“EAS e grammatica. La relazione sorprendente” di Giuseppe Pelosi

Dott. Giuseppe Pelosi, Lei è autore del libro EAS e grammatica. La relazione sorprendente edito da Scholé: ha senso insegnare grammatica nella società multiculturale?
EAS e grammatica. La relazione sorprendente, Giuseppe PelosiE come si potrebbe evitarlo? Grammatica è da considerarsi non una materia a sé stante, ma il sostrato di qualsiasi riflessione linguistica, e quindi didattica, si svolga in classe! Qualsiasi argomento venga trattato in classe è occasione di riflessione linguistica, e quindi di lezione di grammatica. Indubbiamente sembra di assistere, di questi tempi, a un fenomeno di decadenza o inattualità, segnatamente in contesto scolastico, di tutte le discipline più riflessive, dunque non solo della grammatica. Ecco perché, contro tendenza, grammatica si deve fare! Per almeno quattro motivi: 1) perché l’uso crea l’organo. La perdita, la disabitudine, alle forme logiche del linguaggio provoca la perdita e la disabitudine all’uso del linguaggio in maniera articolata e significativa. L’abbandono della grammatica, della riflessione sulla lingua, alla distanza, non può che portare all’esprimersi, nuovamente, con i grugniti. Nell’epoca della comunicazione complessa non è possibile semplificare togliendo. La rinuncia alla riflessione linguistica a favore dello spontaneismo espressivo genera un impoverimento che non è solo del linguaggio, ma è proprio delle forme di riflessione. 2) La lingua è lo strumento attraverso il quale l’uomo conosce. Nel De Vulgari Eloquentiae Dante difende il volgare contro gli snobismi degli intellettuali del tempo che lo disdegnano in quanto “popolare” preferendogli qualunque tipo di lingua straniera. Ma contro il loro atteggiamento, Dante dice la cosa più bella che si possa dire a proposito del volgare e a proposito di qualsiasi lingua: è la lingua che mi ha generato, perché è parlando questa lingua che i miei genitori si sono conosciuti. Siamo figli, anche e soprattutto culturalmente, della lingua che parliamo. Approfondire la nostra lingua è approfondire e conoscere la realtà che ci circonda. Si tratta di riappropriarci del gesto poietico, creatore e conoscitore, con cui Adamo diede il nome alle cose.

3) Si viaggia anche nella direzione opposta: non solo la lingua descrive la realtà che ci circonda, ma essa stessa nasce dal nostro modo di pensare. Insomma: parliamo in questo modo perché pensiamo in questo modo. E dunque, riflettere sulla lingua significa attivare meccanismi di riflessione che valgono in altri contesti. 4) E, naturalmente, la riflessione sulla lingua madre ha il compito di aprire la possibilità della riflessione sulle lingue apprese. Si può imparare l’inglese o altre lingue straniere anche “solo” facendo il lavapiatti a Londra per un anno. Ma per elevare e approfondire questa conoscenza d’uso della lingua, servono gli strumenti fini dell’analisi del linguaggio, quelli forniti dalla grammatica. Arriva un punto in cui lo spontaneismo non basta più, la domanda deve farsi più profonda. La grammatica è il terreno comune su cui si incontrano le lingue diverse, proprio perché è lo strumento formale, figlio del pensiero e delle nostre formulazioni logiche, applicato al linguaggio.

Cosa insegniamo quando insegniamo grammatica?
La questione è antica… Secondo alcuni studiamo la lingua “come deve essere”, cioè la lingua corretta, le sue regole. In questo caso, la funzione della grammatica è prescrittiva. Secondo altre scuole di pensiero, la grammatica più che prescrivere, descrive: osserva la lingua impiegata, che muta, cambia nel tempo, rendendo inafferrabile la sua forma corretta, oppure, rendendo corretto con l’uso ciò che un tempo era considerato scorretto. Pensiamo solo, a titolo di esempio, all’aggettivo “familiare” che oggi è accettato anche nella forma “famigliare”… La domanda, quindi (“cosa insegniamo quando insegniamo grammatica”), rimanda a una scelta di campo, che l’insegnante deve compiere: insegno la regola, o insegno la lingua? Nel secondo caso si parla più di “riflessione linguistica” che di “grammatica”. Nel libro di cui stiamo parlando, pur ammettendo l’importanza della impostazione prescrittiva, e pur desiderando superare radicali opposizioni, si sostiene che sia importante insegnare la lingua a partire dalla lingua. Ma, per la verità, si evidenzia anche come questa dicotomia tra grammatica prescrittiva e grammatica descrittiva non debba essere interpretata in maniera radicale: l’obiettivo è quello di superare lo spontaneismo espressivo, di attirare l’attenzione degli studenti sui meccanismi linguistici, anche (ma non solo) riflettendo sulle regole.

