
In secondo luogo, in un’accezione meno scientifica ma ormai sdoganata nel linguaggio comune, significa adottare una prospettiva di cura dell’ambiente: se le conseguenze di un ecosistema vanno in una direzione minacciosa o almeno pericolosa per la vita dell’uomo, la preoccupazione ecologica si concretizza in strategie e comportamenti che possano invertire la tendenza, e salvare la vita della nostra specie. Per quanto concerne i media e la loro recente evoluzione, si tratta di chiedersi: possiamo immaginare di guidarli in una direzione più proficua, che non si limiti a seguire le impronte del progresso tecnologico o delle leggi del mercato? E per quanto concerne la comunicazione umana: possiamo salvarne la funzione originaria? Quali consapevolezze dobbiamo riattivare per giungere a questo obiettivo? E quale approccio di fondo possiamo utilizzare?
Quale evoluzione ha subito negli ultimi anni il sistema dei media?
Le trasformazioni dei media dalla loro nascita a oggi possono essere ben rappresentate come un succedersi di quattro ondate fondamentali che portano dalla nascita della stampa industriale a oggi, sovrapponendosi progressivamente.
La prima ondata è quella della nascita dei media stampati da macchine, corrispondente al periodo dell’industrializzazione e al sorgere delle società moderne. Questo specifico tipo di industria si basa sulla comparsa di soggetti di intermediazione (gli editori) e sulla diffusione anche fra le classi popolari di stili di fruizione ispirati a quelli della borghesia, classe sociale in piena ascesa. In particolare i giornali, primi autentici media moderni, nascono come luoghi di costruzione conversativa di opinioni, e svolgono un ruolo fondamentale nella nascita delle democrazie rappresentative.
La seconda ondata è costituita dei grandi media istantanei e audiovisivi, anticipata nell’Ottocento dal telegrafo e poi materializzatasi nel cinema, nella radio e infine nella televisione. Dapprima guidati e sapientemente utilizzati dai regimi totalitari, questi mezzi svolgono poi un ruolo fondamentale anche nelle democrazie post-belliche, sviluppando da un lato funzioni socializzanti e didascaliche, dall’altro nuove forme di intrattenimento basate su appuntamenti fissi e specifici rituali di consumo. I nuovi intermediari e i nuovi pubblici sono in una prima fase rispettivamente le istituzioni e i cittadini. In una seconda fase i grandi soggetti economici (le imprese) e i consumatori, di cui radio e televisione (ma anche, al loro traino, cinema e stampa) cercano di intercettare i gusti anziché guidarli.
La terza ondata è segnata dall’impatto dell’informatizzazione sulle tecnologie e sui media (a cominciare dal versante produttivo). La stampa è la prima a risentire delle novità della trasformazione del segnale analogico in segnale binario, ma la vera protagonista di questa ondata è la rete, luogo utopico e reale della condivisione globale. Dopo i primi esperimenti relativamente modesti, la nascita di internet come rete delle reti rende sempre più plausibile il sogno della disintermediazione, in cui i tradizionali colli di bottiglia costituiti dai grandi media tradizionali lasciano via via spazio a nuovi soggetti digitali e a reti di cittadini sempre più orientati all’espressione e alla partecipazione. La nascita della rete si accompagna a due grandi stanchezze: quella verso i sistemi politici usciti dalla Seconda guerra mondiale (il 1989 vede la caduta del Muro di Berlino e la fine della geopolitica dei due grandi blocchi contrapposti nella Guerra fredda) e quella verso i media tradizionali, con le loro opacità e la loro monodirezionalità.
L’esplosione della bolla speculativa di internet (2000) e poi l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre (2001) segnano l’inizio della quarta ondata.
