
Quale funzione svolge l’adunata di poeti e musici da parte di Dante, nel suo capolavoro?
Dante davvero non perde occasione di circondarsi di scrittori e musicisti. Senz’altro è perché desidera condividere le proprie idee sulla letteratura, o per mettere i punti sulle i, e a volte per togliersi qualche sassolino. Il caso più manifesto di tale necessità di vicinanza è quello di Virgilio che gli resterà accanto per buona parte del viaggio. L’autore dell’Eneide viene prescelto, sì, perché è un romano, e perciò simbolo della ragione, ma se questa fosse la sola motivazione, Dante avrebbe potuto farsi accompagnare da qualcun altro: Cicerone, Seneca, lo stesso Augusto; ciò che è determinante è il fatto che Virgilio è poeta e, segnatamente, uno congeniale su più livelli: quello narrativo per la ripresa della discesa nell’Ade di Enea, politico, per l’esaltazione dell’impero, e quello stilistico («lo bello stilo che m’ ha fatto onore»: Inf. I 87). Qualcosa di molto simile vale in Purgatorio per Stazio. Ci sono poi gli incontri con i poeti del passato (Omero, Orazio, Ovidio e Lucano) nel IV dell’Inferno, ma è nel Purgatorio, il regno che De Sanctis nella Storia mirabilmente definisce come «un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all’arte, alla natura, quasi tempio domestico» che Dante riunisce una serie di autori e amici per conversare di letteratura e definirne alcuni aspetti. Nel II ritrova Casella che aveva messo in musica Amor che ne la mente mi ragiona e ora si mette a cantarla, circondato da «Lo mio maestro e io e quella gente» (Purg. II 115), e tutti ne restano, letteralmente, incantati. Oltre a essere, anche questa, una nuova circostanza utile a reclamizzare la propria opera, la scena rimane alla memoria per il realismo: infatti sembra di avere davanti un gruppo di “normalissimi” ragazzi in una qualsiasi spiaggia a far festa; il messaggio tuttavia è molto serio, perché qui Dante rimarca che uno degli uffici della letteratura è quello di consolare, di essere il farmaco che, almeno per un momento, fa dimenticare le preoccupazioni. Così, in quella compagnia gli astanti appaiono «[…] sì contenti, / come a nessun toccasse altro la mente» (Purg. II 116-117). Nel VI c’è Sordello da Goito, mantovano come Virgilio. I due si abbracceranno testimoniando come la letteratura, per alcuni, sia l’autentica patria. C’è infine la teoria dei canti XXIII-XXVI in cui il protagonista avrà modo di conversare con l’amico Forese, rimediando alle ingiurie che per gioco si erano scambiati in gioventù attraverso delle rime a volte molto spassose (a questo tema è dedicato il primo capitolo del libro che, tra l’altro, prova a rammentare come Dante non sia soltanto il giudice severo della Commedia o l’uomo imbronciato che la statuaria ottocentesca ha confermato nelle piazze). Con Guinizzelli proverà a definire il Dolce stil novo e a stabile gerarchie e genealogie tra i lirici, nominandolo padre e primo tra i contemporanei: «E io a lui: “Li dolci detti vostri, / che, quanto durerà l’uso moderno, / faranno cari ancora i loro incostri”.» (Purg. XXVI 112-114). Accanto a questi episodi, diciamo evidenti, vanno ricordati quelli in cui si ragiona sulla poesia in modo indiretto, dalla prospettiva del lettore, anzi: lettrice, dato che mi riferisco a Francesca che cita e imita la letteratura, divenendo così una Bovary prima di Emma Bovary; e da non dimenticare è il X, sempre dell’Inferno, in cui aleggia, in modo affatto inquietante, l’ombra di Cavalcanti, il «primo amico». Insomma, si può affermare con sicurezza che tra i diversi temi trattati, in questa monumentale summa di argomenti, quello della letteratura è tra quelli fondamentali e più cari: a Dante, e a me, se mi è concesso dirlo.
Quale significato assume l’incontro con la «bella scola» nel IV canto dell’Inferno?