È possibile superare la natura di disciplina “formale”, astratta, a favore di una disciplina legata all’atto comunicativo situato in contesto?
Il problema atavico dell’insegnamento della grammatica, lo scoglio su cui l’insegnante vede arenare i suoi alunni, è l’insegnamento di uno strumento che non è legato alla pratica. Ecco: la grammatica dovrebbe in realtà insegnare la pratica della lingua, per connotarsi di interesse tra i nostri alunni! E questo è esattamente quanto si propone: un approccio all’insegnamento della grammatica che sia “situato”, cioè a partire da casi in contesto, da compiti comunicativi autentici, da analisi non manualistiche ma applicate ai testi che da sempre accompagnano gli studenti nei loro percorsi scolastici: i brani dell’antologia, le poesie dei grandi autori, i loro stessi temi… Grammatica si deve insegnare sui casi concreti, deve partire da Episodi di Apprendimento Situati, come nel metodo EAS messo a punto da Pier Cesare Rivoltella, con cui collaboro da tempo.

Quale contributo può giungere dal metodo degli Episodi di Apprendimento Situato?
Si tratta di un metodo blended, che unisce alcune intuizioni provenienti da scuole pedagogiche differenti. Il metodo EAS pone l’intervento dell’insegnante a monte e a valle dell’attività dello studente: un inquadramento concettuale, denominato fase preparatoria, fornito dall’insegnante, pone gli alunni in condizione di indagare da sé il campo del sapere di cui ci si sta occupando; l’insegnante ha anzi proprio il compito di stimolare la curiosità, porre domande intriganti che spingano gli studenti a cercare una risposta. L’azione di studio dello studente, poi, può avvenire singolarmente o in gruppo, ed è finalizzata, oltre che all’acquisizione del sapere, alla realizzazione di un oggetto di apprendimento, cioè di una rappresentazione di quel sapere acquisito. Può essere un cartellone, uno slideshow, un video, una mappa concettuale… E a valle, l’insegnante farà presentare il lavoro dello studente alla classe e procederà a correggere eventuali incomprensioni, oppure a far emergere le positività del lavoro. In una parola: attiverà la riflessione metacognitiva. Questo è lo snodo chiave anche per l’insegnamento della grammatica: trasformarla da studio astratto e teorico a riflessione linguistica, cioè applicata a situazioni comunicative reali e situate, in contesto. E questo è appunto il contributo che si può ricavare dal metodo EAS.

Il libro propone anche una serie di esercizi pratici fondati sul metodo EAS: come si insegna grammatica con gli EAS?
Con la fantasia! Dalla grammatica della fantasia, alla fantasia della grammatica, mi verrebbe da dire, parafrasando un grande pedagogista, Gianni Rodari… Nel senso che il metodo EAS stimola, anche e proprio nell’insegnante, l’invenzione di attività didattiche mirate a conseguire determinati scopi: migliorare l’uso del congiuntivo, oppure rendere consapevole l’uso della regola, per esempio quella dell’a con l’h, fino ad arrivare alle finezze stilistiche, come la scrittura ricca di aggettivi e avverbi, oppure il suo contrario, la scrittura asciutta e essenziale… L’insegnante inventa l’esercizio, l’attività, che consente di raggiungere lo scopo linguistico prefisso. Gli esempi presentati vogliono solo essere uno stimolo a ulteriori attività, ma hanno dalla loro proprio il fatto che sono stati effettivamente eseguiti nelle classi in cui ho insegnato, e offrono quindi uno spaccato sul metodo, offrendo spunti, a chi volesse, per inventare le proprie attività didattiche, i propri EAS.

Giuseppe Pelosi è laureato in Filosofia con una tesi in Drammaturgia Teorica. Ha insegnanti per 29 anni Italiano e Teoria della Comunicazione in una scuola secondaria di secondo grado. Attualmente è Dirigente Scolastico in un Liceo Linguistico. Collabora con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano come conduttore del Laboratorio di Tecnologie Didattiche. Ha scritto articoli e libri, anche di carattere divulgativo, occupandosi soprattutto delle problematiche educative connesse all’avvento delle nuove tecnologie.

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