“Economia del crimine organizzato e politiche di contrasto” di Salvatore Villani, Mauro Castiello e Michele Mosca

Prof. Salvatore Villani, Lei è autore con Mauro Castiello e Michele Mosca del libro Economia del crimine organizzato e politiche di contrasto edito da Giappichelli. Il libro traccia un parallelo tra le organizzazioni criminali e i virus: quali metodi operativi adotta il crimine organizzato? 
Economia del crimine organizzato e politiche di contrasto, Salvatore Villani, Mauro Castiello, Michele MoscaIl principale metodo operativo adoperato dalle mafie per acquisire e mantenere il controllo delle attività economiche e del territorio nelle aree in cui operano è quello della corruzione. Attraverso questo metodo, infatti, le organizzazioni criminali riescono ad infiltrarsi nella società civile e nelle istituzioni creando l’ambiente ideale in cui svolgere indisturbate i propri traffici illegali. Il livello di infiltrazione e di collegamento in determinate aree o regioni del mondo, è così intenso e costante – sviluppandosi attraverso una fitta rete di circuiti corruttivi – che genera, a sua volta, effetti patologici profondamente pervasivi del funzionamento dei mercati e dell’economia legale. Prima di arrivare a questo livello di infiltrazione, le mafie ricorrono tuttavia anche ad altri metodi e strategie, che le rendono molto simili a quegli agenti patogeni che sono in grado di trasmettere pericolosamente i virus o altre malattie infettive. Non a caso, per descrivere le modalità operative delle mafie, è stata spesso utilizzata la cd. “metafora del contagio”. Si pensi che persino l’FBI, in alcuni documenti pubblicati sulla propria pagina web, per descrivere la nascita del gangsterismo e l’ascesa della mafia italoamericana ai tempi del proibizionismo (1920-1933), ricorre a questa figura retorica oramai inflazionata, ma sempre calzante. Allo stesso modo, più recentemente, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, in una relazione sull’attività svolta nel 2018, ha scelto di adoperare la metafora del contagio per definire sia la natura del fenomeno mafioso sia quella della corruzione.

In passato, in verità, la sopracitata metafora sanitaria del contagio è stata utilizzata per spiegare, in modo parziale e fuorviante, i meccanismi diffusivi della criminalità organizzata al di fuori del contesto ambientale d’origine. Anche nella più accreditata letteratura scientifica si insisteva, infatti, nell’individuare un nesso causale tra l’immigrazione di determinati gruppi etnici o culturali e lo sviluppo della criminalità organizzata. Al giorno d’oggi, tale interpretazione del fenomeno è stata fortunatamente abbandonata ed il predetto nesso causale non è dato più per scontato. Si riconosce, infatti, che la questione è molto più complessa e che le spiegazioni basate su un unico fattore non sono adeguate ad individuare le vere cause della diffusione mafiosa. Partendo da tali considerazioni si ritiene, tuttavia, che proprio la metafora del contagio sia il punto di partenza più utile ed appropriato per fornire una corretta analisi del fenomeno mafioso e delle sue cause.

L’analogia con le malattie infettive è infatti più che adeguata, perché consente di comprendere non soltanto i meccanismi di espansione e di penetrazione delle mafie, ma anche numerosi altri aspetti della loro natura e del loro modo di operare. Le risultanze dell’attività investigativa svolta nell’ambito dei più recenti procedimenti giudiziari hanno posto in luce la pervasiva presenza della criminalità organizzata nel mondo dell’economia, della politica e nelle amministrazioni pubbliche di tutti i livelli, fino ad ipotizzare collegamenti con i servizi segreti, con l’alta finanza, con il terrorismo internazionale e con alcuni circoli esclusivi del potere occulto nazionale ed internazionale, come la massoneria e “pezzi deviati” delle istituzioni. Ciò renderebbe le organizzazioni criminali ancor più simili a quegli agenti patogeni che, attraverso una graduale mutazione adattiva, fanno il cd. spillover, o “salto di specie”, diventando così più pericolosi per l’uomo e più difficili da debellare.

