
In altre parole, la costruzione di genere, sugli schermi, si prospetta come l’incarnazione degli impulsi modernizzatori del regime che, tesa a proporre ad un pubblico essenzialmente di ceto medio soprattutto l’immagine di un’Italia borghese, consumista e spensierata. Quasi nessuno ormai ha memoria dei film degli anni Trenta, ma forse qualcuno ricorda ancora Gli uomini che mascalzoni, uno dei più famosi e riusciti esempi della filmografia di Camerini.
La propaganda, nelle sale cinematografiche è delegata ai cinegiornali Luce. I film sono un’altra cosa: gli italiani, pazzi per Hollywood, vogliono divertirsi al cinema e disertano le pellicole più “politicamente impegnate”. Il totale flop di Scipione l’africano, il primo colossal di Cinecittà, celebrativo dei fasti dell’antica Roma, lo sta a dimostrare con chiarezza.
Con l’avvicinarsi della fine del decennio e l’introduzione della legge sul monopolio il panorama si fa più articolato. Guadagnano terreno nuove figure di donna sugli schermi. Prima fra tutte la grande Alda Valli. Icona dell’italiana ideale è… insomma se lo volete scoprire leggete il libro! Per adesso mi limito ad anticiparvi che si tratta di un personaggio antitetico rispetto a quello che sarà chiamata a incarnare Anna Magnani, la “regina” del neorealismo del dopoguerra.
Qual era la proiezione cinematografica del femminile nel secondo dopoguerra?
Non meno incongruente con l’immagine di maniera della costruzione di genere prospettata dal fascismo risulta la rappresentazione sugli schermi di donne finalmente assurte al ruolo di “cittadine” nell’Italia repubblicana. L’accesso al diritto di voto corrisponde infatti sugli schermi alla riproposizione di un’immagine femminile del tutto tradizionale, il ci tratto fondamentale appare proprio l’estraneità al linguaggio della politica. Pensiamo al famoso film di Luigi Zampa, L’onorevole Angelina (1947): uno degli esempi più riusciti della trasposizione visiva del “non detto” nelle dichiarazioni ufficiali dei partiti riguardo alla gamma a dir poco circoscritta delle competenze attribuite al femminile nell’ambito della sfera pubblica. Le donne possono lottare come leonesse per l’acqua, per la casa o per avere una fermata dell’autobus, ma quando si tratta di affrontare questioni più complesse meglio lasciar campo libero agli uomini.
Ma già Roma citta aperta (1945) di Roberto Rossellini, film simbolo della rinascita della cinematografia nazionale e momento di avvio della sua stagione più fulgida, ci offre una chiave di lettura significativa delle rappresentazioni di genere dell’immediato dopoguerra. Vi troviamo evidentemente proposta un’immagine di donna che da un certo punto di vista appare nuova: una donna reale, una donna del popolo e non più la borghese o la segretaria, la telefonista o la commessa inguaribilmente positiva e ottimista del realismo rosa degli anni Trenta. Ciò non toglie che l’indimenticabile sora Pina/Anna Magnani finisca col rappresentare l’incarnazione più commovente ma anche più conformista dei requisiti della femminilità “scientificamente” codificati dal positivismo. Così, paradossalmente, nel film di Rossellini, come ha osservato Valeria Festinese, l’unica incarnazione positiva del femminile è rappresentata dal modello della «sposa e madre» tutta istinto e sentimento, la cui sfera di azione appare circoscritta all’interno di una dimensione prettamente privata e familiare, spingendosi tutt’al più a partecipare a un assalto ai forni, secondo i dettami delle mansioni “ausiliarie” riservate alle donne dalle brigate partigiane. In un’epopea resistenziale tutta incentrata sulla riabilitazione di un virilismo nazionale messo a dura prova dagli esiti della guerra, le donne, nel migliore dei casi, risultano giocare insomma un ruolo del tutto marginale e prepolitico.
I corpi femminili sullo schermo, sempre più “generosi”, sembrano piuttosto chiamati a rappresentare il simbolo di un’identità nazionale capace di assommare su di sé elementi di prosperità e di rassicurazione, di fertilità, di bellezza e allo stesso tempo di “innocenza”, di estraneità al passato regime. La sedimentazione di una percezione del femminile incolpevole, non a caso, ha sempre svolto un ruolo di “purificazione” dagli orrori dei fascismi, di alibi nella coscienza collettiva del Novecento. Tutti elementi che contribuiscono indubbiamente a rafforzare il binomio donna-natura, roussoianamente incontaminata dalla storia, in film che non a caso prediligono un’ambientazione rurale.
Mentre il fascismo sembrava insomma propenso a delegare in diversi casi alle immagini femminili presentate sullo schermo la funzione di incarnare i tratti dell’«italiana nuova», il cinema dell’immediato dopoguerra pare riflettere la fase di un “ritorno alla normalità” caratterizzato dall’inaugurazione di quella che è stata definita «la stagione d’oro delle famiglie». Nel contesto di una generalizzata esaltazione dei valori familiari e di un ulteriore irrigidimento dei precetti della morale cattolica, i ruoli di genere tornano così ad allinearsi all’interno dei binari consueti degli attributi del maschile e del femminile all’interno della coppia. Qualcosa di molto simile del resto sarebbe avvenuto anche nella produzione hollywoodiana, laddove sarebbero gradualmente scomparse sia le working women degli anni Trenta che le eroiche patriote del periodo della guerra, nella duplice incarnazione della Rosie the riveter (Joseph Santley 1944) o di Mrs. Miniver (William Wyler 1942).
