
Che relazione esiste tra fiumi e cambiamento climatico globale?
Tra tutti gli ecosistemi, i fiumi sono molto probabilmente i più vulnerabili al cambiamento climatico globale, in quanto soggetti a una serie di pressioni che agiscono a scale differenti. Alterazione dei cicli idrologici, estremizzazione delle portate, incremento di secche e fenomeni alluvionali, scomparsa delle riserve nivo-glaciali, innalzamento delle temperature delle acque, con la conseguente diminuzione dell’ossigenazione, sono tra le pressioni più evidenti. Tuttavia, il cambiamento climatico comporta anche un inasprimento delle esigenze idriche da parte delle attività socio-economiche dell’uomo, con il conseguente aumento delle captazioni a scopo irriguo, l’alterazione della morfologia fluviale, la diffusione di bacini ed invasi artificiali, la frammentazione longitudinale, la facilitazione per le specie invasive ed il generale peggioramento della qualità delle acque.
Quali sono le principali alterazioni cui sono sottoposti oggi gli ambienti fluviali?
Dalla rivoluzione industriale in poi si è verificato un aumento esponenziale degli impatti antropici sui sistemi fluviali. Nella seconda metà del secolo scorso, i problemi principali provenivano da alterazioni di natura chimico-fisica, legate cioè al cosiddetto inquinamento: con questo termine si intende l’introduzione nei sistemi fluviali di materia o energia da parte dell’uomo, in modo diretto o indiretto, con conseguenze negative per l’ecosistema e la salute umana. In questo ambito, occorre rilevare che le attività umane producono grandi quantità di sostanze inquinanti di diversa natura le quali, in base alla loro origine, possono essere suddivise in inquinanti rilasciati da una sorgente puntiforme (per esempio scarichi fognari o provenienti da un impianto industriale) oppure inquinanti con diffusione areale, che sono sparsi su vaste aree e raggiungono il fiume con lo scorrimento superficiale e le acque di falda (ad esempio i fertilizzanti e i fitofarmaci utilizzati in agricoltura). Numerose azioni legislative hanno portato alla diffusione di depuratori civili ed industriali, riducendo in parte il problema; tuttavia al momento attuale desta ancora grande preoccupazione l’incremento dei nutrienti (ad esempio fertilizzanti azotati o fosfati) che alterano profondamente i sistemi ecologici fluviali, non trascurando altri problemi come l’immissione di metalli pesanti o microplastiche. In questi anni, la principale causa di alterazione è probabilmente l’incremento delle modificazioni morfologiche ed idrologiche degli alvei fluviali. Ad esempio, rettificazione delle aste, eccessive canalizzazioni, incremento delle strutture artificiali hanno spesso una profonda ripercussione sulle caratteristiche ecologiche dei sistemi fluviali, diminuendo la diversità morfologica ambientale, eliminando alcuni microhabitat e alterando spesso intensità e localizzazione dei fenomeni erosivi e deposizionali. Inoltre, a causa del cambiamento climatico e delle nostre sempre crescenti esigenze idriche per l’irrigazione e altri utilizzi, assistiamo ad un progressivo ma costante calo delle portate nei nostri fiumi, con la sempre maggiore diffusione di fenomeni di secca o scarsità d’acqua. Un ulteriore esempio di alterazione viene dall’introduzione di specie aliene, cioè non autoctone, all’interno delle comunità fluviali: pesci, alghe, gamberi e altri organismi provenienti da aree anche molto geograficamente lontane possono alterare profondamente le comunità biologiche locali entrando in competizione con le specie locali, distruggendo gli habitat e causando un crollo della diversità biologica.
Come definire la salute di un fiume?
Definire la qualità di un tratto fluviale è una tra le sfide ambientali più complesse, dibattute e soggettive. Dal punto di vista antropico, un tratto di fiume viene giudicato di buona qualità sulla base di parametri estremamente diversi: per un agricoltore sarà la disponibilità di acqua durante il periodo estivo a determinare il giudizio, per un ingegnere idroelettrico saranno le caratteristiche idro-geomorfologiche del sistema a essere importanti, mentre per alcuni pescatori un fiume sarà «un bel fiume» se è ricco di pesci (non importa se alloctoni). Attualmente per definire la salute di un fiume si fa riferimento a due diverse valutazioni, In primo luogo si esamina il valore ecologico: un fiume avrà un elevato valore se mantiene una buona integrità ecologica, ospitando ecosistemi che mostrano buone condizioni a livello strutturale e funzionale. Altra caratteristica fondamentale sarà il mantenimento di un’elevata capacità di resistenza e resilienza agli stress ambientali. Inoltre si considera il valore antropico: la qualità dell’ambiente fluviale è valutata in base alla sua capacità di fornire beni (acqua potabile o irrigua, ad esempio) e servizi (come la sua importanza nei processi autodepurativi e di ricircolo delle sostanze nutrienti). Al momento attuale si usano, oltre ai sistemi di controllo di tipo chimico-fisico, anche metodi basati sulle condizioni delle comunità biologiche che vivono nei sistemi fluviali. Questo avviene perché l’analisi chimica, in un ambiente così variabile e dinamico, riesce solamente a fotografare una situazione momentanea, mentre l’analisi biologica dà maggiori garanzie: infatti, ambienti in buona salute ospitano una ricca diversità biologica (ad esempio considerando alghe e invertebrati) mentre ambienti compromessi ed alterati sono scarsamente popolati.
