
Nel Suo libro Lei racconta la storia di Évariste Galois, giovane e brillante matematico morto in un duello, e sostiene che più che un duello, fu un assassinio.
Ho consultato molte fonti, non sono io che lo sostengo. Galois era un ardente repubblicano, e non ne faceva certo mistero. Era già ben noto alla polizia. Parigi pullulava di spie e fu certamente provocato al duello, come si capisce dalle lettere che scrisse al fratello e agli amici. Non parla neppure bene della donna per cui si batte ed è convinto di morire. L’unica libertà narrativa che mi sono preso è quella di aver trasformato un duello alla pistola in uno alla spada, per continuare a raccontare il duello all’arma bianca. Tra l’altro il duello alla pistola era obbligatorio per offese gravissime, e non sembra che fosse questo il caso. Anche il fatto che fu abbandonato ferito sul luogo del duello è assolutamente anomalo e contro le regole cavalleresche. Sì, credo proprio che sia stata un’esecuzione.
Quali altre vittime di duello illustri conosciamo?
Cito solo due vittime del duello: il deputato Felice Cavallotti e il grande scrittore russo Puškin. Cavallotti, leader della sinistra, garibaldino considerato l’erede politico di Mazzini e Garibaldi, sfidò il direttore di un giornale conservatore che a suo dire aveva pubblicato una notizia falsa: pensiamo alle fake news, ci sarebbero più duelli che partite di calcio. L’altro, che come sfidato poteva scegliere l’arma, chiese sciabole affilate. Aveva venti anni meno di Cavallotti, lo trafisse al palato. Ci furono voci che Crispi avesse favorito il duello, ma non sono dimostrate, e che quindi anche questo fosse un assassinio politico. Il duello era solo formalmente proibito dal 1875. La morte di Cavallotti, popolarissimo, fu un elemento importante per l’abolizione vera del duello. L’uccisore si suicidò anni dopo. Carducci e Turati pronunziarono l’orazione funebre.
Quanto a Puškin, era un duellante abituale, aveva lanciato la prima sfida a soli 17 anni e si contano almeno venti duelli, che fanno una media di uno l’anno. Quello fatale ebbe come causa il più classico dei motivi, la supposta infedeltà della moglie. Puškin e altre sei persone avevano ricevuto una lettera in cui lo si definiva “Maestro dell’ordine dei cornuti”. E così Puškin, amatissimo scrittore, morì a soli 37 anni.
L’altra storia da Lei raccontata si svolge nel Giappone del XVII secolo: un’ambientazione apparentemente lontanissima dalla prima.
Ho ambientato una storia di duello in Giappone perché mi ha sempre affascinato il bushido, codice di comportamento del samurai. Il tema del seppuku, suicidio rituale per non perdere l’onore, è molto vivo anche nei tempi moderni, pensiamo al seppuku dello scrittore Mishima, che suscitò enorme impressione nel Giappone. Era il 1975 e la reazione popolare al gesto dello scrittore, acceso nazionalista che aveva occupato il ministero della difesa, era un grido di disperazione per la decadenza morale del Giappone. Il tema dell’onore, dell’obbligo della difficile scelta tra giusto e sbagliato, e quello del rapporto tra maestro e allievo, mi hanno fatto scegliere il Giappone dei samurai, sull’orlo della decadenza.
Quali norme cavalleresche regolano i duelli?
Le regole sono davvero complesse: la bibbia del duello era il Codice cavalleresco del Gelli: la sfida portata dai padrini, la scelta dell’arma che spettava allo sfidante a seconda della gravità dell’offesa, la presenza di un direttore del duello che in sostanza doveva limitare i danni… il cartello di sfida che doveva essere recapitato entro un tempo dato. Le racconto un poco nel duello, storicamente accaduto, di Oreste Puliti, focoso sciabolatore livornese, con un giudice ungherese che lo aveva danneggiato alle olimpiadi del ’24 a Parigi.
Lei pratica da decenni la scherma a livello agonistico: che differenze vi sono tra un duello e una gara di scherma?
La differenza tra una gara di scherma e un duello è che si risorge dopo ogni sconfitta, che la vittoria non è definitiva, è un continuo rimettersi alla prova. Insomma, non si muore, ma l’inconscio non ne è convinto. Un’affinità che rimane sta in alcune regole cavalleresche, o di fair play, se preferite: il saluto (in decadenza purtroppo), all’avversario, ai giudici e al pubblico; la stretta di mano alla fine; accusare talvolta la stoccata, ovvero riconoscere che l’altro ha ragione. Non molto, ma è qualcosa rispetto ad altri sport.
Come nasce il Suo amore per la scherma?
Come molti amori, è nato per caso: non era una tradizione familiare, ho provato per seguire un compagno di classe in prima media. Mi piaceva combattere, anche se all’inizio perdevo quasi sempre. Poi in preda a una giornata di trance agonistica vinsi il campionato toscano dei giovanissimi e rimasi agganciato, schermadipendente. Mi piace la sfida, l’onestà della vittoria e della sconfitta, il gesto tecnico complesso, la lezione col maestro che cerca di migliorarmi anche in età pensionabile, l’amicizia con gli avversari. Ho vinto poco, ma ne è valsa la pena.