Edoardo Barbieri: «recuperiamo il valore sociale della lettura»

Edoardo BarbieriProf. Edoardo Barbieri, come definirebbe la sua passione per i libri: bibliofilia, bibliomania, o come?
Io non sono un collezionista: ho qualche libro antico che mi è stato donato, una certa quantità di materiali estravaganti (legature, pubblicazioni curiose, caratteri tipografici…) per uso didattico, una grossa raccolta di volumi di studio sul libro e le biblioteche, una mia personale biblioteca di lettura (letteratura italiana dei primi secoli, narrativa novecentesca, editoria cattolica). Se il termine bibliomane illumina l’aspetto un po’ patologico di chi maneggia i libri (l’ansia di entrarne in possesso, la difficoltà a distaccarsene, il desiderio di conservare tutto…), il termine bibliofilo sottolinea un aspetto estetizzante che non mi pare sia quello predominante in me. Ironia della sorte vuole che io diriga la più antica e importante rivista italiana (ma con un respiro internazionale) dedicata alla storia del libro, “La Bibliofilia”, fondata ben 120 anni fa dal grande antiquario Leo Samuel Olschki: però in questo caso il termine ha acquisito nel tempo un significato diverso, tanto che i semplici “bibliofili” spesso non leggono “La Bibliofilia”, che ritengono troppo complessa, accontentandosi di periodici più divulgativi, come l’ottima “Charta”. Forse direi semplicemente che sono per natura un “curioso di libri” e per professione uno “storico del libro”.

Quando è nato il Suo amore per i libri?
Sono un “lettore forte” fin da bambino, istigato soprattutto da mia madre, donna semplice ma di buone ancorché limitate letture. In casa non avevamo tantissimi libri (qualcuno ancora però lo conservo!) ma la biblioteca di quartiere bastò a lungo a rispondere ai miei desiderata. Il tema però non è soltanto essere buoni lettori (molti lo sono ma non ricordano né un autore né un editore…), né acquisire capacità critiche sulla letteratura (questo lo fanno più o meno tutti gli insegnanti di materie letterarie, dalle medie in su). Al di là del fatto di possedere pochi o tanti volumi (questo dipende a. dalla disponibilità economica, b. dalla disponibilità di spazio, c. dalla stabilitas loci [ora talvolta mi posso permettere di comprare libri molto bramati quand’ero all’Università e che allora non potevo acquistare, e che ora ripongo sugli scaffali ma senza neppure aprirli…]) l’amore per i libri indica però qualcosa d’altro. Cito tre esperienze della mia giovinezza che forse illuminano questo aspetto più difficilmente definibile. Quand’ero alle elementari ero scolaro insofferente ai metodi pedagogici, tanto che ero autorizzato, quando mi annoiavo, ad andarmene a studiare da solo nella biblioteca scolastica, di cui possedevo la chiave. Alle medie credo di essere stato l’unico ad affrontare durante l’estate tra la I e II le letture, credo assai improvvidamente, consigliate dalla professoressa di lettere: l’Antologia di Spoon River di Edger Lee Master e Se questo è un uomo di Primo Levi (sarò per l’effetto profondo che esercitò su di me quella lettura che mi pare aberrante la promozione estiva di Einaudi che lancia la vendita del capolavoro di Levi con attaccato un adesivo rosso che promette “in omaggio un telo mare”…). Il terzo episodio è relativo al liceo classico, dove andai nonostante l’opposizione del mio povero papà: allora pubblicai il mio primo articolo uscito su una vera rivista (non conto il giornaletto scolastico “Il Pistacchio”) dedicato guarda caso alla biblioteca della mia scuola (l’Omero di Bruzzano) e uscito su “Tuttoscuola”. L’amore per i libri coinvolge il loro contenuto ma anche la loro forma fisica: è un vero amore, insomma!