Da un lato, si attua il completamento della convergenza tecnologica con la digitalizzazione dei media tradizionali, dalla discografia al cinema, dalla radio alla televisione, dal giornalismo all’editoria libraria. Inoltre, il web da un lato e le app dall’altro consentono la fruizione online di contenuti che fino a poco prima erano ancora appannaggio delle grandi filiere dei ‘vecchi’ mezzi. Questa migrazione ha favorito la definitiva saldatura fra media e telecomunicazioni, con le infrastrutture di rete che un canale di distribuzione di ogni tipo di contenuto. Dall’altro lato, la digitalizzazione utilizza finalmente su scala di massa uno strumento appartenente alla storia della computer science e finora rimasto nelle retrovie della ricerca nelle sue forme più avanzate e d’élite: l’intelligenza artificiale. Fin da quando è nato, il cosiddetto web 2.0 è infatti basato sul funzionamento degli algoritmi e sulla loro capacità di leggere i comportamenti degli utenti. Come scrivono van Dijck, Poell e de Waal, una piattaforma (come Facebook, Airbnb o Uber) «è un’architettura programmabile progettata per organizzare le interazioni tra utenti».
Quali effetti produce sulla vita sociale l’ecosistema comunicativo?
È inevitabile che i media impattino sulla nostra vita su diversi piani, e che pongano questioni per così dire di eccesso, di inquinamento. Accade, insomma, ai media quello che accade ad altre innovazioni tecnologiche del nostro presente, il cui esempio perfetto è la plastica: scoperta positiva e capace di rivoluzionare la vita sociale oltre che l’intera filiera industriale, oggi però rischiosa a causa della grande diffusione, della non biodegradabilità, della difficoltà del riciclo, al punto che una riduzione della produzione diviene una strada necessaria, così come lo è la ricerca di nuovi materiali con vantaggi simili a quelli della plastica ma con minore impatto ecologico.
La pluralità di ‘punti di impatto’ dell’ecosistema delle piattaforme sulla nostra società e la nostra vita (dalla materialità del nostro ambiente all’immaterialità del nostro universo simbolico e delle nostre relazioni comunicative) fa comprendere la complessità della questione ecologica che esse pongono, e la possibile natura inquinante che esse possono assumere se non governate da strategie culturali e politiche. Questa sensibilità ‘ambientalista’, che oggi sta assumendo contorni sempre più urgenti, è in realtà già diffusa, soprattutto in alcuni settori e segmenti (i pensi, per esempio, alla riflessione – in atto già da un paio di decenni – sulle conseguenze profonde dei meccanismi digitali di sorveglianza sulle forme del potere nella società). anche se non è ancora stata riportata a un comune approccio condiviso.
In che modo la pratica di un’ecologia dei media si riverbera sulle relazioni interpersonali e il rapporto con il mondo?
Bisogna tenere conto che l’impatto dei media si esercita su almeno quattro dimensioni: la prima è quella materiale/oggettuale (cavi, antenne, ripetitori e satelliti fanno parte del panorama urbano e non; il computer o lo smartspeaker sono insediati nella nostra casa, il tablet ci segue e si colloca negli spazi interni o esterni che via via abitiamo durante la giornata). Come oggetti funzionali, i media consumano e inquinano, e l’attenzione ecologica che li deve circondare non può sottovalutare questo aspetto e guidare strategie di contenimento.
La seconda dimensione dei media è quella strumentale: le piattaforme eccedono i media stessi, offrendosi come strumento di organizzazione della nostra esistenza, agendo sia come segretari, sia come mezzi per accedere ai contenuti o per relazionarsi con gli altri, e come tali ri-plasmano le forme stesse della comunicazione. La disponibilità di strumenti per interloquire con i nostri amici o conoscenti ha via via riarticolato il nostro senso del tempo, e in fondo anche il galateo quotidiano. Diventa così cruciale educare i comportamenti attraverso scelte precise, non fondate solo su ragioni di convenienza economica, e orientare lo sviluppo delle piattaforme. La terza dimensione è quella propriamente di contesto, che riguarda i media in quanto capaci di ospitare la comunicazione e darle forma, e che ci richiede una riflessione sui cambiamenti imposti dal passaggio dall’offline all’online, e dalle nuove regole di serietà e rispetto che questo passaggio dovrebbe comportare.
