
A fronte di queste diffidenze, nel 1647, un avvocato di Bordeaux inserì per la prima volta in un volume a stampa, in questo caso un fortunato trattato di diritto marittimo, una narrazione del tutto fittizia secondo cui erano stati appunto gli ebrei medievali a inventare l’assicurazione marittima e le lettere di cambio. Mi si lasci aggiungere che sono stata io a chiamare questa narrazione senza fondamento una “leggenda,” per via sia del suo misto di realtà storica e fantasia che dell’enorme fortuna cui andò incontro.
Quale ruolo svolgono, in tale vicenda, l’assicurazione marittima e le lettere di cambio?
L’assicurazione marittima e le lettere di cambio (o cambiali) erano i due principali strumenti finanziari del capitalismo europeo pre-industriale. Nessun individuo o gruppo specifico fu responsabile della loro invenzione. Piuttosto, essi emersero e si perfezionarono lentamente durante la rivoluzione commerciale del Basso Medioevo, ovvero nel periodo di grande espansione demografica ed economica che precedette la Peste Nera del 1348. Ciascuno dei due contribuì a trasformare l’organizzazione del commercio sulla lunga distanza riducendo i rischi che i mercanti si dovevano accollare e la necessità che questi si spostassero di persona per seguire le proprie merci.
Se da un lato sia l’assicurazione marittima che le lettere di cambio facilitarono lo svolgimento degli scambi internazionali e dunque, in linea di principio, portarono benessere a tutta la popolazione, dall’altro suscitarono enormi sospetti circa le modalità con cui venivano gestite da quanti ne conoscevano gli arcani. Dalla metà del Cinquecento, poi, le cambiali divennero oggetto di speculazioni finanziarie che nulla avevano a che fare con il mercato delle merci. Questa che potremmo chiamare la prima finanziarizzazione dell’economia europea avvenne in un contesto in cui le istituzioni preposte a regolare i mercati erano assai deboli. Non è pertanto un caso che agli ebrei sia stata attribuita l’invenzione proprio di questi contratti, che erano all’avanguardia nel panorama finanziario dell’epoca – i più enigmatici e più difficili da tenere sotto controllo.
Perché tale leggenda ha avuto tanta diffusione fino a diventare senso comune?
Appunto perché la legislazione, fosse essa civile o ecclesiastica, non era in grado di sancire delle norme precise – né tanto meno di farle rispettare – riguardo a quali cambiali fossero legittime e in che modo le si potesse usare legittimamente. Un racconto allegorico che ne accollava l’origine agli ebrei colmò questo vuoto, dando un senso (per quanto distorto) alle paure più ineffabili che si nascondevano dietro la progressiva espansione dei mercati del credito. Tale racconto, va sottolineato, non andava a condannare tutti i tipi di cambiale. Lo conferma il fatto che apparve per la prima volta in un trattato di diritto marittimo volto a celebrare i commerci e i banchieri onesti nell’ambito di una società feudale come la monarchia francese, e continuò poi a diffondersi per lo più nella letteratura per mercanti. Semmai, imputando l’invenzione dell’assicurazione marittima e delle cambiali agli ebrei, la leggenda gettava un’ombra su questi strumenti finanziari ma non li deplorava in toto. In che cosa consistesse l’uso improprio delle cambiali non era mai specificato, e rimproverare chi le usava “al modo degli ebrei” all’epoca la diceva tutta. La peggior ignominia cadeva su quei mercanti-banchieri cristiani che si comportavano come degli ebrei – una condanna morale peggiore di qualunque sentenza che un tribunale potesse infliggere. Ecco il motivo per cui la leggenda ebbe tanto successo.
Per quali ragioni gli ebrei sono sempre stati associati al fenomeno dell’usura?
In realtà anche la parola “sempre” va precisata. La stretta associazione tra ebrei e usura è il frutto di una costruzione ideologica della Chiesa romana che risale alla rivoluzione commerciale del Due e Trecento. Con il rifiorire delle città e dei mercati dell’Italia centro-settentrionale, la Chiesa si trovò ad amministrare materialmente patrimoni sempre più ingenti e spiritualmente un corpo di fedeli che comprendeva facoltose élite urbane dedite agli interessi tangibili e politici. È errato pensare, come si è detto a lungo, che la Chiesa medievale condannasse tutte le forme di profitto. In realtà alcune tra le sue menti più acute – non poche appartenenti all’ordine francescano – elaborarono varie teorie per giustificare la gestione dei beni terreni legandola al bene comune e alla carità cristiana. L’immagine speculare di questa economia a buoni fini venne delineandosi nella figura dell’usuraio ebreo, cristallizzata dal IV Concilio Lateranense del 1415, figura presunta dedita a estrarre indebitamente risorse dalla comunità cristiana. Anche questa figura venne poi adattandosi nel tempo. Nel Seicento, al momento dell’affiorare della leggenda di cui stiamo parlando, l’immagine medievale era ben radicata ma fu man mano affiancata da quella dell’ebreo onnipotente commerciante e banchiere internazionale nonché da quella dell’ebreo straccione e impoverito – due stereotipi che rappresentano due facce della stessa medaglia in quanto entrambi hanno aspetti parassitari rispetto all’economia cosiddetta sana.
