“Effetto Israele. La sinistra, la destra e il conflitto mediorientale” di Roberto Farneti

Prof. Roberto Farneti, Lei è autore del libro Effetto Israele. La sinistra, la destra e il conflitto mediorientale pubblicato da Carocci: cos’è l’“Effetto Israele”?
Effetto Israele. La sinistra, la destra e il conflitto mediorientale Roberto FarnetiNelle prime pagine del libro cito le parole del direttore del ‘Global Centre for the Responsibility to Protect’, il quale aveva affermato che “non sembra esservi conflitto al mondo con la stessa forza di polarizzare politicamente del conflitto tra Israele e Palestina”. L’effetto consiste precisamente in questa capacità di polarizzarci, di condizionare le nostre opinioni più di tanti altri temi geograficamente più prossimi. La mia tesi è che Israele, la sua stessa esistenza, le sue guerre, i suoi rapporti col mondo arabo, influenza l’opinione pubblica in occidente al punto da polarizzare le posizioni, da costringerci a prendere parte. è così da quando le sinistre, nel mondo occidentale, hanno sposato la tesi dei due stati separati, hanno simpatizzato per la causa palestinese e censurato le politiche israeliane di occupazione in Cisgiordania. L’effetto è in parte una conseguenza della globalizzazione, del rimpicciolirsi del mondo e dell’emergere di una sfera pubblica globale, per cui possiamo ignorare le questioni di quartiere e orientarci con grande passione su un conflitto distante come quello arabo-israeliano.

Come viene diversamente affrontato il conflitto israelo-palestinese da parte di destra e sinistra?
In maniera profondamente diversa, a partire dall’uso delle parole,, la comunità internazionale ha introdotto un lessico di riferimento che Israele spesso contesta. Si pensi all’espressione “Giudea Samaria” che Palestinesi e Nazioni Unite chiamano molto esplicitamente Territori occupati. Israele contesta questa definizione e preferisce parlare di territori contesi. Curiosamente, questa distanza si riflette nell’approccio di destra e sinistra nel mondo occidentale, dove le destre sono spesso allineate, a partire dall’uso stesso delle parole, con Israele, mentre le sinistre sposano il linguaggio delle Nazioni Unite, contestano la presenza di Israele in Cisgiordania e vedono come fumo negli occhi la presenza israeliana a Gerusalemme. Si pensi ai recenti sviluppi di politica estera negli Stati Uniti, che in un certo senso mostrano come la destra americana stia cercando una maggiore radicalità di vedute sull’intera questione.