Quali immagini del femminile compaiono nel cinema italiano dal miracolo alla crisi?
Già dalla seconda metà degli anni Cinquanta le cose cambiano. Il lento ma progressivo tramonto dell’era della maggiorata a vantaggio di una fisicità quasi eterea sembra riflettere la coscienza di uno scarto generazionale in atto, ma anche del profilarsi all’orizzonte di un’altra Italia, intenzionata a intraprendere il cammino verso il benessere. Non è un caso che la classe gardée del cinema registri un evidente slittamento dal proletariato alla borghesia. Adolescenti e benestanti sono dunque le interpreti di Guendalina (Alberto Lattuada, 1957) o di Ragazze d’oggi (Luigi Zampa, 1955) e Jaqueline Sassard sembra proprio il tipo ideale per incarnare il new look della ragazza disinvolta e dinamica dei secondi anni Cinquanta, benché non manchino di riproporsi occasionali richiami al ruolo maschile come quello di colui che regge la barra del percorso verso la “modernizzazione”. Ma la figura del saggio consigliere rappresenta solo una delle molteplici incarnazioni del maschile nel cinema del periodo. Giovani scapestrati, spesso nullafacenti negli anni Cinquanta, meschini arrampicatori sociali, codardi, opportunisti e maschilisti nel decennio successivo: gli italiani sullo schermo non assomigliano più gran che agli eroi della Resistenza. Come osserva Francesca Tacchi, d’altra parte, resta pur sempre delegato a loro il ruolo dei protagonisti della seconda stagione d’oro del cinema nazionale: la commedia all’italiana. Chi non ricorda ad esempio gli spaventosi, esilaranti Mostri di Dino Risi (1963), e primo fra tutti l’“educatore sentimentale” Ugo Tognazzi, impareggiabile maestro di malcostume?
Arriviamo così agli anni del boom e del faticoso avvio della stagione del centro-sinistra. Ci si sarebbe potuti aspettare un certo qual compiacimento del fatto che l’Italia si apprestasse a colmare il gap che la separava dalle nazioni europee più progredite, che celebrasse sulla scia delle pellicole hollywoodiane i seppur modesti fasti di una società industriale avanzata. Ma gli schermi non ci propongono niente di tutto questo. Mentre la Democrazia Cristiana si affannava a esaltare i progressi del paese, la rappresentazione della realtà sociale sugli schermi restava di inesorabile condanna, benché edulcorata dagli accenti accattivanti dell’ironia. Nessuna felice mogliettina dalla seppur lontana somiglianza con Doris Day fa la sua comparsa nelle nostre commedie, nessun Cary Grant o James Stuart e tanto meno un Sean Connery; improponibile la celebrazione delle tentazioni consumistiche della società opulenta e la disinvolta corsa al lusso di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany.
Del miracolo economico il cinema italiano tende insomma a evidenziare l’improvvisa dissoluzione dei valori tradizionali, in primo luogo della famiglia. Tant’è che ad essere presentato come uno specchio della “normalità” appare l’adulterio, assai più che il matrimonio. E, bene o male, spetta di regola a donne sedotte dal mito della ricchezza il ruolo di instradare l’uomo sulla via della corruzione in film che – come sostiene Aristarco – contribuiscono ad «alimentare il luogo comune, il pregiudizio sulla donna intesa sempre e comunque come qualcosa di inferiore». Tutt’al più le si può concedere la variante di un «gallismo alla rovescia». Così le ragazze disinibite degli anni Cinquanta si trasformano, sulle orme di Catherine Spaak ne La voglia matta (Luciano Salce, 1962), in tentatrici (più o meno morigerate) lolite, le mogli in annoiate nullafacenti alla ricerca di avventure, mentre nei casi, più unici che rari, nei quali è la donna a detenere il potere economico nella coppia, come ne Il vedovo (1959) sempre di Dino Risi, il personaggio finisce col perdere inevitabilmente gli attributi della femminilità.
Sottile o procace che sia, insomma, la donna nel cinema commerciale viene riconosciuta come tale solo se si presenta come oggetto del desiderio maschile.
Come si manifestava il divismo femminile nel cinema italiano degli anni Settanta?
