“Dove finisce il mondo. La geografia terrestre secondo i Greci e i Romani” di James S. Romm

Dove finisce il mondo. La geografia terrestre secondo i Greci e i Romani, James S. RommDove finisce il mondo. La geografia terrestre secondo i Greci e i Romani
di James S. Romm
Editoriale Jouvence

«Oggi, ben pochi intellettuali, filosofi o uomini di stato riterrebbero indispensabile alla loro formazione e maturazione un trattato di geografia. Eppure, ciò è esattamente quello che Cicerone si sentì raccomandare da Tito Pomponio Attico, suo precettore ed amico, durante una loro breve permanenza nella villa di campagna del filosofo, ad Anzio. Come si legge in una lettera indirizzata ad Attico e datata aprile del 59 a.C., Cicerone si accostò all’impegno con una certa apprensione (2.4.3.). Di lì a qualche giorno, avrebbe scritto ad Attico, rammaricandosi che la geografia era materia troppo impegnativa da trattare e in grado di offrire poche opportunità al lavoro di abbellimento letterario; e informandolo di aver perciò rinunciato al compito (2.6.1). Nello stato di prostrazione in cui si sentiva in quel momento, ogni genere di scritto gli appariva faticoso. Comunque, Attico deve aver continuato a sollecitare il progetto anche in seguito, poiché Cicerone, in una successiva lettera (2.7.1.), a malincuore gli concede che «continueremo a darci pensiero della geografia».

Null’altro si sa dei programmi di Cicerone intorno alla Geografia, né è sopravvissuto alcunché di questo lavoro. Ma il suo scambio epistolare con Attico dà comunque un’idea dell’importanza conferita nell’antichità dai letterati a questa occupazione. In particolare da parte di quelli che, come Attico, mostravano una chiara inclinazione per le sponde elleniche del Mediterraneo. Per gli antichi Greci, e in misura minore per i Romani, la geōgraphia rappresentò più un genere letterario che una branca delle scienze fisiche. In contatto con la tradizione culturale e non relegata al ruolo specialistico che oggi le viene assegnato, la geografia faceva sentire il suo impatto sugli altri generi letterari, incarnando una tradizione che uno studioso di litterae bumaniores come Cicerone, pur lamentandone l’aridità e la scarsa predisposizione alla ricercatezza stilistica, si sentiva obbligato a coltivare.

Certo, di questa attitudine a vedere nella geografia una branca della letteratura popolare non si deve fare una regola invariabile. Senza dubbio, già all’epoca, alcuni geografi scrivevano solo per un pubblico altamente specializzato, e i loro nomi raramente li troviamo menzionati da scrittori che non siano essi stessi dei geografi. Per di più, va ricordato che la differenza di conoscenze che a quel tempo separava questi specialisti dalla massa del pubblico era assai maggiore dell’attuale. Ad esempio, un passo delle Nuvole di Aristofane (vv. 206-17) presenta un cittadino ateniese alle prese con una mappa geografica in cui non riesce a raccapezzarsi. Ma qui il carattere in questione è quello di un ignorante, nella commedia ritratto in modo volutamente caricaturale, e perciò tale ingenuità cartografica non deve essere intesa in modo realistico. Maggiori evidenze vengono dal mondo romano, dove, significativamente, sia Virgilio che Tacito erano convinti che la terra fosse piatta. Una convinzione che neanche Plinio il Vecchio riuscì ad accettare senza riserve. Nondimeno, ciò che va sottolineato in entrambi gli autori non sono tanto gli errori commessi riguardo alla forma del globo, quanto il fatto che tendevano a riproporne ovunque l’immagine, anche laddove non strettamente richiesto. In modo indiretto, essi attestano lo status letterario posseduto nell’antichità dalle cognizioni geografiche e il modo in cui queste dovevano venir recepite dai lettori non specializzati.