Le capita mai di fare tsundoku, acquistare cioè compulsivamente libri senza però poi trovare il tempo o la voglia di leggerli?
Mentre fin verso i quarant’anni compravo e leggevo soprattutto i classici delle diverse letterature e saggi critici e storici, grazie alle insistenza di un amico ormai da quasi un ventennio la sera (è il momento della giornata dedicato alla lettura di narrativa, “bagno purificatore” necessario per abbandonare le preoccupazioni del lavoro e lasciare libero sfogo al sogno e al sonno [c’è qualcosa di osceno nel definire la narrativa come prodotto “di evasione”: è invece la necessaria dose quotidiana di immaginazione, che sola ci permettere di vivere a pieno il reale: vedi s.v. Leonardo Sciascia]) leggo soprattutto romanzi contemporanei. Non solo gli italiani (tutto sommato pochi) ma un panorama molto vario per generi (non aborro neppure l’horror o le graphic novel), nazionalità (anche se molti sono ebrei), case editrici. C’è stato un periodo in cui ho cercato di leggere sistematicamente (e di segnalare su “L’Almanacco Bibliografico”, il trimestrale a libero accesso on line di informazione sulla storia del libro e delle biblioteche) i romanzi dedicati a libri, biblioteche, librai, pubblicati in larga parte dalle case editrici legate al gruppo GEMS: devo dire però che si tratta spesso di testi assai deludenti, legati a un modo tutto sentimentale di intendere la lettura, e non fanno per me. Ora mi affido molto, più che agli strilloni pubblicitari e alle fascette promozionali mentitori per natura, agli amici e alle recensioni che leggo in particolare su “Tuttolibri”, “La Lettura”, “Alias” e la “Domenica” del “Sole 24 ore”. Nonostante una attenta selezione succede che comperi libri che accumulo e poi non leggo… E poi ci sono le librerie delle stazioni ferroviarie, luogo massimo di compulsione da “cosa leggo stasera?” a “questo è un classico che avevo dimenticato”, fino a – raramente, l’ultima è stata la Trilogia della pianura di Haruf, edizioni NN che mi era totalmente sfuggita – fulgide scoperte. Poi ci sono i libri di studio che arrivano per recensione al ritmo di uno ogni 2 giorni: uno sguardo attento a tutti, poi qualcuno lo si legge davvero, gli altri li affido ai miei collaboratori per farli recensire.

I dati Istat evidenziano come oltre il 60% degli italiani non legga: quali a suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?
Se lo sapessi sarei un uomo ricco! Faccio però quattro osservazioni circa altrettanti problemi che vedo. Innanzitutto i generi: l’editoria ha accettato un progressivo abbassamento di livello fino a fare della produzione giallistica (Camilleri, il bravissimo Camilleri, è stato in ciò un cattivo maestro) praticamente l’unico prodotto editoriale. Ma se è così, parlando allora di “intrattenimento di massa”, che differenze c’è tra un giallo scritto frettolosamente e una bella serie televisiva (Strange thinks docent) che vedo comodamente persino sullo schermo del mio cellulare? In secondo luogo i costi. I libri di narrativa costano troppo (mi intendo assai di editoria scientifica e non sbaglio!), e i loro fratelli digitali non sono da meno! Non ci si deve stupire se le uscite dei collezionabili da edicola o le (brutte, spesso bruttissime) traduzioni di Newton Compton smerciate al prezzo di un fumetto hanno un loro florido mercato… Una più accorta politica dei prezzi è indispensabile. In terzo luogo occorre considerare quello che io chiamo il valore sociale della lettura, cioè il valore attribuito al fenomeno della lettura all’interno del contesto sociale. Un’immagine: ancora vent’anni fa una persona che leggeva dava fiducia, la si riteneva un modello positivo, c’era cioè una alta valutazione della cultura. Oggi il successo facile del volto televisivo, la visibilità sui social media, il saper smanettare col digitale paiono gli unici valori. Facce inebetite che passano mezz’ore in metropolitana o ore su un treno con lo sguardo perso oppure annegate in un giochino elettronico: la “Settimana Enigmistica” in confronto è per premi Nobel! O si recupera anche una immagine positiva dell’attività del leggere (fatta sia di piacere, sia di fatica), oppure sembra sempre più un’attività riservata a frange residuali della popolazione a metà strada tra riserva indiana e gruppo di “sfigati”… Questo credo sia quasi l’unico vero merito delle grandi manifestazioni dedicate al libro che pullulano, quantomeno nell’Italia del Nord: da Roma in giù non so. In quarto luogo occorre prestare molta attenzione al fenomeno delle biblioteche, oggi maltrattatissime. I dati sulla lettura, complice l’Associazione Italiana Editori, sono spesso distorti da una deformazione che sovrappone lettura e vendita. Ci sono invece molti libri che vengono comprati e non letti (regalati, riposti, collezionati…) e molti che si leggono ma non si comperano (presi in biblioteca, posseduti dalla famiglia, prestati da amici, comprati usati…). Spero in autunno di avere i dati di una nuova inchiesta che ho promosso nelle superiori di Milano e provincia con un gruppo di insegnanti mie ex compagne all’università: credo ne vedremo delle belle…

