
di Giuseppe Culicchia
Laterza
«Ho lavorato una decina d’anni in mezzo ai libri, prima in una biblioteca a Londra e poi in un paio di librerie a Torino. E da parte mia, mentre mi aggiravo tra scaffali e banconi da cui mi guardavano ora severi ora ironici Omero e Dante, Shakespeare e Cervantes, Goethe e Flaubert, Dickens e Dostoevskij, ho sempre pensato che, al di là delle teorie dei critici e delle mode letterarie e delle strategie editoriali e delle campagne pubblicitarie e delle tecniche autopromozionali e del paraculismo elevato a stile di vita e scienza esatta, nonché delle cerimonie di premiazione non solo per lo Strega o il Campiello o il Bancarella o il Nonino ma anche per il Pulitzer o perfino per il Nobel, l’unico vero metro di giudizio in Letteratura fosse il Tempo. E che di conseguenza gli scrittori, quelli veri, fossero in linea di massima tutti morti da un pezzo. Nel senso che uno è uno scrittore solo ed esclusivamente se è capace di scrivere libri che sappiano durare, non lo spazio di un’estate o sei mesi in testa alle classifiche, ma decenni, nemmeno, secoli. […]
Tu che stai leggendo queste mie righe sappi, dunque, che nel presente libro userò la parola “scrittore”, almeno quando riferita a me, per pura e semplice convenzione, perché si sa che l’Italia pullula di scrittori, e chiunque abbia pubblicato non dico un romanzo o un racconto ma giusto una raccolta di poesie o anche solo una singola poesia si ritiene automaticamente tale. Anzi, di più: perché tra le Alpi e il Lilibeo esistono innumerevoli scrittori convinti di essere tali benché siano inediti, e questo nonostante in Italia da alcuni lustri si pubblichi ormai praticamente tutto. Al limite estremo, facendo ricorso a un editore (?) a pagamento, o alla tipografia sotto casa, che poi in pratica è la stessa cosa, oppure al cosiddetto self-publishing. Di modo che, come mi ha detto una volta il mio primo editore, niente resterà impubblicato.
Ad ogni modo, è andata più o meno così. Da parte mia ho cominciato a scrivere perché amavo moltissimo, ma proprio tanto tanto tanto leggere. No, meglio. Leggere e ascoltare. Leggere e ascoltare storie. Alcune di quelle storie mi piacevano tanto che nonostante le avesse scritte qualcun altro avrei voluto scriverle di nuovo io. Altre, invece, avrei voluto scriverle dopo averle ascoltate, innanzitutto per non scordarmele. Non dimenticherò mai la gioia con cui nei giorni d’estate mi tuffavo nel Mississippi insieme con Huckleberry Finn, e l’emozione di imbattermi in Long John Silver, e la voglia di fare baldoria con Athos, Porthos e Aramis. Mi addormentavo con un libro tra le mani e la mattina dopo riprendevo a leggerlo facendo colazione. Assecondato, alcuni decenni prima che qualcuno si inventasse quella cosa meritoria che è Nati per Leggere, dai miei genitori. […]
Sia come sia: c’è stato un momento preciso in cui ho desiderato di “fare lo scrittore”. Me lo ricordo benissimo. Una mattina d’estate, era il 1977 e avevo dodici anni, finii di leggere un romanzo iniziato il giorno prima e intitolato Fiesta. “Non è bello pensare così?”, diceva l’ultima frase nella traduzione di Ettore Capriolo. Non so spiegare l’emozione che provai, leggendo quelle parole. In quella frase, in quel romanzo, c’era tutto. Il dolore e la gioia. La vita e la morte.
Scrivere, dovevo assolutamente mettermi a scrivere. Non c’era niente di meglio al mondo. Anche perché io una storia da scrivere ce l’avevo, anche se non sapevo come. Perciò cominciai a scrivere proprio quella storia. Ma era una storia troppo difficile, per un ragazzino. E presto mi resi conto che se volevo avere qualche speranza di scriverla davvero, un giorno, avrei dovuto imparare a farlo. E l’unico modo per imparare forse era provare a scrivere altre storie, apparentemente più semplici, anche se all’inizio non c’è nulla di semplice. Magari ispirate ad alcune tra quelle che mi piaceva leggere e ascoltare. Solo che, anche se ero bravo con i temi in classe, non ero capace di scrivere storie. Neppure le storie più semplici, e nemmeno ispirandomi a quelle che avevo letto o ascoltato.
