
L’elenco sarebbe lungo e l’analisi di ognuno di questi aspetti complessa e impegnativa. Voglio però sollevare una questione più generale, che abbraccia tutte queste dinamiche, e rispondere alla domanda nel modo più semplice possibile: la pandemia ci dice inequivocabilmente che il mondo nel quale viviamo è sbagliato. Ora l’obiettivo da raggiungere sembra essere il ritorno alla normalità, intesa come la situazione precedente alla pandemia. Sarebbe l’errore peggiore che potremmo fare. Quella normalità ha prodotto il virus. Fossimo nel Medioevo, si potrebbe dire che questo è il castigo di Dio per i nostri peccati. Non siamo nel Medioevo, e io sono laico. Ma la sostanza è la medesima: il Covid-19 è un segno, il segno più evidente di una logica perversa sempre più pervasiva.
Mi riferisco alla logica del capitalismo neo-liberista, che si è andata affermando dopo la crisi delle politiche di welfare. È una logica dominata dalla potenza di una tecnologia il cui sviluppo è ormai fine a sé stesso, e funzionale alla produzione di profitti diventati indipendenti anche dalle tradizionali logiche capitalistiche. Si tratta di qualcosa che si è sottratto ad ogni forma di controllo, non solo a quello svolto dalle forze sindacali e sociali, ma anche a quello degli Stati e, più in generale, della politica e che perciò si auto-rappresenta come una dimensione senza limiti; che va al di là di ogni ragionevolezza, in nome di una corsa senza senso al consumo; che vorrebbe imporre l’impossibile, e cioè la diffusione su scala planetaria degli standard di vita occidentali, ideologicamente presentati come standard di benessere.
Insomma, siamo su una macchina potente, che ogni giorno diventa sempre più potente e veloce, non abbiamo scelto né la macchina né la sua velocità e, soprattutto, non sappiamo dove stiamo andando. Non siamo neppure in grado di farcene un’idea e i proprietari della macchina sembrano del tutto disinteressati della cosa. Abbiamo però un qualche sentore che così non si va da nessuna parte, perché tutto ciò che sembra importare è la potenza e la velocità della macchina mentre nessuno dei problemi che stanno lì fuori, e che il mezzo su cui siamo tende a creare, viene preso in seria considerazione. La pandemia ci dice, semplicemente, che oltre alla soluzione del problema sanitario e medico in sé e per sé (soluzione che pare anch’essa in mano a quella logica), forse è il momento di fermarsi e provare a ragionare.
In che modo la pandemia ha condizionato la nostra percezione sociale?
Sta producendo una nuova forma di insicurezza, che probabilmente apparteneva alle generazioni che ci hanno preceduto, abituate a un’esistenza esposta ai rischi, alle malattie e alle guerre. La normalità cui siamo invece abituati è quella abitata da un nuovo modello di umanità, che pensa di poter vivere una normalità comune a tutti i tempi e a tutti i luoghi, nella quale le diversità sono cancellate in un eterno presente senza respiro, che rassicura e protegge. Non voglio dire che non ci siano problemi, tutt’altro: soprattutto le trasformazioni del mondo del lavoro hanno creato nuove sacche di incertezza e di povertà. Ma il modello di riferimento è quello sopra accennato. In Italia, a partire dalla generazione dei baby boomers, si è in effetti sviluppata una certa abitudine alla sicurezza: la consuetudine a sentirsi dentro una bolla sospesa dentro la quale non potrà mai succedere niente, perché i pericoli del mondo sono sempre e comunque là fuori, riguardano gli altri. Una rassicurante sospensione dal turbine della vita, garantito dalla cancellazione del tempo – sarà sempre così – e del luogo – è ovunque così. È la classe media dell’happy hour. La pandemia penso che scuoterà definitivamente questa falsa forma di rassicurazione collettiva.
Come si è riverberata sulla nostra vita sociale?
Penso che l’effetto principale sia quello cui sopra accennavo. Potrebbe però anche innescare altri e nuovi processi. Una delle principali caratteristiche della nostra vita sociale è un processo di inarrestabile individualizzazione delle nostre esistenze, processo del tutto funzionale alla logica neo-capitalista. Un numero sempre più alto di questioni dipende da noi, ma tutto ciò non si traduce in una reale autonomia.
Voglio fare un esempio preso dal mio libro. Nel suo ultimo film, Sorry, we missed you, Ken Loach racconta una storia esemplare. Ricky e sua moglie Abby, insieme ai due figli adolescenti, vivono a Newcastle. Nonostante lavorino duro, si rendono conto che non avranno mai una casa di proprietà, persa nella crisi del 2008. Così Ricky, che vuole prendere in mano il destino della sua famiglia, vende l’auto della moglie per acquistare un furgone che gli permetta di diventare trasportatore freelance. La speranza è duplice: diventare lavoratore autonomo e incrementare di conseguenza i propri guadagni. La realtà è ben diversa: nel mondo in cui entra, l’apparente autonomia è solo il modo per scaricare sul lavoratore i costi aziendali, assicurativi, di malattia, ecc. Inoltre, ogni regola contrattuale è svanita, rimane solo una specie di stato di natura hobbesiano, dove vince chi è più veloce nelle consegne, accetta i magri guadagni e, soprattutto, sta zitto e non si ribella. Infine, il datore di lavoro non è un padrone, con il quale si può comunque avere un rapporto, ma è solo il custode di regole che appartengono al sistema.