È possibile educare alla lettura? Se sì, come?
All’inizio si legge per imitazione (poi diventerà una scelta autonoma e controcorrente): eccezionale perciò il progetto “Nati per leggere”. E poi la scuola. La mia esperienza, come ho ricordato, è stata assai positiva. Non so per i miei compagni… Forse bisognerebbe misurare con cura una certa intelligente gradualità, che non solo sappia adattarsi alle diversità dei singoli, ma tenga in conto le mutazioni culturali che avvengono (quando a metà degli anni ’80 tenni un doposcuola alle medie, in I leggevano lo Hobbit [altro che Spoon River…] ma gli insegnanti mi dicono che oggi sarebbe troppo impegnativo…). Certo, la scuola deve insegnare a leggere nel modo più divertente possibile: più Tom Saywer e meno Baricco, insomma. E poi ci sono i nuovi progetti per rendere le biblioteche scolastiche dei veri centri scolastici di promozione della lettura: ma su questo hanno appena pubblicato libri importanti gli amici Donatella Lombello per Editrice Bibliografica e Gino Roncaglia per Laterza.

La tecnologia fatta di tablet ed e-book reader insidia il libro cartaceo: quale futuro per i libri?
Un libro è uguale tanto in formato cartaceo che in formato digitale. Su questo occorre essere chiari. A me quelli che parlano del profumo dei libri fanno ridere: i libri di solito puzzano, non profumano. Quindi posso leggere la Divina Commedia su carta oppure in formato digitale. È uguale. Diverso è il discorso circa l’utilità di usare l’uno o l’altro, che muterà secondo le persone, le occasioni, le diverse necessità (se cerco una citazione il formato elettronico è molto più comodo!). Il testo elettronico può essere in una molteplicità di formati dal doc ad html, da pdf a epub, ognuno con vantaggi e problemi… In più il testo digitale mi arriva attraverso uno strumento, che può essere un computer fisso o portatile, un tablet dedicato o multifunzionale, addirittura lo smartphone… Ciascun device ha i suoi pro e i suoi contro: condivido però l’idea dell’amico Roberto Casati che se vuoi concentrarti la carta è meglio di tutto, perché non ti permette distrazioni! Devo dire che il lavoro di questi anni in Università Cattolica alla direzione del Master di secondo livello in “Professione Editoria cartacea e digitale” e, dal prossimo anno, del Master di primo livello in “Booktelling. Comunicare e vendere contenuti editoriali” mi ha aperto al mondo della produzione e della commercializzazione del libro contemporaneo, un mondo che ora conosco un po’ meglio e che è di estremo interesse. Per questo mi pare chiaro che non c’è contrapposizione tra carta e digitale: entrambi sono libri se rispondono alla caratteristica della qualità (diversa, naturalmente, secondo quanti sono i generi editoriali). Cioè i libri li fanno gli editori che sanno scegliere, sanno fare lavoro redazionale, sanno promuovere.

Quali provvedimenti dovrebbe adottare la politica per favorire la diffusione dei libri e della lettura?
Accennavo già prima. Le biblioteche! Non credo molto in provvedimenti legislativi che regolino il mercato del libro, tranne forse provvedimenti legali che limitino lo strapotere del “mercato unico” di Amazon. Le piccole librerie si trasformano secondo leggi più generali, le stesse per cui hanno chiuso il fruttivendolo o il salumiere sotto casa… Il mercato del libro scientifico o di nicchia in quanto molto specialistico si avvantaggia della disponibilità delle librerie on line (ce ne sono di ottime e italiane, da IBS a Libreriauniversitaria e Hoepli). Quelle che vanno sostenute sono le biblioteche “di ogni ordine e grado” da quelle di quartiere a quelle nei paesini isolati, dalle grandi biblioteche nazionali coi depositi dei libri antichi alle biblioteche universitarie dedicate alla ricerca. Occorrono innanzitutto investimenti perché il personale è spesso poco, talvolta impreparato, in generale invecchiato. E poi occorrono idee. Tante volte mi accorgo che le biblioteche sono gestite da personale poco motivato, depresso, inetto alla creazione di un progetto. Occorre personale giovane (le nostre università sfornano ottimi laureati di settore) che abbiano voglia di muoversi, di creare, di mettersi in gioco. Solo così si promuove davvero la lettura (e la gente comprerà anche più libri anziché l’ultimo modello del telefonino di moda…).

Edoardo Barbieri è Professore Ordinario all’Università Cattolica di Brescia e Milano dove insegna Storia del libro e dell’editoria nonché Bibliografia e Biblioteconomia

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