
Ma c’è dell’altro. Credo che diversi ascoltatori si sentano attratti dalla musica, ma nel contempo si ritengano ‘tagliati fuori’ dal suo mondo, esclusi a priori dal ristretto novero degli ‘eletti’, degli ascoltatori competenti. Costoro però fanno uso quotidianamente di termini che hanno anche significati musicali specifici (come armonia, contrappunto, concerto, consonanza, e tanti altri…) il più delle volte senza pensarci, e forse talvolta anche senza saperlo. Di questi termini conoscono alcuni significati, li hanno interiorizzati sin dall’infanzia e li usano abitualmente: credo che per costoro scoprire e familiarizzare con ‘l’altra faccia della luna’, con l’insieme dei significati tecnico-musicali, possa svelare che la musica non abita in un sopramondo, in un iperuranio per pochi iniziati, ma si rivolge a tutti ed è patrimonio comune e condiviso.
Il lessico musicale è parte integrante del nostro linguaggio quotidiano: termini come accordo, armonia o tono sono di uso comune, al di là del loro significato originario. A cosa si devono questi prestiti?
A dire il vero non li definirei prestiti. Non è semplice generalizzare, anche perché in molti casi non è facile capire se sia nato prima l’uovo o la gallina, il significato musicale o il senso extra-musicale. Credo però che nel caso di molti di questi termini la domanda cruciale sia: perché la mente umana ha convocato la musica per parlare di armonia delle sfere? E l’armonia musicale per descrivere l’equilibrio psicofisico? Perché parlare di concertazione per descrivere un tentativo di comporre controversie e ridurre a concordia parti avverse? In altre parole: perché la musica, più di altre arti, si è presentata alla mente umana come la miglior metafora dell’armonia, della concordia, del sublime, del divino, e di altri concetti che ci sono tanto cari? Naturalmente molti pensatori si sono posti questo quesito e hanno suggerito diverse risposte. Fra i contemporanei di primo acchito mi viene in mente il teologo Hans Küng, grande amante della musica che si è ripetutamente interrogato sulla sua natura. In tante sue pagine ha descritto la musica come arte relazionale par excellence, come l’arte che meglio di qualunque altra ci lascia percepire alcuni tratti ordinariamente attribuiti al divino. Chiunque abbia ascoltato con un po’ di attenzione un concerto non ha bisogno di grandi spiegazioni per capire che cosa significhi concertare.
Di quali tra i termini musicali più diffusi ignoriamo, a Suo avviso, la ricchezza semantica?
La nostra ignoranza, come si sa, è senza limiti. Un primo passo per superarla, ovviamente, consiste nel sapere di non sapere. Il mio libro, se vogliamo, è un piccolo esperimento, che consiste nell’aver provato a suscitare interesse nei confronti di alcuni termini del lessico musicale presso chi non li usa abitualmente nella loro accezione tecnico-musicale, chiamando in causa anche i loro significati extra-musicali, che noi tutti conosciamo. Come a voler dire: la musica ci appartiene, è parte integrante della nostra cultura, ed è anche parte di ciascuno di noi, in qualche modo ne parliamo ogni giorno, sia pur senza saperlo. Quanto alla ricchezza semantica dei termini, che non finiremo mai di scoprire, forse il termine più ricco di significati è il termine armonia (e il suo corrispettivo tedesco Stimmung che, guarda caso, viene da Stimme, che vuol dire voce), sul quale peraltro sono stati versati fiumi d’inchiostro e certamente altri se ne verseranno.
Quali, invece, sono i più equivocati?
Quali siano i termini musicali più ‘equivocati’, ossia dei quali si ritiene di conoscere il significato, quando invece non lo si conosce, o lo si conosce solo in modo approssimativo, onestamente non lo so. Credo che un non addetto ai lavori abbia idea di che cosa sia una melodia e probabilmente sia in grado di distinguere la dimensione melodica da quella armonica, un motivetto da un accordo, ma forse l’idea diffusa di contrappunto non è molto precisa, se si esce della cerchia degli specialisti. Ma non è questo il punto: non si capisce perché chi non sa cosa siano un’ipallage o un anacoluto sia considerato ignorante, e chi non distingue una composizione monodica (a voce sola) da una polifonica (in cui voci diverse intonano melodie diverse) invece no. Per di più sono convinta che la maggior parte di noi sia perfettamente in grado di distinguere l’una dall’altra, abbia avuto modo di ascoltare sia composizioni monodiche (mettiti a cantare da solo: quella è una monodia), sia composizioni polifoniche (dove almeno due voci cantano insieme due parti diverse): è davvero così difficile imparare a chiamarle con il loro nome?
Qual è l’etimologia di concerto?
Concerto viene da concertare, cioè contrapporsi, combattere, ma forse anche da conserere, cioè legare insieme (un po’ come religione viene da religare, cioè ancora una volta congiungere, stringere, legare: concerto dunque come religione dei suoni). Vi è chi tende a contrapporre questi due significati, o a far prevalere il primo (“combattere”), che rientra anche fra i significati di conserere (mentre non mi risulta che “collegare” rientri fra i significati di concertare). Dunque combattere, o legare? Fare la guerra, o fare l’amore? Io realtà sono convinta che entrambi i significati entrino in gioco: è sufficiente ascoltare un concerto di Bach o di Vivaldi per rendersene conto.
Molte espressioni traggono origine dal linguaggio musicale, come ad es. «tenere bordone» o «la solita solfa»: qual è la loro etimologia?
Tenere bordone significa accompagnare, fiancheggiare, sostenere qualcuno (magari qualcuno che sta tramando qualcosa di losco). E che cosa fa il bordone, in musica? Accompagna e sostiene. In genere è un suono grave e prolungato sul quale si appoggiano gli altri suoni, più acuti e più brevi. Il bordone, per l’appunto, li sostiene. Il termine solfa invece si compone di due sillabe, che sono evidentemente anche il nome di due note: Sol e Fa. Guido (d’Arezzo), attorno all’anno Mille, ha dato un nome a sei note (Ut-Re-Mi-Fa-Sol-La), e cinque di questi nomi sono giunti sino a noi. Ecco perché nel corso dei secoli la lettura delle note, intonata o meno, è stata designata come solmisazione, da cui solmisare, solfare, solfeggiare. Che poi il solfeggio sia sempre stato considerato una pratica noiosa (sebbene io l’abbia sempre trovato divertente), è sotto gli occhi di tutti. Dire “è sempre la solita solfa” non fa che ribadirlo: a questo punto non ci resta che “cambiare musica”.
Marina Toffetti insegna Teorie musicali e Analisi delle forme musicali e delle tecniche compositive presso l’Università di Padova e tiene conferenze e seminari presso diverse istituzioni accademiche italiane ed europee. Ha curato edizioni critiche di musica e pubblicato numerosi saggi musicologici, monografie, voci di enciclopedie e dizionari musicali.