Posso fare un altro esempio. I giovani di oggi hanno tutta l’autonomia che noi un tempo desideravamo: possono frequentare chi vogliono; esprimere al meglio la loro sessualità; frequentare le scuole che desiderano. Ma non sono indipendenti: vivono in un limbo di precarietà che ha messo sotto naftalina le loro potenzialità. Sono come anestetizzati: non possono diventare protagonisti, non nel mondo del lavoro, ma neppure delle loro vite. La loro è una condizione di eterna adolescenza. Si tratta di una generazione bruciata, ma in un senso terribilmente diverso da quella degli anni Sessanta. Il futuro non esiste, diventa piuttosto un’ossessione senza contenuti. Non è più un luogo collettivo, come lo era per i ragazzi del ’68.
In sintesi: viviamo dentro una finta autonomia, tipica di un individualismo prodotto dallo sfaldamento di autentici legami sociali. La domanda è: la pandemia può diventare un modo per acquisire una nuova consapevolezza sull’importanza ineludibile di legami sociali solidali?
La pandemia ci offre la possibilità di ripensare il tipo di società nella quale vogliamo vivere: quali aspetti in particolare impongono nuovi approcci?
Ho intitolato il mio libro “ecologia sociale”. La questione ecologica, ormai tutti lo riconoscono, è centrale. Ritengo però che il vero problema non sia il rapporto tra uomo e natura, bensì quello tra uomo e uomo. Voglio dire che il primo è una conseguenza del secondo. Se vogliamo cambiare il nostro modo di vivere il pianeta, dobbiamo cambiare la struttura dei nostri rapporti sociali. Insisto sul punto: è la logica di consumo compulsivo e insensato tipica del neo-liberismo che porta con sé il consumo altrettanto compulsivo e insensato delle risorse naturali e che, soprattutto, produce povertà insopportabili. Il problema ecologico e quello della povertà sono, in sostanza, lo stesso problema.
Si pone qui la questione dei limiti. Deve esserci un limite al consumo, così come un limite alle sofferenze e alla povertà (economica, ma anche culturale): deve cioè esserci un limite alle diseguaglianze. Ho sopra detto che la logica nella quale siamo immersi è basata sull’idea che non ci siano limiti alla crescita, che però non è crescita umana complessiva, ma essenzialmente economica, come se le due cose coincidessero. La pandemia ci insegna invece che non possiamo non tener conto dei limiti – ontologici, esistenziali, psicologici, economici, sociali, naturali – entro cui si danno le vite degli uomini. Pensare di oltrepassare questi limiti è un’aspirazione anch’essa tipica della natura umana, che può portare sia frutti preziosi che tragedie irreparabili. Il fatto è che mai nella storia umana questa aspirazione è diventata l’elemento fondante della logica alla base della struttura sociale. La nostra è una società che crede di non avere limiti, e che si comporta come se tali limiti non ci fossero.
La scrittrice e giornalista indiana Arundhati Roi ha detto una cosa sacrosanta: “chi verrà ritenuto responsabile di questa apocalisse? Non un virus, spero”. Bene: chi è allora il responsabile? chi è più colpevole di altri? Si tratta di intraprendere un lungo processo e un lungo percorso, ma anche il più piccolo passo deve poter essere fatto nella direzione giusta.
Quali conseguenze a livello sociale è destinata a lasciare dietro di sé questa pandemia?
Mi costringo a rispondere in modo ottimista. Prima o poi la pandemia in quanto tale passerà. Le conseguenze sociali ed economiche potrebbero essere molto profonde e drammatiche, in linea con le cose che sopra dicevo. Ma potrebbe anche svilupparsi una nuova consapevolezza, come spesso avviene dopo i grandi momenti di crisi collettiva. Non sarebbe la prima volta. Ciò che più di tutto io temo è la neutralizzazione dei problemi, la capacità che il sistema dominante ha di renderli “oggettivi” e “naturali”. La pandemia, al contrario, è la conseguenza strutturale di un sistema di rapporti economici e di potere distorto, che richiede al più presto una radicale inversione di tendenza.
Sempre per essere ottimista, penso che un ruolo fondamentale potrebbe (e dovrebbe) essere svolto dall’Europa: è forse l’unico soggetto politico dotato degli strumenti potenzialmente adeguati per incanalare le sorti dei suoi cittadini in una nuova direzione e, allo stesso tempo, fare da modello per il resto del pianeta.
Desidero infine ringraziare chi gestisce questo sito, che mi ha permesso di proporre il mio libro e le mie idee.
Ambrogio Santambrogio è professore di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Perugia. Tra le sue principali pubblicazioni: Destra e sinistra. Un’analisi sociologica, Laterza 1998; Senso comune. Appartenenze e rappresentazioni sociali, Laterza 2006; Introduzione alla sociologia, Laterza 2008 (20192); Giovani a Perugia (a cura di), Morlacchi 2014; Sociologia e sfide contemporanee (a cura di), Orthotes 2017. È direttore dei Quaderni di Teoria sociale e fa parte del Comitato scientifico di numerose riviste e collane scientifiche di scienze sociali.