Come accennavo nella risposta precedente, in Inferno IV il pellegrino viene a trovarsi a tu per tu con Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, e durante l’incontro Dante si pone «sesto tra cotanto senno» (Inf. IV 102). Si rivela come un’elegantissima autopromozione, visto che Dante, che ancora non è il celebrato l’autore delle Commedia, rimane come primo e unico poeta in volgare; ma, probabilmente, ancora più degno di nota è un altro verso: «Così andammo infino a la lumera, / parlando cose che ’l tacere è bello» (ibid. 103-104). È questa una scena di grave dignità, in cui si scorge Dante, ormai iniziato in quell’élite, allontanarsi con gli altri scrittori per intavolare una conversazione segreta da cui noi, non poeti, siamo e saremo esclusi. Un modo, crudele e definitivo ma chiaro per affermare, una volta per tutte, che la poesia, almeno a un certo livello, è “cosa loro”, e che poco giovano le (sovra)interpretazioni, ché alcuni versi sono destinati a essere intesi solo da pochi.
Di quale utilità sono gli scritti di Baretti e Borgese per mettere a fuoco la ricezione di Dante fuori di casa?
Se la prima parte del libro è dedicata in modo diretto a Dante e ai poeti coevi, la seconda invece si occupa dell’Afterlife di Dante. Per farlo ho scelto dei casi particolari: appunto Baretti e Borgese, ma anche Santagata. Si noterà che ho prescelto dei critici-scrittori. Baretti, oltre a essere uno dei nostri critici e scrittori più interessanti del Settecento ha avuto un ruolo decisivo nella ricezione dantesca: in parte perché questo è un secolo che, come il Cinquecento, rivolse meno attenzione al Fiorentino prediligendo Petrarca o, comunque, il Classicismo, ma soprattutto perché Baretti, con lo stile infiammato che conosciamo, prese Dante come strumento, quasi una “frusta”, da scagliare contro Voltaire che accusava l’italiano di essere una lingua effeminata. Borgese, invece, lo usò in modo diametralmente opposto, ossia come uno scudo e certamente come una figura a cui poté ispirarsi moralmente e in cui rispecchiare, come già Foscolo o Mazzini, la propria vicenda dell’esilio americano. Mi sono concentrato sui tre saggi borgesiani dedicati alla Commedia ma mi piace accennare che anche nelle opere narrative, soprattutto ne I vivi e i morti, si possono riscontrare dei richiami e delle immagini che riportano ai testi danteschi. In comune i due critici-scrittori hanno, come lei bene mette in rilievo, il loro essere «fuori di casa»: e questa condizione è molto importante perché ritrovarsi altrove può condizionare molto la ricezione di un artista. Dante, per restare al nostro tema, nel Sette, e soprattutto nell’Ottocento, è studiato con maggiore attenzione all’estero; Leopardi, al contrario, fuori d’Italia ha avuto, fino a pochi decenni fa, una ricezione alquanto scarsa.
Come si legano la vicenda di Ovidio e quelle di Dante e Mandel’stam?
Il centro di questo capitolo è Mandel’štam che ha scritto due opere fondamentali legate agli altri due poeti: Tristia che riprende l’Ovidio a Tomi e Conversazione su Dante: un testo critico di grande potenza e, soprattutto, di brillanti intuizioni critiche. Ovidio, d’altronde, è una fondamentale fonte letteraria anche per Dante, tant’è che lo include nel gruppo del limbo di cui abbiamo già parlato, per non dire della notissima metamorfosi di Pier delle Vigne in albero (Inf. XIII). In pratica tra questi scrittori si è formato una sorta di circolo in cui uno conversa con l’altro, senza tenere conto delle distanze di spazio e di tempo perché « In uno stato di sacra frenesia i poeti parlano la lingua di tutti i tempi, di tutte le culture. Non c’è niente di impossibile». L’idea che regge il libro è la medesima del mio precedente studio, Michelangelo in Parnaso, e cioè che gli scrittori, ma questo vale per ogni artista, dialoga e si confronta con gli altri scrittori/artisti perché è con loro che si confronta, è loro che ammira, che invidia, che vuole compiacere e superare.
Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Traduzione all’Università di Utrecht, dove inoltre conduce il progetto di ricerca Observatory on Dante Studies. Si occupa di poetica e ricezione estetica, soprattutto nelle opere di Dante, Michelangelo e Morante (per cui ha ricevuto il Premio Elsa Morante). Tra i suoi libri segnaliamo Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori (Marsilio 2019, in traduzione in inglese) e Le ore del meriggio. Saggi critici (Il Convivio 2020, Premio Giuseppe Antonio Borgese).