In che modo anche grandi autori come Montesquieu, Marx e Sombart ricorrono a tale leggenda?
Ho voluto mostrare che una storia senza basi empiriche alla quale gli storici professionisti avevano smesso di prestare attenzione in realtà è stata un perno nelle teorie sullo sviluppo della civiltà occidentale di alcuni tra i pensatori più influenti degli ultimi secoli. A metà Settecento, ne Lo spirito delle leggi, Montesquieu attribuisce alla leggenda un nuovo significato, più benevolo, e la erge a perno della sua interpretazione sull’emergere dello spirito del commercio e del declino del despotismo. La storia risulta talmente assurda (e la sua provenienza era finora sconosciuta) che pochissimi specialisti si sono soffermati su queste righe dell’illuminista francese, sebbene esse svolgano un ruolo fondamentale nel suo quadro concettuale.
Marx è un caso diverso. Nella sua opera giovanile La questione ebraica (1844), il riferimento alla leggenda è obliquo anche se inconfondibile. Soprattutto, in quel testo, per Marx non è più possibile distinguere tra un capitalismo cristiano “morale” e un’economia usuraria ebraica; bensì, il capitalismo ha corrotto l’umanità intera. Di conseguenza non ha più senso identificare nei soli ebrei l’origine del capitalismo: il vero problema sta nel fatto che la società intera è ormai ebraica nel senso di capitalistica. Presto comunque Marx abbandonò questo linguaggio a favore di quello più noto della lotta di classe nel Manifesto del partito comunista e Il capitale.
Sombart invece è il più esplicito ma anche il più rozzo e ingannevole tra gli scrittori moderni che hanno voluto far propria la leggenda. Il suo obiettivo è chiaro: nel conferire agli strumenti finanziari europei delle origini ebraiche, intendeva screditare il capitalismo europeo nel suo insieme in quanto malato e decadente. Quel che colpisce di questa distorta genealogia storica è che quando scrisse Gli ebrei e la vita economica (1911), Sombart aveva a disposizione i dati per smentire la leggenda, ma scelse di ignorarli e anzi di gonfiarne i travisamenti. Questo è il vero complottismo.
Il Suo saggio smonta pezzo per pezzo le teorie complottiste su cui, per secoli, l’antisemitismo ha costruito la propria fortuna: quali meccanismi hanno in realtà definito lo sviluppo del mercato?
Il mercato esiste storicamente al plurale, come mercati –sia nel senso concreto che teorico. Così soprattutto nel periodo pre-industiale, quando le infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni, per non parlare delle politiche tariffarie e delle segmentazioni gerarchiche tra gruppi sociali, erano tali per cui i sistemi di coordinamento dei prezzi erano assai deboli. Ciò detto, tra l’XI e il XVIII secolo una pluralità di forze istituzionali oltre alla brama di conquista coloniale portarono a varie innovazioni organizzative sul piano economico, dalla nascita del debito pubblico all’abolizione della servitù e la diffusione del lavoro salariato in gran parte delle città e anche delle campagne dell’Europa occidentale. Ovviamente mercati assai complessi si svilupparono anche al di fuori dell’Europea, prima e indipendentemente dall’arrivo degli Europei (basti pensare alla Cina), ma non di questo mi occupo in questo libro.
Piuttosto, ho voluto sottolineare un tratto saliente della crescita del libero mercato del credito occidentale: il fatto che ad accompagnare l’elogio della sua espansione è sempre stato il timore che forze ingovernabili ne deviassero il corso. In quanto sinonimi di segretezza, disonestà e talento innato per il lucro, gli ebrei hanno funto da sineddoche di tutte le inquietudini più difficili da esprimere e tanto più da legiferare. Perché più il mercato del credito è anonimo, più in teoria è utile e proficuo per tutti; ma più è anonimo, più è anche potenzialmente pericoloso e ingiusto verso chi parte svantaggiato e rimane escluso dai sui circoli maggiormente privilegiati. Nulla di meglio che una leggenda dai toni antisemiti per spiegare queste logiche sfuggenti eppure pervasive, che persistono tutt’oggi.
Francesca Trivellato ha insegnato per quindici anni Storia dell’Europa moderna alla Yale University ed è attualmente professore titolare presso l’Institute for Advanced Study a Princeton, NJ. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il commercio interculturale. La diaspora sefardita, Livorno e i traffici globali in età moderna (Viella, 2016) e Fondamenta dei vetrai. Lavoro, tecnologia e mercato a Venezia tra Sei e Settecento (Donzelli, 2000).