Inoltre, proprio come i suddetti agenti patogeni – costretti a comportarsi come predatori e come parassiti intracellulari, allo scopo di invadere le cellule di altri organismi, diffondersi al loro interno e prenderne il controllo – la criminalità organizzata mostra, molto spesso, una costante propensione allo svolgimento di attività predatorie e parassitarie, o pratiche affaristiche simbiotiche con quelle dell’economia legale.

L’attività predatoria, o cd. “comune”, si ritiene sia tipica delle bande giovanili (le cosiddette street gangs), ma interessa anche le organizzazioni criminali e mafiose, in particolar modo quelle emergenti, e spesso di matrice straniera. Queste ultime, infatti, dal momento che esercitano – almeno inizialmente – un potere di controllo su ambiti illeciti molto circoscritti, incontrando difficoltà ad inserirsi nelle attività economiche lecite del Paese di accoglienza, assomigliano più a “bande di delinquenti” che non a “forme strutturate di criminalità mafiosa”.

Il secondo tipo di criminalità, quella parassitaria, si concretizza, invece, nello svolgimento di attività, quali l’estorsione e l’usura, che non danno luogo a produzione e non creano ricchezza, ma che comunque incidono sull’economia legale, drenando le risorse disponibili sul territorio ed alterando il regolare funzionamento dei mercati.

Sempre più spesso, tuttavia, le mafie non svolgono soltanto attività predatorie, né si limitano a praticare l’estorsione o l’usura e a taglieggiare imprenditori e commercianti, in una logica parassitaria. La criminalità organizzata è diventata ormai un operatore economico a tutti gli effetti e svolge attività produttive, commerciali e finanziarie, operando in perfetta simbiosi con il territorio e con le istituzioni.

Quali motivazioni presiedono alla scelta razionale di compiere attività illegali?
Come teorizzato da Becker nel suo “modello base delle scelte criminali razionali”, gli individui che commettono azioni criminali non sono necessariamente soggetti “disturbati” o disagiati, ma persone come tutte le altre. La loro decisione di compiere un illecito, infatti, può essere stata generata, talvolta, da un ragionamento lucido e coerente o da un semplice calcolo di convenienza, che mira a massimizzare il benessere come essi lo concepiscono, siano essi egoisti, altruisti, leali, dispettosi o masochisti.

L’idea cruciale, su cui è basato il modello, è che il potenziale criminale razionale affronta una sorta di scommessa, in cui deve scegliere tra due alternative possibili: 1) commettere un reato e quindi riceverne il beneficio, sebbene fronteggiando il rischio associato all’eventualità di essere arrestato e di subire la successiva punizione, oppure 2) tenere una condotta irreprensibile da un punto di vista legale, che di per sé è priva di rischi, ma non gli consente di ottenere alcun beneficio aggiuntivo rispetto alla sua situazione economica iniziale.

Becker provò a rappresentare questo problema decisionale in termini matematici. Secondo tale formulazione, si può dire che il potenziale criminale deve decidere come comportarsi valutando tre possibili risultati, o “stati del mondo”, ciascuno dei quali produce un diverso livello di utilità:

  • l’utilità derivante dalla scelta di non compiere il reato;
  • l’utilità associata al successo dell’azione criminosa, ovvero alla realizzazione del reato e all’eventualità di farla franca;
  • l’utilità associata all’insuccesso dell’azione criminosa e alla conseguente applicazione della sanzione prevista dalla legge.

Il modello proposto da Becker può condurre, tuttavia, a soluzioni che non sempre sono applicabili in concreto. Per questa ragione, esso è stato più volte riformulato e sottoposto a verifiche. Alcuni studiosi hanno provato, a più riprese, a riformulare e ad affinare il modello di Becker per renderlo applicabile ad una serie di situazioni diverse, mostrando come esso trovi applicazione in una serie molto limitata di casi. Altri studiosi, nella seconda metà del secolo scorso, contribuirono invece ad arricchire l’approccio beckeriano concentrandosi sullo studio dei meccanismi che inducono l’attività criminale ad assumere una forma “organizzata”. Dalle loro ricerche sono nate le prime riflessioni sul fenomeno della criminalità come fenomeno collettivo e le teorie economiche sulla deterrenza dall’esercizio del crimine in forma associata ed organizzata.

