“DNA. La vita in tre miliardi di lettere” di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi

Dott.ssa Manuela Monti, Lei è autrice con Carlo Alberto Redi del libro DNA. La vita in tre miliardi di lettere edito da Carocci: quali sono le frontiere attuali della ricerca sul DNA?
DNA. La vita in tre miliardi di lettere, Manuela Monti, Carlo Alberto RediCarlo Alberto Redi ed io abbiamo molto a cuore un aspetto della ricerca sul DNA che riguarda la epigenetica, ovvero lo studio di quelle modificazioni che pur non alterando il genotipo (la sequenza del DNA), ne modificano il fenotipo (l’insieme dei caratteri che un individuo manifesta); in parole molto semplici, può essere tradotta nel modo in cui “il sociale” si incarna “nel biologico” trasmettendosi da una generazione all’altra. Teniamo a mente che durante le diverse fasi dello sviluppo di un individuo il suo genoma (ossia, il DNA) è esposto a una varietà di agenti chimici e fisici e l’ambiente sociale (censo, famiglia, scuola, benessere psico-fisico, cultura ecc.) ne influenza in modo determinante il grado di esposizione: fattori ambientali di varia natura possono modificare l’espressione di determinati geni alterando lo stato fisiologico di tessuti e organi. Ne consegue, dunque, che la struttura sociale tende a veicolare una certa continuità sia di vantaggi che di svantaggi a livello intergenerazionale. Le diseguaglianze sociali si traducono così in diseguaglianze di salute e di opportunità con un meccanismo ricorsivo che rinforza lo svantaggio sociale che le ha originate. È sotto agli occhi di tutti che nascere in una grande città del mondo occidentale o alla periferia dell’impero non assicura agli individui una pari opportunità del bene primario necessario per sperimentare la propria esistenza: la salute.

Come si giunse alla sua scoperta?
Immaginiamo di essere negli anni ‘50 del secolo scorso e di vivere a Cambridge, una frizzante e bellissima cittadina a pochi kilometri da Londra dove lo spirito di geni del calibro di Isaac Newton, Charles Darwin, Alan Turing, Stephen Hawking (solo per citarne alcuni) aleggia in ogni stradina e angolo del centro storico. Immaginiamo anche di lavorare al Cavendish Laboratory, a pochi passi dall’imponente e meraviglioso King’s College, di far parte di un gruppo di scienziati inquieti che viaggiano e si interrogano sul ruolo del DNA come substrato dei meccanismi ereditari capaci di veicolare l’informazione genetica. Bene, sulla base di queste premesse diviene chiaro come James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins capirono che lo studio della struttura del DNA, attraverso la diffrazione ai raggi X, fosse il prerequisito essenziale per poter capire le modalità della sua replicazione nel corso delle divisioni cellulari. Una serie di “colpi di fortuna” quali l’idea che accoppiando le basi Adenina e Timina, Citosina e Guanina si potesse costruire una doppia elica, il provare e riprovare a posizionare gli atomi di idrogeno in un posto corretto e il capire che le due catene dovevano avere versi opposti, permisero ai tre uomini, alle 11.30 di un sabato mattina del 1953 di visualizzare il DNA, “il segreto della vita”. Questa è una storia nota, ciò che è meno noto e che è emerso, purtroppo, solo in anni recenti è il contributo fondamentale di una scienziata, Rosalind Franklin che, grazie alla sua famosa fotografia della diffrazione del DNA, la numero 51, ha permesso a James, Francis e Maurice di scrivere la storia. Sarà una seconda donna, Odile Speed, moglie di Crick, a imprimere su carta, con un disegno a mano libera, l’immagine della doppia elica, così come la conosciamo oggi.

Le pagine finali del nostro libro contengono un kit per assemblare la doppia elica del DNA così che, muniti di forbici e un po’ di pazienza, si possa pretendere di vestire i panni di Rosalind, James, Francis e Maurice nei pochi istanti precedenti la visualizzazione della molecola icona del nostro secolo.

Quale affascinante racconto le scienze della vita ci offrono sul DNA e l’origine della vita?
Per rispondere a questa domanda è necessario citare un grande astrofisico, Nanni Bignami che definiva l’origine dell’universo come “Gran botto, nasce materia, poi stelle, molecole, pianeti, Darwin e noi tredici miliardi di anni dopo…”. Ebbene, il segreto dell’origine della vita risale a 3.7 miliardi di anni fa circa quando le prime molecole organiche non andarono diluite e disperse ma riuscirono a concentrarsi nelle porosità della polvere di stelle (una sorta di pietra pomice) permettendo lo sviluppo di quelle reazioni chimiche che oggi sappiamo essere alla base dei processi vitali. E tutto ciò possiede una profonda e tenera vena poetica: siamo figli della polvere di stelle e deriviamo tutti da LUCA (Last Universal Common Ancestor), il nostro progenitore comune. LUCA assomigliava all’attuale virus dell’HIV, uno sferoide contenente un acido nucleico, l’RNA, separato da una membrana dall’ambiente esterno. L’idea di un mondo primordiale basato su riboenzimi (RNA world) ha interessato molto sia Crick, che arriverà ad affermare che “il primo essere vivente non possiede alcuna proteina, consiste interamente di RNA”, che Watson che fonderà, nel 1954, un esclusivo club di soli 24 maschi chiamato “RNA tie club”.