Quali sono i diversi effetti di Israele in America ed Europa?
Si pensi alla nomina, in dicembre, del nuovo ambasciatore americano in Israele di David Friedman, un avvocato fallimentare noto per le sue posizioni dure, in linea con la destra conservatrice (sia americana che israeliana). Friedman ha espresso il desiderio di insediarsi come ambasciatore “nell’eterna capitale di Israele, Gerusalemme”. In realtà l’ambasciata americana, come tutte le altre sedi diplomatiche, è a Tel Aviv, non a Gerusalemme, perché tecnicamente Gerusalemme non appartiene a Israele. Non gli appartiene dall’inizio, dal 1948, quando le Nazioni Unite prescrissero “la creazione di un regime internazionale speciale nella Città di Gerusalemme, che la costituisca come un Corpus separatum sotto l’amministrazione delle NU”. Dopo la guerra dei sei giorni nel 1967 Israele annesse Gerusalemme in un clima di diffusa censura per una scelta così radicalmente non in linea con sensibilità e aspettative della comunità internazionale. Il 4 luglio 1967 l’Assemblea Generale esprimeva grave preoccupazione per “la situazione prevalente a Gerusalemme come risultato di misure prese da Israele allo scopo di cambiare lo status della Città”. Un ulteriore pronunciamento deplorava il silenzio di Israele in merito, ma poi la cosa sembra finire lì, tutti fanno finta di niente e l’attenzione si sposta sui territori occupati e sul problema dei rifugiati. Certo, ogni tanto l’Assemblea Generale si fa sentire, tanto per far capire, a chi faceva orecchie da mercante, che dopo il 1948 non era più ammissibile annettersi un territorio attraverso una conquista militare. Le Nazioni Unite intendevano far valere un principio, “che ogni misura legislativa e amministrativa presa da Israele per cambiare lo status della Città di Gerusalemme — incluso l’esproprio di terra e proprietà, il trasferimento di popolazioni e leggi mirate a incorporare il settore della città occupato—sono totalmente prive di validità e non hanno effetti sullo status della città”. Che è esattamente quanto David Friedman intende contestare: non è che la nuova amministrazione vuole presidiare Gerusalemme con un’ambasciata americana (e le altre ambasciate?) per il valore simbolico dell’antica capitale, ma il non-detto nella frase di Friedman è proprio l’appoggio implicito ai coloni israeliani insediati nei cosiddetti territori occupati. è a loro che questa amministrazione sta parlando. Sono loro il materiale altamente infiammabile nel discorso che oppone la destra repubblicana, che Trump sta corteggiando pesantemente, alle frange moderate del Congresso. Ed è ai coloni che Trump vuol dare una stampella politica, a costo di infiammare un sistema internazionale di relazioni all’interno del quale le amministrazioni precedenti avevano trovato un fragilissimo modus vivendi, attraverso non-detti, affermazioni volutamente senza significato, tattiche dilatorie, curiose professioni di amicizia, ecc. Per tutte queste ragioni la nomina di Friedman non piacerà (naturalmente) ai palestinesi, ai moderati, in Israele, che cercano un accomodamento diplomatico con il mondo arabo, non è piaciuta, per ovvie ragioni, alle Nazioni Unite e a chiunque abbia un’idea responsabile del concetto di legalità internazionale, e non è piaciuta ai sostenitori bipartisan della soluzione dei due stati. Ma curiosamente quella nomina non ha suscitato clamori a destra, in Europa, anche se le destre, qua da noi, stanno ancora studiando Trump e forse stentano a capire, come tutti, quale sia la politica internazionale di questa amministrazione.

Nel Suo testo Ella dedica particolare attenzione ai risvolti teologici della politica: quanto influiscono le tematiche religiose nelle questioni geopolitiche mediorientali?
Già parlare, come fa David Friedman, di una eterna capitale di Israele, o parlare, come spesso si sente fare a destra, di Giudea Samaria, è un segno di come la destra, in generale (ma in America le metafore teologiche sono completamente endemiche al discorso politico… molto più che in Europa) abbia capito che la retorica religiosa, e un registro di metafore denso di echi e richiami biblici, abbia grande impatto sul pubblico. Nel libro scrivo che quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu visitò Washington nel gennaio 1998 “il suo primo incontro non avvenne con il presidente Clinton ma con Jerry Falwell e con più di 1000 fondamentalisti cristiani”. Netanyahu cercava naturalmente una sponda a destra per giustificare la politica di Israele, il registro teologico gli serviva per inserire la storia di questi anni nella storia millenaria, una storia di persecuzione e di resistenza, del popolo ebraico. Non sorprende che a sinistra un’operazione del genere sia vista con sospetto. Lasciando stare poi l’altro discorso, quello del conflitto, forse di civiltà, tra Occidente e Islam, che a destra si tende ad articolare nei termini di un conflitto teologico.

Sempre nel Suo testo, Lei tratta del “lavoro lasciato incompiuto” nel 1948: cosa intende?
Nel libro prendo in esame la tesi di un importante, e controverso, storico israeliano, Benny Morris, secondo cui Ben-Gurion avrebbe dovuto finire e non lasciare appunto incompiuto, il lavoro di espulsione degli arabi da Israeliani. Morris ha ragione a sostenere una tesi apparentemente cinica ma inattaccabile, che se Israele avesse “compiuto una piena espulsione — invece che un’espulsione solo parziale — avrebbe stabilizzato lo stato di Israele per generazioni”. Ma ciò non è stato non per miopia strategica o magnanimità ma perché negli stessi mesi in cui nasceva lo Stato di Israele, le Nazioni Unite producevano un documento di grande effetto, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che costituisce la più potente interdizione alla pratica arcaica di costituire uno stato espellendo tutto ciò che non sia assimilabile al suo popolo. Israele, e quindi anche il suo effetto in occidente, è il nome di questo eterno irrisolto.

Roberto Farneti è professore associato di Scienze Politiche presso la Liberà Università di Bolzano

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