
Tante e diversificate sono le risposte alla domanda: “Fatti salvi Renzo e Lucia chi ė il vero protagonista de I promessi sposi?”. Il Seicento, gli umili, la Storia, la violenza, la Provvidenza.
Io oso rispondere la Casa.
Dal primo all’ultimo capitolo è tutto un dipanarsi di case: ville e casali sulle alture di quel ramo del lago di Como, la canonica di Don Abbondio, la casa di Lucia, quella di Renzo, la Chiesa. E poi la casa dell’Azzeccagarbugli, il palazzo di Gertrude, il palazzotto di don Don Rodrigo e il castellaccio dell’Innominato, la casa del sarto e quella di Donna Prassede.
Da ultima, nel territorio di Bergamo, la casa dei due promessi finalmente convolati a nozze.
La case rispecchiano fedelmente i loro abitanti, sono come una sorta di alter ego in cui i tratti psicologici, le movenze e i gesti dei personaggi vengono dilatati da un muro all’altro e lasciano una scia, una sorta di alone che riverbera sulle pareti paura, speranza, angoscia, violenza, prepotenza, supponenza, intimità, gioia. A seconda di chi abita la casa essa è tana o luogo ospitale, polverosa stamberga o dorata prigione. Quando non vera o propria gabbia.
Lascio al lettore le associazioni con i personaggi del romanzo.
Certamente le case del romanzo sono alcune delle tessere del puzzle in cui si compone il grandioso quadro storico/sociale che anima le azioni dei personaggi, sono zoomate del narratore manzoniano negli interni del ‘600, un narratore che ci prende per mano e ci guida a volte dentro le case, a volte dentro gli animi.
Tanto è goffo il “palazzotto” quanto Don Rodrigo che vive rinchiuso, con l’uscio sprangato e due avvoltoi inchiodati sul portone. Peccato che uno dei due sia “spennacchiato e mezzo roso dal tempo”!
Invece il castellaccio dell’Innominato si presenta arroccato come un nido di aquile da dove il suo terribile abitante può dominare incontrastato.
La casa è la conditio sine qua non per la nuova famiglia che Renzo e Lucia metteranno su, è il simbolo del loro meritato ricongiungimento, dopo che Lucia ha dovuto dire addio ai monti che materni proteggevano le sue tre case: di figlia, di futura sposa e di umile depositaria di fede incrollabile.
La Casa in proiezione è anche la Nazione: entrambe possono garantire ospitalità piena in nome della giusta misura intrinseca nell’economia (“legge della casa” appunto).
“La patria è dove si sta bene”, proprio come a casa, purché non ci si rinchiuda e ci sia spazio per l’Altro che nella sua irriducibilità ci interpella quotidianamente.
Come vengono caratterizzate le abitazioni dei protagonisti?
Come si diceva esse sono gli avatar dei loro abitanti, ma è stato quando ho provato ad applicare alle case del romanzo i pattern della filosofia dell’abitare, proposta da Silvano Petrosino in diversi suoi studi, che ho fatto sorprendenti scoperte. La chiave di lettura che co-ordina le diverse rappresentazioni domestiche è la dinamica ospitalità piena/business. C’è vera casa dove c’è piena ospitalità (intima e mai opportunistica, misurata e mai esibita), ma quando l’ospitalità è interessata o addirittura prevalgono interessi egoistici, la casa diventa tana, rifugio dell’individuo singolo che non apre all’Altro in nome di uno spietato spirito affaristico, non necessariamente computabile in denaro, ma piuttosto individuabile nei privilegi di genere e di casta (il padre di Gertrude) o nel sovvertimento dei valori che specula sulla pelle degli umili (l’avvocato Azzeccagarbugli). Anche il buon Don Abbondio si rintana e spranga l’uscio dopo il terribile incontro con i bravi: non è solo sacrosanta paura, è volontà di abdicare ai propri doveri, come sacerdote, ed alle proprie responsabilità, come uomo. L’egoismo che soggiace al business, determina anche la decisione di salvaguardare la propria incolumità senza riguardo per quella dell’Altro.
Attraverso la caratterizzazione delle abitazioni il romanzo mette in guardia la borghesia italiana dalla deriva liberista del business, laddove i principi del liberismo economico non siano temperati, direi umanizzati, dai gesti caritatevoli suggeriti dalla morale cattolica, longa manus socio/economica della Divina Provvidenza.
In che modo la descrizione delle diverse abitazioni appare funzionale all’economia del romanzo?
