
Ma come arriva a toccare e affascinare questa nostra coscienza moderna? Come mai lo sentiamo ancora oggi un artista potente? Io penso che Dostoevskij ci coinvolga perché la sua scrittura lavora in noi a più livelli: quello razionale, certo, che fa emergere molti temi forti che appassionano i filosofi (la Bellezza, il Male, il Dolore innocente, la Giustizia, il Potere), ma quella sua parola reticente nasconde archetipi e immagini ancestrali che agiscono su di noi in modo non chiaro, che si muovono nella sfera di quello che Freud chiamava il “perturbante”. Noi abbiamo bisogno di affrontare in qualche modo ciò che ci turba e il lato oscuro della vita: non andiamo a uccidere le vecchie come Raskol’nikov di Delitto e castigo, non ammazziamo i nostri padri, non ci suicidiamo, però sentiamo l’esigenza di esperire quel male che San Paolo diceva sentirsi “nelle sue membra”.
È quello che faceva la tragedia greca. Remo Bodei lo dice bene nel suo libro Le forme del bello: il tragico “mette in contatto gli uomini con nuclei di esperienza traumatici che necessitano infinita elaborazione”. Esso ci mette a contatto con esperienze “eccedenti” che come individui fatichiamo a decifrare completamente, affronta traumi, pur con un margine di sicurezza. Re-immersione non rischiosa e non distruttiva nel perturbante, appunto. Non si tratta di un vaccino per abituarsi, ma di un percorso per elaborarlo senza sopprimerlo. Si è attratti da ciò che turba, perché lo si vuole conoscere e far proprio. In questo senso l’emozione estetica è anche connessa all’esperienza di disincagliarsi dal quotidiano tran tran che un po’ ottunde la nostra sensibilità.
Non è un caso che ormai è tradizione della critica parlare dei romanzi di Dostoevskij come romanzi-tragedia. E I fratelli Karamazov sono il coronamento di questo metodo dostoevskijano, dove lo scrittore saggia l’umanità temprandola anche al fuoco della violenza e a ogni suo tipo di giustificazione.
I suoi personaggi sono una combinazione di emozioni e idee, fonte di molti conflitti tragici. Ma la matrice profonda dell’umano può essere sfiorata da una nostra facoltà spesso negletta, l’immaginazione, che lavora sotterranea creando narrazioni, che io vedo come versioni moderne dei miti. Gli archetipi sono forze dinamiche, che diventano forme attive nelle fantasie, nei sogni, e nei comportamenti istintivi. Esse rivelano la loro presenza attraverso immagini simboliche.
Questi modelli archetipici sono una sorta di impronta dell’umano che ha caratterizzato per secoli la nostra risposta alla realtà, si tratta di forme primordiali nella psiche che strutturano, informano il comportamento dell’uomo e la sua percezione della realtà. Con la modernità, l’archetipo si ritrae nell’interiorità, nella dimensione soggettiva, nell’arte.
In letteratura, soprattutto nel Novecento, se ne è fatto largo uso anche a livello teorico, come, per esempio, nella teoria degli archetipi di Northrop Frye, per il quale l’archetipo è un’immagine ricorrente, tanto da essere riconosciuta come un elemento fondamentale dell’esperienza globale della realtà di un autore. Frye indaga simboli archetipici e modelli narrativi legati al mito. Il critico canadese è guidato primariamente da un interesse narratologico, egli ricerca le strutture narrative; gli archetipi dostoevskijani, invece, non sono soltanto strutture narrative che intervengono nelle opere come immagini, metafore, simboli, che si interfacciano in un certo modo prefissato e convenzionale: essi sono aspetti della personalità, dell’io che porta in sé tutto il suo fardello di verità (Dio, nazione, tradizione, io…), radicata in una profondità ancestrale.
Mi preme qui tuttavia sottolineare che non ho intenzione di parlare delle dinamiche psicologiche dello scrittore Dostoevskij. Considero il termine “archetipo” come un potente generatore di immagini poetiche, e, dunque, di forme letterarie. Il rito e il mito costituiscono dunque un’interpretazione metaforica della realtà, si cristallizzano e tramandano attraverso la metafora, che custodisce le tracce di questi significati arcaici quasi dimenticati, in un processo di manifestazione e, insieme: “le cosiddette forme letterarie hanno alle spalle un lungo percorso prima della letteratura”, scriveva una grande studiosa russa, Ol’ga Frejdenberg, che, tra l’altro era cugina e sodale di Boris Pasternak.
Gli archetipi parlano con la lingua dei miti e attraverso di essi le grandi narrazioni moderne conservano un legame forte con il pensiero originario dell’umanità.
A me pare che, da un lato nella modernità ci sia stata una sorta di incontrovertibile svolta dal religioso al retorico, ma dall’altra l’elemento religioso-sacro persiste sotto la retorica e continua a vivere custodito, in modo indiretto e nascosto, dalle immagini artistiche. E Dostoevskij ne è un esempio.
In quale contesto nasce l’opera?