Scrissi per dieci anni, più o meno, senza riuscire a mettere giù niente che avesse un inizio, uno svolgimento e una fine, come mi avevano insegnato per i temi in classe. Un giorno, frequentavo già Lettere all’università in base alla convinzione che mi sarebbe servito per imparare a scrivere, presto smentita dalla constatazione che non si scriveva nulla se non la tesi di laurea a cinque anni o più dall’ultimo tema in classe alle superiori, una persona a me molto cara morì e smisi di scrivere. Ma non c’era solo il dolore. C’erano la fatica e la mancanza di fiducia e la frustrazione. Perché continuare a provarci, visto che non ne veniva fuori niente di leggibile? Tuttavia, continuavo a leggere. Leggere era ancora motivo di grande piacere. E le storie che leggevo continuavano a sfidarmi. Perché da qualche parte dentro di me desideravo sempre scrivere quella prima storia, troppo complicata per un ragazzino. E più leggevo più mi dicevo: deve esserci un modo, devo riuscirci. Così, poco tempo dopo, ricominciai. Risultato: eccomi qua.
Quando ricominciai, non sapevo che la prima cosa che uno si sente dire, quando mette piede nel dorato mondo delle Lettere, è una frase destinata a diventargli familiare: “In Italia sono più quelli che scrivono che quelli che leggono”. La frase forse è inelegante, con quei tre “che” uno in fila all’altro. Però ricorre nelle conversazioni tra i famosi addetti ai lavori, siano essi editori o scrittori, o editor o correttori di bozze. Per tacere dei librai. E se per caso hai deciso di leggere questo libro, probabilmente è perché anche tu almeno un romanzo lo hai già scritto, o comunque hai intenzione di scriverlo. Può darsi che tu abbia già letto manuali di scrittura o magari frequentato corsi oppure scuole di scrittura. Bene, il volume che tieni in mano non è un manuale di scrittura. Io ne ho letto soltanto uno, Il mestiere dello scrittore di John Gardner, Marietti, e l’ho trovato utile, ma mai tanto utile quanto prendere un racconto di Hemingway intitolato Colline come elefanti bianchi, che è un racconto assolutamente perfetto, e provare per anni a riscriverlo cambiando ambientazione e/o personaggi, senza riuscirci mai e dunque passando da un fallimento all’altro, decine, centinaia di volte. Non sarei mai capace di scrivere un manuale di scrittura, io. E poi, visto il numero crescente di libri che si pubblicano in Italia, in realtà i manuali di scrittura non servono. Che senso ha procurarsene uno, in un paese dove tutti prima o poi pubblicano almeno un libro, perfino Giuseppe Culicchia? Posso però provare a raccontarti, sempre ammesso che ti interessi saperlo, che cosa ti aspetta una volta pubblicato il primo libro. Che cosa gira intorno al mestiere di scrittore. Può darsi che ti possa tornare utile, il giorno in cui sarai tentato/a di dire, alla tua prima intervista o presentazione in libreria, che l’ispirazione ti arriva direttamente dal Cielo. Perché c’è chi lo dice, e con l’aria di crederci sul serio. […]
Ad ogni modo. Dato che malgrado non mi riuscisse di scrivere storie continuavano a piacermi le storie e dunque i libri, pensai che per mantenermi la cosa migliore sarebbe stata trovare un lavoro che avesse a che fare con le storie e dunque con i libri. Ma non avevo davvero alcun aggancio con il favoloso o forse meglio favoleggiato mondo dell’editoria, e dopo una breve ma felice esperienza in un’improbabile biblioteca latino-americana a Londra mi trovai a fare i conti col fatto che non sarebbe stato semplice trovare un impiego simile in Italia senza una laurea in biblioteconomia o simili. Perciò mi dissi che forse potevo cercare di fare almeno il commesso in una libreria. Tra l’altro, pensai, con un lavoro simile avrei senz’altro trovato il tempo di leggere un mucchio di libri. È un errore che fanno in tanti. Non leggere un mucchio di libri, ma pensare di poterlo fare lavorando in una libreria. Sta di fatto che mi presentai in una libreria di Torino che aveva appena aperto i battenti e che oggi non esiste più, perché nel frattempo è diventata un Apple Store. Dopo un primo colloquio e una settimana di prova, sostenni un secondo colloquio, ma questa volta a Milano, perché la libreria era del Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas. Superato il secondo colloquio mi toccò un secondo periodo di prova, lungo un mese. Infine, studiati a memoria i cataloghi Einaudi e Rizzoli e Mondadori e Sellerio e, venni assunto con uno dei primi contratti di formazione e lavoro. Era il 1989, e avevo ventiquattro anni. Così, quando nel 1990 Pier Vittorio Tondelli pubblicò cinque mie storie in Papergang, l’ultima delle sue antologie Under 25, facevo già il commesso in quella libreria. E facevo ancora il commesso nella stessa libreria quando uscì il mio primo romanzo.»