Come avviene il recupero degli ambienti fluviali?
Sempre più spesso si sente parlare di progetti e strategie miranti al recupero degli ambienti fluviali. Queste iniziative e questa sensibilità sono ormai molto diffuse in alcuni paesi europei, in Canada e negli U.S.A. mentre purtroppo stentano ancora ad affermarsi nella nostra penisola. Le azioni di recupero degli ambienti fluviali sono un insieme di misure ed attività di tipo ecologico, morfo-idrologico e gestionale mirate a ripristinare condizioni e funzioni simili a quelle naturali, dal punto di vista sia ecologico sia morfologico. Negli ultimi anni è cresciuta ovunque la consapevolezza che il recupero sia un elemento essenziale per il mantenimento di un’elevata qualità della risorsa-acqua, il miglioramento della qualità degli ecosistemi lotici e la diminuzione del rischio idrogeologico. Fortunatamente, la sensibilità verso questi temi sta aumentando e numerose iniziative compaiono anche nel nostro paese. Tengo a segnalare in questa sede un progetto che stiamo realizzando e che ci sta molto a cuore. Il Parco del Monviso si è impegnato per realizzare la struttura e fornire l’attrezzatura necessaria per la creazione del Centro per lo Studio dei Fiumi Alpini (ALPSTREAM) e le tre università piemontesi insieme (Università degli Studi di Torino, Università del Piemonte Orientale e Politecnico di Torino) si sono impegnate per supportare il Parco e garantire la loro partecipazione scientifica. La sua realizzazione è una delle azioni finanziate dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), Programma Interreg ALCOTRA 2014-2020, nel Progetto semplice n.4083 EcO del Piter Terres Monviso. Ha sede in Ostana (CN), in prossimità delle sorgenti del fiume Po, e ha come principale missione la realizzazione di attività di ricerca, didattiche e divulgative relative in particolar modo allo studio, gestione e tutela dei corsi d’acqua alpini. Ad oggi questo centro, unico nel progetto e nelle finalità, sta già diventando un punto di riferimento a livello nazionale e non solo.
Il Vostro libro sfata alcuni falsi miti dell’ecologia fluviale: ad esempio, è davvero necessario ripulire le sponde dei fiumi dalla vegetazione ripariale e dragarne i letti?
Anche se sembra impossibile, ai giorni nostri in Italia l’approccio scientifico viene più spesso trascurato quando non addirittura messo in discussione. In qualsiasi campo, dalla medicina alla sismologia, assistiamo desolatamente al dilagare di una mentalità pseudoscientifica e al proliferare di teorie che, pur ammantandosi di una patina scientifica, rifiutano o comunque non hanno alcuna corrispondenza con il metodo sperimentale. Anche nell’ambito della gestione dei fiumi notiamo spesso la presenza di alcuni ‘falsi miti’, che tuttavia non hanno alcun fondamento scientifico. Prendiamo come esempio la gestione della vegetazione ripariale, cioè della fascia di alberi che cresce naturalmente sulle sponde dei fiumi. Le fasce boscate sulle rive fluviali sono spesso considerate come elementi pericolosi, che devono essere sottoposti a drastiche operazioni di «pulizia». Infatti, a detta di molti questa vegetazione viene facilmente sradicata durante gli eventi alluvionali, quando l’accresciuta velocità della corrente provoca erosione anche nei tratti di pianura. Rami e tronchi vengono quindi trasportati verso valle sin quando, incontrando le arcate di un ponte o altri manufatti, formano ostruzioni o dighe che provocano di conseguenza il crollo della struttura o l’esondazione del fiume nei terreni circostanti. È vero che durante le alluvioni attualmente molti elementi ripariali vengono strappati dalla loro sede, ma soffermiamoci su alcune considerazioni. In primo luogo, generalmente gli alberi che vengono strappati non sono quelli che naturalmente dovrebbero essere presenti negli ambienti ripariali, come salici, pioppi bianchi ed ontani. Queste specie infatti si sono adattate nei millenni per contrastare la furia delle alluvioni, ed hanno un’elevata elasticità delle parti legnose ed un enorme sviluppo dell’apparato radicale. Noi sempre più spesso rimuoviamo queste piante, lasciando gli argini nudi o sostituendole con pioppi da carta o robinie, che vengono sradicati e diventano pericolosi. Al contrario, la presenza di una fascia boscata di specie igrofile, cioè adattate a vivere accanto al fiume, è molto utile durante le piene in quanto consolida gli argini e dissipa l’energia del fiume, facendolo rallentare quando esce dall’alveo. Stesso discorso vale per la rimozione del sedimento: a volte è localmente necessaria ed utile, ma ciò non significa sia una pratica applicabile tout court sull’intero reticolo idrografico. Il fondo dei nostri fiumi infatti si sta spesso abbassando, proprio in conseguenza dell’eccessiva attività di estrazione realizzata a partire dal secondo dopoguerra: questo è testimoniato dal fatto che sono sempre più numerosi i ponti che restano ‘sospesi’, cioè i cui pilastri hanno sempre meno contatto con il letto fluviale.
Stefano Fenoglio è Professore associato di Zoologia all’Università degli studi di Torino