfici stabili. Superfici dove non si verificano processi di erosione, trasporto e sedimentazione, ma dove hanno luogo dinamiche di trasformazione del terreno per effetto dell’alterazione e che portano alla formazione di suoli. Ciò significa che nel momento in cui un gruppo umano si insedia in una certa località interagisce con le dinamiche di alterazione in corso in quel luogo, modificando il terreno sottostante. Allo stesso tempo, i materiali lasciati in loco (resti di pasto o di lavorazione, manufatti, strutture o quant’altro), verranno rapidamente incorporati al di sotto della superficie e saranno essi stessi oggetto dei processi di alterazione che si verificano sotto il piano di calpestio.

La consapevolezza che la pedologia (la scienza del suolo) e l’archeologia dovessero interagire tra di loro è relativamente recente e nasce negli anni ’80 e ’90 del XX secolo. Da quel momento si sono create nuove linee di ricerca – la archeopedologia – e sono state messe a disposizione dell’archeologia tecniche di derivazione pedologica, alcune delle quali sono ormai diventate routinarie nella moderna ricerca archeologica. Un caso è dato dalla micromorfologia del suolo, tecnica che si occupa dello studio dei suoli al microscopio ottico, che ha dato origine a un ramo specifico denominato micromorfologia dei sedimenti e suoli archeologici.

Esempi relativi all’archeopedologia e alla micromorfologia archeologica sono disponibili nel capitolo 6 del libro e negli studi di caso citati nel manuale.

Che funzioni svolge la stratigrafia archeologica?
La stratigrafia, scienza i cui primi fondamenti risalgono al XVII secolo, possiede più valenze in archeologia. In primo luogo, la stratigrafia è applicata in campo archeologico come metodo fondamentale per lo scavo. Tutti i depositi archeologici sono stratificati, derivando da processi superficiali; per questa ragione la loro esplorazione sul terreno deve rispettarne l’organizzazione originaria, stratigrafica per l’appunto. Lo scavo archeologico odierno segue quindi il metodo stratigrafico, non solo come unica tecnica adatta all’indagine del deposito archeologico, ma anche come prassi operativa. La stratigrafia archeologica prende origine dai concetti fondamentali della stratigrafia generale (ad esempio, il principio di sovrapposizione, che sostiene che qualsiasi strato che si trovi sovrapposto ad un altro è più recente di quello sottostante), ma definisce altresì un costrutto metodologico definito negli anni ’70-‘80 del XX secolo che costituisce la base concettuale dello scavo archeologico moderno. Questa metodologia corrisponde, in Italia e in altri Paesi, alla norma di legge per lo scavo e per la produzione della documentazione archeologica.

Allo stesso tempo, la stratigrafia rappresenta la prima tecnica di datazione relativa. Il principio di sovrapposizione e i successivi corollari stratigrafici derivati o complementari forniscono le ‘leggi’ di base che consentono di organizzare una qualsiasi successione dove si sovrappongono più strati, ordinandoli così in una sequenza temporale.

In sintesi, la stratigrafia in campo archeologico svolge le funzioni di retroterra concettuale, di metodo operativo e di tecnica di datazione relativa. Alla stratigrafia archeologica, così come alle altre branche della stratigrafia e ai relativi principi e norme di classificazione, è dedicato il capitolo 7 di Elementi di geoarcheologia.

Diego E. Angelucci (Bergamo, 1965) è professore di Metodologie della ricerca archeologica all’Università di Trento, dove è stato chiamato dall’estero nel 2008. Geologo di formazione, possiede un dottorato in Scienze Antropologiche e lavora in campo archeologico dagli anni Ottanta. Ha svolto ricerche in Italia e in paesi dell’area mediterranea, concentrando le proprie attenzioni sulla geoarcheologia, sull’archeologia preistorica e sulla frequentazione degli spazi montani. È autore di oltre duecento contributi scientifici e divulgativi a livello nazionale e internazionale.

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