
Come si articola l’attuale paradigma dell’economia digitale definito “capitalismo delle piattaforme”?
Essendo abituato a vedere le cose in prospettiva storica, vedo nell’economia digitale e nel capitalismo delle piattaforme l’ultimo stadio – o meglio il penultimo: non c’è limite al peggio – di un millenario processo di smaterializzazione della ricchezza. Dai beni immobili dei miei avi contadini al denaro dei miei padri piccoli risparmiatori; dall’economia manifatturiera della rivoluzione industriale sino a quella dei servizi, passando per la produzione di beni perfettamente inutili; dall’economia finanziaria, che rende più remunerativo speculare in borsa che produrre beni e servizi sino al (pen)ultimo passaggio, il commercio dei nostri dati da parte delle piattaforme internet. Pratica talora decorata con il titolo di economia della conoscenza, e comunque assurta a base, totem e feticcio di qualsiasi altro servizio o business, compresi sicurezza, sanità, lavoro, ricerca scientifica… Tutti divenuti aspetti di un controllo sociale capillare, persino benevolo, ma disperatamente privo di garanzie, nelle mani di Stati-piattaforma come la Cina. La domanda, qui, non è neppure che fine faranno le democrazie liberali occidentali nel confronto con la dittatura dei dati cinese, ma se quest’ultima sia compatibile con la sopravvivenza degli umani sul pianeta, nientedimeno. Perché, in una prospettiva evolutiva, umani dipendenti per tutti i loro bisogni primari da social onnicomprensivi quali il cinese WeChat – non a caso studiato con ammirazione da Mark Zuckerberg, l’uomo con più pelo sullo stomaco dai tempi del cardinale Bellarmino – non faranno per avventura la fine degli abitanti dell’Isola di Pasqua, disposti a sacrificare il loro ambiente naturale ai propri idoli?
Che relazione esiste tra populismo e internet?
Questo libro discende dal precedente, Come internet sta uccidendo la democrazia (Chiarelettere, 2020), che a sua volta discendeva da Non c’è sicurezza senza libertà (Il Mulino, 2017). Come internet considerava la rete il brodo di coltura di quel che altri chiamano neopopulismo e il sottoscritto, sulle orme di Umberto Eco, populismo mediatico, quello dei vari Trump, Johnson, Bolsonaro. Forse perché già allora – Come internet è stato scritto sotto il tallone del governo giallo-blu, ed è uscito giusto un mese prima del lockdown – consideravo l’uso populista dei media molto più interessante del populismo stesso. Un’ovvietà, fra l’altro, per gli studiosi di comunicazione politica, ma non, evidentemente, per gli iper-specialisti anglosassoni del populismo, che noi continentali leggiamo come la Bibbia mentre loro ignorano anche la nostra esistenza. Nel nuovo libro, comunque, scritto nel bel mezzo di una pandemia che ha ridimensionato il fenomeno populista, aggiusto il tiro così. Le più antiche democrazie occidentali, Regno Unito e Stati Uniti – proprio i paesi investiti più platealmente dalla rivoluzione digitale prima, dall’ondata populista poi – ancora nel 2016 non erano attrezzate contro il populismo digitale, ammesso che oggi lo siano, sicché sono cadute in una sorta di imboscata mediatica cui hanno concorso i social, Cambridge Analytica, i servizi segreti russi, non necessariamente in quest’ordine. Del resto era già avvenuto due anni prima, nel 2014, in piena era Obama, per l’annessione della Crimea alla Russia: ma chissenefrega della Crimea? Qui rinvio a quanto scrive, sin dai primi capitoli di Hypemachine (Guerini, 2021), Sinal Aral, del MIT di Boston, che l’onnipotenza dei social l’aveva prevista quando gli attuali social non esistevano ancora.
In cosa consiste il processo di re-intermediazione?
Su questo torno nel terzo capitolo del libro, originariamente scritto quadrumanimamente – o si dice a quattro mani? – con Gabriele Giacomini. Oggi è un’ovvietà, ma Gabriele lo scrive da anni: la disintermediazione – l’idea che internet metterebbe in relazione diretta produttori e consumatori, anche di politica, saltando mediatori come commercianti, giornalisti, politici – è un mito. Mediazione ci sarà sempre, e la nuova mediazione, la re-intermediazione da parte di piattaforme, social, e simili, è peggio della precedente, perché più opaca, diffusa, irresponsabile. Ad esempio, crediamo di essere più informati sul Covid-19 perché ci informiamo da soli, saltando la mediazione dei virologi: come ha ammesso candidamente, in televisione, il chiarissimo prof. Cacciari, di professione maître à penser. Così caschiamo, come lui, in tutte le possibili trappole di una “informazione” fai-da-te. Questa, in poche parole, la re-intermediazione.