La quarta dimensione riguarda infine i contenuti e la loro trasmissione e ha a che vedere con la più generale eredità culturale, intesa come grande memoria collettiva. Dopo una lunga stagione in cui i media hanno articolato la propria offerta nel tempo – attraverso uscite e palinsesti – oggi il formato principale con cui le piattaforme offrono i contenuti è quello del menu on demand, all’interno del quale gli utenti selezionano i contenuti che preferiscono. Apparentemente la logica del menu rende gli utenti più liberi e meno soggetti al gatekeeping degli abituali intermediari (come le media companies tradizionali), ma è anche vero che spesso tali menu sono customizzati in base alle scelte già compiute, per cui ciascun utente viene inserito in un cluster che tende a costruire per lui una specifica rotta di navigazione del menu, e a trasformare in dati ogni scelta compiuta. Anche qui si tratta dunque di comprendere a fondo come riarticolare le nostre logiche culturali accettando i guadagni ma riducendo le perdite simboliche sempre possibili.
Come è possibile promuovere una rinnovata sensibilità etica nell’uso dei media?
Occorre innanzitutto guardare in faccia le grandi sfide che – anche in tempo di pandemia – continuano a fronteggiare un approccio ecologico: la diffusione crescente di post-verità e il dilagare dell’aggressività online nel campo della politica e delle relazioni umane.
Istituzioni, associazioni dal basso, semplici cittadini e ultimamente anche le piattaforme social tentano di ridurre i due fenomeni, spesso evocando implicitamente le filosofie della cortesia comunicativa messe a punto soprattutto negli anni Settanta.
Tuttavia io credo che possiamo e dobbiamo fare di più, guardando alle ragioni profonde che devono muovere le nostre consapevolezze comunicative. Chi comunica male, diffonde falsità o aggredisce gli altri non soltanto avvilisce i suoi interlocutori, ma rinuncia a una componente preziosa della sua stessa umanità.
Quali principi ispirano il ‘manifesto per una comunicazione gentile’ che Lei presenta nel libro?
Intanto, al di là delle analisi del linguaggio e dei complessi studi che continuiamo a compiere sulle forme dell’interazione fra persone, la comunicazione umana presenta un’evidenza lampante: essa definisce l’appartenenza alla nostra specie, che proprio nel suo modo di comunicare diverge completamente dalle altre specie animali. Fin da bambini, addirittura fin da prima della nostra nascita, sentiamo la presenza dell’altro. Nel ventre della madre riceviamo segnali dei suoi stati d’animo. Possiamo dire che la prima comunicazione che riceviamo dall’‘altro da noi’ – dal mondo che ci accoglie e che ci aspetta – è un dono, che riceviamo senza merito e senza aspettative. Questa apertura originaria a un altro come noi eppure diverso (la madre) e a un mondo a cui veniamo si sostanzia poi, nella vita, in una consapevolezza profonda: quella di una specie che non pensa se stessa solo nel presente, ma anche in una temporalità che trascende la sua attuale esistenza. Siamo l’unica specie capace di pensare al di là della contingenza degli individui, e la trasmissione da parte di ogni generazione alle generazioni seguenti, così come la consapevolezza dell’eredità (in termini di sapere acquisito) ricevuta dalle generazioni precedenti, è un suo elemento definitorio e costituente.
Le crescenti acquisizioni scientifiche e tecniche non sono spiegabili senza questo dato di fondo, così come non lo sono la nostra curiosità per la storia, la passione per classici scritti secoli fa, la volontà di interpretare e immaginare un futuro che non ci vedrà fra i suoi abitanti: pensiamo il nostro essere umani come appartenenza a una grande collettività che attraversa il tempo seguendo le tracce di chi ci ha preceduto, e lasciandone per chi deve venire. La comunicazione non è solo strumento di questo istinto di specie, ne è anche, per così dire, l’incarnazione, e in questo senso è vero che non possiamo non comunicare.
È lecito dire, insomma, che la comunicazione è la nostra prima esperienza di individui, e anche il nostro mandato come appartenenti alla specie: ciò le assegna un valore prezioso, e la sua qualità è evidentemente un problema cruciale oggi come ieri.
Fausto Colombo è professore ordinario di Teoria della comunicazione e dei media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove dirige il Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo in particolare: Il potere socievole. Storia e critica dei social media (2013). Per Vita e Pensiero ha pubblicato tra l’altro Gli archivi imperfetti (1986) e Imago Pietatis. Indagine su fotografia e compassione (2018). È membro dell’Academia Europaea.