Quali meccanismi consentono alle mafie di espandersi e di propagarsi all’interno della società civile e dell’economia?
Come ho spiegato, la corruzione è il principale fattore strategico per l’espansione mafiosa. Tale espansione si realizza infatti, tendenzialmente, attraverso il condizionamento degli amministratori e/o la corruzione di funzionari locali, che diventano così le pedine di un gioco criminale finalizzato ad incrementare e ad estendere il potere mafioso. L’alto numero di Amministrazioni locali sciolte per infiltrazione mafiose negli ultimi anni fornisce un’evidente conferma di questa tendenza.

Le organizzazioni criminali hanno così sviluppato un’elevata capacità di infiltrazione nei circuiti dell’economia legale e della politica, con le quali riescono ad instaurare un sistema di relazioni e di connessioni perverse, la cui complessiva portata è difficile valutare. Dal punto di vista delle policy, ciò ha comportato un’evoluzione delle forme di prevenzione della criminalità organizzata, che – richiamandosi all’epidemiologia e alla classica metafora del contagio – mira all’individuazione dei principali fattori di rischio, caratterizzanti il contesto socio-economico con cui interagiscono le mafie, che ne favoriscono l’infiltrazione. Nel campo della prevenzione si è così passati dall’approccio individualistico dei classici ad un approccio “medico” o “epidemiologico”, che studia le principali vulnerabilità di contesto, emerse dai casi di studio selezionati, ed analizza gli schemi d’infiltrazione più utilizzati dalle organizzazioni criminali, cercando di individuarne i modi operandi ed i cd. “reati-spia” (o “crimini-sentinella”), che costituiscono il sintomo dell’esistenza di legami o di condizionamenti da infiltrazioni mafiose.

Questo approccio parte dal presupposto che l’infiltrazione, pur non essendo un crimine in sé, è un fenomeno (un processo) estremamente pericoloso che comprende una serie di reati, detti “reati-spia” o “sentinella”. Tali crimini rendono possibile, infatti, l’infiltrazione e ne segnalano la presenza. Fra quelli più frequentemente utilizzati dalle mafie per infiltrarsi nella P.A. e nelle imprese è possibile annoverarne almeno 4:

1) la corruzione, che svolge un ruolo fondamentale in quasi tutti i processi di infiltrazione, venendo impiegata in varie fasi e contesti, per raggiungere più velocemente gli obiettivi illeciti prefissati;

2) i reati fiscali, che appaiono sia come un obiettivo dell’infiltrazione criminale in impresa (con società costituite specificatamente per eseguire complesse frodi fiscali), sia come un mezzo, che caratterizza l’attività quotidiana delle imprese infiltrate (es. in termini di evasione dei contributi o delle imposte sul reddito);

3) le false fatturazioni, utilizzate solitamente nei processi di infiltrazione in impresa, per realizzare molteplici finalità criminali, come inflazionare i costi di produzione (riducendo così il reddito imponibile), generare crediti IVA inesistenti, occultare flussi finanziari illeciti con altre aziende (facilitando così il riciclaggio), creare fondi neri da utilizzare poi a fini corruttivi oppure riciclare prodotti rubati;

4) la falsificazione di scritture contabili, di contratti di lavoro o di altri documenti.

Tra le modalità di infiltrazione (modi infiltrandi) più utilizzate possiamo invece annoverare:
1) l’uso del contante, che facilita il riciclaggio di fondi illeciti, essendo anonimo e difficile da tracciare;

2) il ricorso all’intestazione fittizia o a prestanome scelti usualmente tra i familiari, tra i professionisti compiacenti e tra gli imprenditori collusi, non affiliati alla criminalità organizzata, ma in qualche modo collegati al gruppo criminale infiltrando;

3) l’avvicinamento e l’acquisizione di società preesistenti, spesso in difficoltà economiche;

4) la costituzione di società ad hoc per approfittare di opportunità di business emergenti (ad esempio, la partecipazione ad appalti).

5) l’utilizzo di strutture societarie complesse o di specifiche strategie finanziarie e di corporate governance;

6) l’estero-vestizione dell’impresa o del gruppo imprenditoriale, con il ricorso a giurisdizioni poco trasparenti e a paesi off-shore.