Se la geografia antica può essere giudicata un genere letterario, allora dovrà anche essere considerata un genere narrativo piuttosto che meramente descrittivo. Essa poteva contare sui racconti come una ricca fonte di informazione. Infatti, ciò che si sapeva riguardo a terre lontane non poteva che derivare da diari di viaggio. E le informazioni che ne scaturivano, grazie a questi resoconti, si conservavano più a lungo di quanto oggi si possa pensare. Solo nel II secolo d.C., con la geografia tolemaica, i documenti geografici presero quell’aspetto di dati oggettivi che caratterizza il nostro approccio alle scienze. Prima di allora, geografi come Ecateo, Erodoto, Strabone, si servivano principalmente di narrazioni. Per separare i fatti dalla finzione, setacciavano i vari repertori di racconti di viaggio per trattenere poi quelli che giudicavano abbastanza credibili da meritare l’attenzione del lettore. Cosa più importante, spesso venivano riportati anche racconti giudicati incredibili. Ciò dà prova del fatto che in molti periodi dell’antichità non s’è fatta chiara distinzione tra scienza geografica e arte narrativa.

Sfortunatamente, queste intersezioni tra geografia e narrativa sono divenute quasi invisibili agli studiosi di materie classiche dei nostri giorni. I lettori di Erodoto, ad esempio, sono di norma portati a sorvolare sulle “digressioni” geografiche presenti nella storia delle guerre persiane. Il raffinato vocabolario composto da nomi di terre, venti, fiumi, genti, usato per suscitare meraviglia da scrittori quali Seneca o Orazio, è caduto in un disuso anche maggiore della stessa lingua con cui essi scrivevano: il latino. Nell’attuale ricezione degli studi classici, lo stato di discredito in cui versano i temi geografici si può tra l’altro misurare dalla scarsità di traduzioni e testi di rilievo pubblicati sull’argomento. Di poemi come Astronomica di M. Manlio, Periegesi della terra di Dionigi, I fenomeni di Arato di Soli, letti e largamente imitati nel mondo antico, ai nostri giorni si trovano solo rare pubblicazioni nella lingua originale e, sporadicamente, traduzioni inglesi. Nell’’ordine degli studi classici, come correntemente viene concepito, tali testi sembrano appannaggio più degli storici della scienza che dei critici letterari, e solo di rado gli viene consentito di invadere il campo letterario e distrarre gli studiosi dall’attenzione verso i lavori canonici.

Benché gli studi attuali offrano una nicchia davvero limitata a ciò che possiamo definire ‘letteratura geografica’, un ampio risarcimento può comunque sempre venire dal rivolgere lo sguardo alle opere del XV e XVI secolo. L’epoca nella quale la classicità greca e romana fu al primo posto degli studi e delle pubblicazioni editoriali fu, non a caso, anche l’epoca dell’esplorazione del Nuovo mondo e il crocevia di due movimenti che finirono col contaminarsi. Da un lato, quei trattati geografici scritti ad imitazione dei dialoghi di Plutarco e illustrati da mappe che raffiguravano grandi estensioni terracquee in forma di figure mitologiche e da un atlante che portava il significativo titolo Theatrum Orbis, “Teatro del mondo”. D’altro lato, gli innumerevoli lavori di finzione che si presentavano come immaginari diari di esplorazione, e spesso includevano l’Utopia di Tommaso Moro o il Quarto libro di Rabelais. La “geografia umanistica” che fiorì in quel periodo ha la forza di catturare perfino i lettori di un’epoca come la nostra, nella quale geografia e umanesimo hanno sempre meno in comune. Infatti, sono state proprio l’attrazione provata nei confronti di tali bizzarri ibridi tra mito e scienza, e la convinzione che la loro origine non si trovasse nel Rinascimento bensì già in una particolare branca della letteratura del mondo classico, a spingermi ad intraprendere gli studi che hanno portato alla creazione di questo libro.»

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