Quale futuro per lo Stato costituzionale?
Quale presente, forse, se è vero che la nozione stessa di Stato costituzionale è una peculiarità europeo-continentale, e che i migliori costituzionalisti anglosassoni, come Bruce Ackerman, si spingono al massimo a parlare di parlamentarismo vincolato dai diritti e dalla separazione dei poteri. Anzi, a ben vedere, la nozione di Stato costituzionale non è neppure condivisa dai nostri migliori costituzionalisti, come Roberto Bin, che a volte sembrano parlare di Stato costituzionale solo nel senso di Stato dotato di un documento costituzionale, come se anche la Russia e la Cina non l’avessero. Del futuro dello Stato costituzionale, che poi è solo l’architettura giuridica della democrazia liberale, l’unica che esista, mi occupo nel quarto capitolo del libro, dove immagino tre possibili scenari evolutivi: lo stato liberista delle grandi piattaforme, lo stato di sicurezza post-Undici settembre ma anche post-pandemico, basta non chiamarlo stato di eccezione à la Cacciari, lo stesso stato populista dominato dalla propaganda invece che dalla razionalità. È probabile che nessuno di questi scenari prevalga sugli altri, ma che tutti si mescolino, come già avviene, in un qualche cocktail imprevedibile prima. L’unica cosa certa è che solo soluzioni sovranazionali, che coinvolgano gli stessi dispotismi “asiatici”, potranno salvare il pianeta dalla sfida più urgente, il riscaldamento globale. La Stato costituzionale, che sotto questo profilo potrebbe chiamarsi anche internazionale, fornisce l’architettura giuridica entro cui questi problemi possono essere conosciuti e discussi: non dico risolti, per questo probabilmente è già tardi.
Quali principi devono, a Suo avviso, ispirare un’ecologia del digitale?
Per fortuna nessuno si aspetterà da un giurista come me, che non si è mai atteggiato a filosofo, ricette originali. Ma nell’epilogo del libro faccio due cose forse non del tutto scontate. Intanto, distinguo l’ecologia del digitale dalla retorica Green & Blue corrente: digitale ed ecologia, infatti, non sono necessariamente compatibili, solo la tecnologia blockchain, ad esempio, consuma tanta energia quanto l’intera Norvegia. Poi, e soprattutto, riassumo nell’Epilogo del libro i suggerimenti migliori trovati in letteratura per abborracciare un’ecologia della rete e diminuire la dipendenza da internet di cui parlavo all’inizio di questa intervista. Non vorrei spoilerare, togliendo al lettore il piacere di scoprirli da sé, ma almeno la norma di chiusura di questo pentalogo – un decalogo con soli cinque comandamenti, che, fra parentesi, già costituisce un bel risparmio d’impegno morale – non posso esimermi dal menzionarla. Qua e là dev’essermi sfuggito anche un “Restare umani”, ma non è questo, per restare umani bisognerebbe prima diventarlo. La norma di chiusura di quest’etica digitale minima, piuttosto, suona così. L’umano (il cittadino, l’utente, il cliente, il consumatore…) non deve mai essere lasciato solo dinanzi all’intelligenza artificiale: la cosa più stupida inventata dopo l’orologio a cucù. L’umano, se esiste, conserva sempre il diritto, almeno come estrema risorsa, di rivolgersi a un umano come lui, di chiedergli un aiuto per risolvere il problema del momento e, se del caso, piangere sulla sua spalla, senza distanziamenti.
Mauro Barberis (Genova, 1956) già in culla pensava di vivere per scrivere, o almeno scrivere per vivere. Ci è riuscito facendo il professore di diritto all’Università di Trieste, l’opinionista del “Secolo XIX”, il blogger del Fattonline e di Micromega. Fra i suoi tanti, troppi lavori, resta affezionato a Il diritto come discorso e come comportamento (Giappichelli 1990), L’evoluzione nel diritto (Giappichelli 1997), Libertà (Mulino 1999, presto riedito da Città aperta), Etica per giuristi (Laterza 2006) e Genoa School (2016, online).