Nel libro si fa ricorso alla Social Network Analysis per ricostruire i reticoli generati da organizzazioni criminali camorristiche: in che modo tale metodologia può consentire lo sviluppo di politiche di contrasto più efficaci ed efficienti?
La Social Network Analysis (SNA) si basa su un approccio teorico metodologico che analizza la realtà sociale a partire dalla sua struttura reticolare. Essa, infatti, studia la struttura sociale intesa come rete sociale, costituita da due componenti fondamentali: gli attori (i nodi della rete) e le relazioni che connettono due a due questi attori (i legami della rete). Tale prospettiva analizza le interdipendenze che si stabiliscono tra le strutture reticolari e consente di studiare: a) i modelli di relazione che connettono gli attori sociali all’interno dei sistemi sociali; b) il modo in cui questi modelli influiscono sul comportamento degli attori e sul flusso delle risorse (beni, servizi, informazioni), veicolate da quelle connessioni; c) il modo in cui gli attori sociali, mediante quelle stesse connessioni, contribuiscono a modificare la struttura sociale. L’applicazione di questa tecnica allo studio delle organizzazioni criminali può essere molto utile, a mio avviso, soprattutto se si vogliono comprendere le modalità con cui esse si scambiano le informazioni, tessono rapporti e collaborazioni con affiliati e conniventi, assumono “nuove forze produttive”, organizzano i loro rapporti interpersonali e stringono alleanze con i membri di quella cd. “area grigia”, in cui si annidano i rapporti di complicità e collusione con il mondo delle professioni, della cultura, dell’economia e della politica.

I mutamenti indotti dalla globalizzazione e dall’internazionalizzazione dell’economia, nonché i poderosi sviluppi dei sistemi di comunicazione, hanno spinto gradualmente le organizzazioni criminali ad adottare nuovi modelli organizzativi, spesso di natura reticolare, e quindi più flessibili rispetto a quelli gerarchici e più rigidi delle origini. Come delle vere e proprie imprese, oggi le consorterie mafiose si internazionalizzano al fine di massimizzare i proventi delle loro attività e minimizzarne i costi, oltrepassano sempre più spesso i confini dei singoli Stati per ricercare sui mercati internazionali maggiori opportunità di guadagno e diversificare i propri investimenti. Distorcendo la concorrenza sui mercati mondiali e stabilendo esecrabili alleanze con altri fenomeni destabilizzanti, come il terrorismo e la pirateria marittima, esse riescono persino a minacciare la pace e la sicurezza nel mondo, rendendo il compito delle forze di polizia e delle agenzie di enforcement sempre più arduo.

La SNA può facilitare invece il loro compito, fornendo utili strumenti per studiare i nuovi modelli organizzativi delle organizzazioni criminali e per misurare le loro elevate capacità di resistenza e di adattamento alle mutevoli condizioni dell’ambiente in cui operano. All’insieme di queste capacità si fa oggi riferimento quando si parla della “resilienza delle organizzazioni criminali” (Criminal Network Resilience). Nel volume che ho scritto assieme al dott. Castiello e al Prof. Mosca sono sintetizzati i principali risultati dei nostri studi su questo tema. A nostro avviso, l’analisi delle determinanti del grado di resilienza delle reti criminali è fondamentale per progettare nuove e più efficaci politiche di repressione, basate sia sull’analisi del capitale umano che del capitale sociale.

In che modo è dunque possibile debellare il crimine organizzato?
Una seria strategia di lotta contro la criminalità organizzata dovrebbe essere realizzata soprattutto attraverso la prevenzione; una prevenzione da realizzare attraverso le politiche del lavoro, le politiche fiscali, le politiche dell’immigrazione e le politiche di incentivo allo sviluppo delle aree più povere. In queste aree, infatti, per spezzare il circolo vizioso che va dall’impoverimento sociale e culturale al rafforzamento di un modello di sviluppo economico sostenuto dalla criminalità è necessario agire, prima di ogni altra cosa, sulle determinanti del consenso sociale controllato dalle organizzazioni criminali. Una seria strategia di lotta alla criminalità organizzata deve dunque partire, a mio parere, dalle politiche di sviluppo, economico e sociale, dei territori meno dotati e dalla realizzazione di adeguate politiche di sostegno e di incentivo alla formazione di capitale sociale nelle aree che ne sono più povere.

Salvatore Villani insegna Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

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