Il romanzo si dipana attraverso una storia che trasforma i protagonisti. Non è un caso che I promessi sposi vengano annoverati dalla critica anche tra i romanzi di formazione, oltre che essere, naturalmente, sommo esempio di romanzo storico.
Renzo e Lucia nell’ultimo capitolo non sono più quelli dell’inizio grazie alle vicende in cui sono stati coinvolti, grazie alle relazioni che hanno intessuto con gli altri personaggi e la Storia. Se si fossero sposati al paesello in tutta tranquillità, non sarebbero cresciuti e tutti gli “ho imparato di Renzo nel “sugo” della storia sarebbero rimasti nella penna di Don Lisander.
La relazione è ciò che trasforma e la casa è luogo di relazione. Quando nell’addio monti Lucia saluta le tre case, non immagina di doverle perdere per frequentarne tante altre lungo la strada che la porterà a trovare finalmente quella in cui stare con Renzo e la futura famiglia.
Davvero leggere I promessi sposi alla luce del tema della casa e dell’economia della casa, permette, se ancor c’è ne fosse bisogno, di apprezzare l’intima organicità del romanzo. Manzoni intreccia diversi fili narrativi, ma non li perde mai di vista, né intende farlo. Non gli interessa confondere il lettore che deve rimanere lucido anche grazie alla perizia del narratore che gli mette a disposizione tutte le chiavi di lettura e di giudizio. Il lettore deve raccogliere il sugo della storia e farne tesoro, ma per fare ciò deve avere le idee chiare. I venticinque lettori di Don Lisander appartengono al ceto borghese ed hanno nella casa e nella famiglia il loro trampolino di lancio, proprio come Renzo alla fine del romanzo: la casa è il cuore della sua attività di piccolo imprenditore. L’economia nella casa tiene conto di tutti i membri della famiglia. L’attività imprenditoriale, lungi dall’essere governata dall’egoismo deve tener conto del benessere dell’Altro: dipendente o estraneo che sia.
Sul finale del romanzo si delinea così la nascita di una borghesia imprenditoriale a cui i membri delle classi inferiori accedono sì per la loro intraprendenza affaristica, ma non dimentichi di quei gesti caritatevoli che nascono proprio in seno alla famiglia.
Quale visione politica emerge dalla rappresentazione della comunità famigliare fornita nel romanzo.
Luigi Einaudi consigliava agli economisti di leggere I promessi sposi in quanto li considerava il miglior trattato di economia che fosse mai stato scritto. Certamente lui aveva in mente i capitoli della carestia in cui Manzoni, che digiuno di economia proprio non era, stigmatizza gli errori fatti dal governo spagnolo quando, per por rimedio al carovita, interviene ad alterare il rapporto tra domanda ed offerta, calmierando il prezzo del pane per la gioia del popolo, ma mandando in rovina i fornai. Certamente l’orientamento economico di Manzoni è improntato al liberismo, ma, con buona pace di Adam Smith, sarebbe un errore identificare la divina Provvidenza con la mano invisibile che regola l’economia.
Lo scenario politico che Manzoni intende proporre è proprio quello che si ispira all’organizzazione familiare in cui nessuno rimane escluso dalla distribuzione dei beni. Emblematica, a questo proposito, è la famiglia del sarto che accoglie Lucia dopo la liberazione dalla reclusione nel castello dell’Innominato. Essa partecipa del cibo della famiglia senza però che la legge dell’ospitalità penalizzi i membri della famiglia. E alla fine del pasto rimane qualcosa anche da portare a Maria, la vicina di casa rimasta vedova, che versa in misere condizioni.
Così come per la famiglia anche per lo Stato (che è in fondo una famiglia allargata) vale la regola dell’Anonimo (autore del manoscritto da cui Manzoni trae la bella storia dei due promessi): “si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio”. La famiglia è la palestra in cui esercitarsi a trattare con l’Altro, ad ascoltarlo, a comprenderlo, ad aiutarlo. Lasciarsi interpellare dall’Altro comporta tutto questo. Parafrasando il motto dell’Anonimo potremmo dire che: “si dovrebbe pensare più all’Altro che a se stessi: e così si finirebbe anche a star meglio nei propri panni”.
Marta Rutigliano insegna Lettere presso il Liceo Scientifico L. Respighi di Piacenza ed è laureanda in Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano, presso la quale ha già conseguito la laurea in Lettere antiche. Ha pubblicato la silloge poetica Di quando Alatiel riebbe la parola, il romanzo Un’estate fa (Entangled) e l’eserciziario di scrittura Centro!