Non meno interessante è osservare come la rivoluzione culturale del post-Sessantotto si prospetti sugli schermi. Ciò che colpisce ancora una volta è d’altra parte la risposta difficilmente prevedibile che il cinema popolare è destinato ad offrire al profilarsi della stagione del neo-femminismo. Gli anni Settanta, oltre al varo di una serie di leggi di portata epocale dal punto di vista del rinnovamento dei costumi, a partire da quella sul divorzio per arrivare alla depenalizzazione dell’aborto, vedranno infatti il trionfo del cinema erotico: come se la liberalizzazione dei costumi desse finalmente il via libera alla proliferazione di pellicole pruriginose destinate a soddisfare le morbose curiosità sessuali di un pubblico cui finalmente si offrono nudi di donna. E non può non venire la tentazione di interpretare il fenomeno come una sorta di reazione (maschile) alle paure, più o meno consce, che la prospettiva di una “liberazione” femminile suscita negli uomini. Una nuova indipendenza cui si reagisce sugli schermi, ora con l’esasperazione della rappresentazione della donna oggetto, pura e semplice sessualità – di cui Edwige Fenech sembra l’icona -, ora con gli esiti apocalittici della “distruzione del maschio” prospettati da Ferreri.
Liquidare d’altra parte sotto la semplice etichetta di “cinema spazzatura” il nutritissimo filone erotico degli anni Settanta (per quanto la tentazione sia forte) appare tutto sommato riduttivo, ricorda Stephen Gundle. In anni in cui la privacy delle dive continua a essere oggetto di gossip e incarnazione di modelli comportamentali che si trasformano in veri e propri esempi di vita, gli atteggiamenti a volte spregiudicati esibiti dalle star del momento possono assumere un significato non meno pregnante dell’immagine femminile che sono chiamate a rappresentare sullo schermo. E da questo punto di vista, la sfera privata come le scelte professionali di attrici come Ornella Muti o Mariangela Melato mostrano un grado significativo di agency e di sfida a quelle convenzioni sociali di cui i film di cassetta sembrano intenzionati a fare da amplificatori.
Sta di fatto comunque che una declinazione meno banalizzante del riflesso nel cinema della fase conflittuale che gli anni Settanta rappresentano nella storia del costume e della mentalità nel nostro paese reta appannaggio esclusivo del cinema d’autore – non sempre d’altra parte disdegnato dal pubblico – in anni in cui la distanza che lo separa dalla produzione prettamente commerciale appare talvolta davvero abissale.
Come ha affrontato il cinema italiano il tema del femminismo?
In linea di massima, più che una messa in scena della “ribellione femminile” è sempre la crisi della famiglia e del rapporto di coppia in sé a rappresentare nei film degli anni Settanta il filo conduttore di quello che potremmo definire il cinema della contestazione. Inaugurato, con largo anticipo, da I pugni in tasca (1965) di Bellocchio e da Prima della rivoluzione (1964) di Bertolucci, il filone “impegnato” di quegli anni sembra così affondare crudelmente la lama all’interno delle ferite aperte di un’istituzione familiare che per la prima volta nella storia del cinema mostra il suo lato oscuro. Crisi del rapporto a due dunque e crisi esistenziale: è questo il letimotiv delle trame del cinema d’autore dei primi anni Settanta, che trova ne Il conformista di Bertolucci (vincitore del Festival di Berlino del 1970 e del David di Donatello nel 1971) una rappresentazione forse ancor più cruda, senz’altro più crudele, di quella offerta in chiave più “psicanalitica” da Antonioni.
Una crisi epocale dunque, legata al procedere di una “modernizzazione senza modernità”, di cui gli uomini sembrano i primi a fare le spese, quantomeno nella rappresentazione che ne dà Ferreri. Vera e propria icona di una profonda crisi della mascolinità, il cinema del regista milanese, analizzato nel volume in profondità, finisce col prospettarsi come la paradossale messa in scena di un contesto in cui le donne sembrano viaggiare su un altro pianeta. Ed è Fellini, nella sua Città delle donne, a riproporre la sensazione di stupore, di profondo spaesamento, di fronte a un femminile enigmatico, oscuro, che per la prima volta sembra sfidare la “prevedibilità”.
Del resto, mentre a fine anni Settanta lo Snaporaz di Fellini dormiva sognando i suoi fantasmi, le donne, quelle vere, avevano fatto irruzione nel cinema. Al di là dei nomi più noti di Lina Wertmüller e Liliana Cavani, che segnano l’accesso alla regia (in realtà giù negli anni Sessanta) in grande stile delle donne, anche i collettivi femministi avrebbero infatti deciso di impadronirsi dei media per ampliare i confini della ricezione di un messaggio profondamente eversivo. Già all’inizio del decennio un vero e proprio grido di protesta appare così quello lanciato da L’aggettivo donna (1971) e dal Manifesto che accompagnava il film.
I mezzi di comunicazione audiovisivi, per la loro larga diffusione, sono il più potente strumento usato dal potere allo scopo di influenzare il comportamento, i desideri, le scelte, il modo di pensare degli individui secondo canoni stabiliti dalle società in cui regnano le condizioni moderne di produzione e il fallocratismo, per la loro conservazione. La gamma di stereotipi femminili proposti è sempre stata funzionale alle esigenze economiche e sociali di ogni particolare momento storico. Questo diventa ancora più evidente nella nostra epoca in cui i mass media ci rappresentano in una unidimensionalità e parcellizzazione aberranti.
Parole senza dubbio incisive, veritiere nella sostanza, forse troppo provocatorie però per lasciare un segno duraturo, sia nella mentalità collettiva che nella storia del cinema.