I fratelli Karamazov sono l’ultimo libro di Dostoevskij che morirà un mese dopo la pubblicazione della sua ultima puntata sulla rivista “Russkij Vestnik”, nel dicembre 1880. Ed era speciale per lo scrittore che vi fa rifluire una miriade di progetti ed abbozzi che aveva maturato negli anni precedenti e non aveva avuto tempo e occasione di sviluppare: un romanzo sui bambini, la “Vita di un grande peccatore”, un’opera sulla morte e sulla risurrezione e tanto altro. Il tutto poi è legato insieme da una grande attenzione per l’attualità: il momento in cui Dostoevskij scrive (la fine anni Settanta) viene visto alla luce di un periodo cruciale della storia russa, gli anni Sessanta dell’Ottocento, quando con una serie di riforme, il regime zarista fa uno sforzo notevole di modernizzazione, ma non riuscendo a perfezionarlo, finisce per acuire tutte le tensioni e dare la parola ai vari estremismi, da una parte all’altra. Quindi Dostoevskij ambienta il suo romanzo negli anni Sessanta per comprendere meglio il suo tempo (che avrebbe poi dovuto costituire l’ambientazione del seguito del libro che aveva già previsto).
C’è inoltre da dire che il romanzo arriva in un momento felice per lo scrittore, sia per la sua ristabilita situazione personale ed economica, dopo una vita avventurosa e tormentata, sia per il ruolo di grande scrittore (cruciale in Russia, non limitato alle belle lettere!), fin di voce profetica sulla Russia, che gli era stato finalmente riconosciuto.
Dal punto di vista letterario, il romanzo dostoevskijano arriva quando la grande forma romanzesca realistica europea, giunta al suo apogeo, comincia incrinarsi. Dostoevskij la assorbe, si appropria di forme e strategie (è un lettore accanito della letteratura mondiale fin dall’infanzia), ma poi ne fa quello che vuole, la squarcia, probabilmente perché tenta di dilatarla il più possibile. Il grande studioso del realismo Auerbach sostiene che Dostoevskij non appartiene al realismo moderno, ma alla sensibilità anticocristiana. Al tempo stesso, invece, potremmo dire che questo suo ritrarsi dal realismo sia un incamminarsi per la via di una antimimesi modernista.
Come si struttura il romanzo?
È proprio una struttura perfetta. Dostoevskij non aveva mai padroneggiato la materia narrativa così sicuramente, soprattutto in una forma grande (i racconti sono un’altra cosa). Dostoevskij è sempre stato molto sensibile alla caratterizzazione di genere delle sue opere e quasi sempre le definisce con sottotitoli che ne specificano proprio il genere o il sottogenere.
Nel caso dei Fratelli Karamazov, la questione è posta subito nel sottotitolo: Romanzo in quattro parti con epilogo. Il romanzo, infatti, si presenta con una struttura compatta e una scansione regolare dalla numerologia simbolica: quattro parti (come i Vangeli, ampiamente citati o sottintesi nel romanzo), ognuna formata da tre libri, simmetricamente incorniciati da una premessa «da parte dell’autore» e da un epilogo, suddiviso a sua volta in tre paragrafi.
I dodici libri presentano ognuno una certa indipendenza. Tuttavia, essi sono uniti non solo dalla trama che corre veloce verso la “catastrofe”, ma soprattutto da una rete densissima e solida di simboli, situazioni ricorrenti, motivi che si svolgono in infinite variazioni: per esempio, quello dell’evangelico seme di grano che se non muore non dà frutto e che ritroviamo nella parabola del seminatore che rimane un sottotesto importante e determinare l’atteggiamento dei fratelli o nel ricorrere del fiorire e germinare nei discorsi di Zosima o nel giardino del monastero. Abbiamo, infatti, scelto di mettere una spiga di grano con i suoi chicchi sulla copertina del nostro libro.
Quali sono i temi portanti dell’opera dostoevskijana?
È un’opera così complessa che è difficile, e forse un po’ presuntuoso, ridurla a una serie di tematiche. Dostoevskij è uno scrittore, pensa soprattutto per storie, narrazioni, e meno per idee o per temi. A complicare tutto, c’è il fatto che lui tende a non parlare in modo diretto di quello che gli importa di più. Usa diversi stratagemmi per velare ciò che gli sta cuore: una sorta di pudore elevato a metodo narrativo. Il comico, ad esempio, serve per questo soprattutto, è una maschera che nasconde. E Dostoevskij sa essere anche davvero esilarante.
Comunque, come bussola (è poi il nome della collana di Carocci in cui esce il libro), ho provato a delineare dei temi, che però mi piacerebbe non siano visti come idee su questioni importanti: ho usato nel libro la metafora di “campi di forza”, ognuno di loro è una sorta di sistema che congloba in sé elementi che si attraggono e respingono a vicenda.
Ne ho evidenziati quattro: quattro colonne su cui poggia la struttura, che riecheggiano ognuna la questione della fede in Dio, vissuta e considerata come il fondo, opaco e ben poco intellegibile, della definizione dell’umano: il miracolo, l’immortalità, l’etica e il male con lo scandalo del dolore innocente. Ma chissà quante altre letture sono possibili. Questo è solo un inizio e ogni lettore di questa magnifica opera-mondo saprà trovare la sua strada.
Maria Candida Ghidini è Professore associato di Letteratura russa all’Università degli Studi di Parma. Di Dostoevskij ha tradotto L’idiota (Frassinelli, 1999) e su di lui ha pubblicato la monografia Dostoevskij (Salerno Editrice, 2017)