È però Francesco Redi che a metà del 1600 riesce a dimostrare, grazie allo studio dell’Iliade e ben prima di Louis Pasteur, l’impossibilità della generazione spontanea, ovvero che dalla materia inerte potesse originarsi il vivente e dunque che “omne vivum ex ovo”, ogni essere vivente proviene dall’uovo. Quindi…: è nato prima l’uovo o la gallina? Tralasciando la risposta contenuta nel libro della Genesi per la quale gli uccelli sarebbero stati creati il quinto giorno, l’interrogativo non è di facile soluzione, essendo un paradosso difficile da risolvere poichè basato su un ragionamento circolare. LUCA dice però che il quesito irrisolvibile è un trucchetto: è nato prima l’uovo e si chiama… LUCA. La gallina è un’invenzione dell’uovo per propagarsi meglio!

Quali tecniche consentono la manipolazione del DNA?
Sono almeno due le tecniche (ma ve ne sarebbero molte altre) che meritano un cenno.

La prima è senza dubbio quella del taglia e cuci del DNA, CRISPR-Cas9, con la quale si è in grado di modificare in maniera sito-specifica il genoma di qualsivoglia cellula, vegetale e animale, incluse quelle germinali, al fine di ottenere eliminazione, aggiunta, sostituzione, modificazione, o comunque alterazione, di sequenze del DNA legate a geni capaci di determinare tratti di interesse genetico, in medicina umana come in quella veterinaria, in agricoltura come in produzioni biotecnologiche.

L’uso di questa tecnologia è oggi molto diffuso nei laboratori per lo studio, ad esempio, delle funzioni dei geni e della progressione del cancro. Più in generale, può essere impiegata per studi del genoma legati all’azione di farmaci o per generare modelli animali di patologie umane utili nella ricerca. Come tutte le nuove scoperte genera eccitazione ma anche paura, viene definita una tecnica “innaturale” anche se il sistema biologico su cui si basa (e che viene riproposto) è quello messo a punto, naturalmente, dai batteri per difendersi dai virus. È dunque una tecnica fantastica le cui potenzialità dovranno essere affinate e discusse a livello internazionale nel corso degli anni al fine di elaborare una visione utile a stabilire le applicazioni che riteniamo lecite e quelle illecite, chiarendo che queste ultime sono dannose per tutti.

La seconda riguarda la biologia sintetica che si occupa di creare, di sintetizzare, nuovi organismi mai prima d’ora apparsi sul pianeta e che, come le macchine, possono essere assemblati per svolgere determinati compiti. Un esempio è Synthia, un batterio sintetizzato de novo dal gruppo di Craig Venter e ottimizzato per svolgere solo determinate funzioni, quali, ed esempio, la sintesi di idrocarburi o azioni mirate a combattere l’inquinamento di aria, terra e acqua. Come per CRISPR-Cas9 è auspicabile che la società civile sappia elaborare norme capaci di salvaguardare l’avanzamento delle ricerche e il loro impiego a beneficio di tutti i cittadini, assicurando la cautela e la precauzione necessarie a far capire che non sarà permesso alcun uso distorto di queste tecnologie.

Cosa ci rivela lo studio del DNA antico?
Un caso assai interessante di applicazione dello studio del DNA antico è quello che ha visto confrontarsi genetisti spagnoli e italiani sull’annosa (per gli spagnoli) questione delle origini di Cristoforo Colombo. Sebbene sia chiaro a tutti che Colombo fosse genovese, nell’ambito del mondo ispanofono si continua a insistere sul fatto che fosse nato in Spagna. In realtà, la conclusione a cui si è giunti, grazie allo studio di particolari polimorfismi sul cromosoma Y, è che Colombo non solo fosse italiano, ma molto probabilmente lombardo (con buona pace degli amici spagnoli). Inoltre, gli studi su DNA estratto da frammenti ossei o reperti ritrovati nel permafrost delle regioni artiche, permettono, ad esempio, di chiarire elementi di rilievo relativi alla storia dell’umanità, per quanto riguarda tutti i campi del sapere umano, dall’antropologia alla medicina sino alle scienze sociali. Se oggi abbiamo un’idea dell’evoluzione umana ben differente da quella che avevamo solo dieci o quindici anni fa, se conosciamo quali fenomeni migratori abbiano contrassegnato il nostro percorso “fuori dall’Africa” e quali continuano ancora oggi a marcare la nostra biologia, se disponiamo di idee molto più chiare sull’origine di malattie come il diabete, ebbene tutti questi avanzamenti delle conoscenze li dobbiamo allo studio del DNA antico.

Quali prospettive per le applicazioni biotecnologiche del DNA?
Oltre alle già citate CRISPR-Cas9 e biologia sintetica, nel libro presentiamo altri aspetti biotecnologici, di cui generalmente si sente poco parlare, ma che sono di estremo interesse. Uno di essi riprende la proposta del biologo canadese Paul Herbert che poco più di una decina di anni fa ha suggerito di creare un barcode (codice a barre) per identificare tutte le specie viventi associando a ciascuna di esse una sequenza di DNA, scelta in modo tale da presentare un’alta variabilità tra specie e una bassa variabilità all’interno della stessa specie. Questo sistema di barcodes risulta essere molto preciso; inoltre l’identificazione delle specie è realizzabile in modo economico e rapido anche in presenza di piccole tracce biologiche, il che schiude importanti applicazioni per le politiche di conservazione e di lotta al bracconaggio criminale che sta portando all’estinzione diverse specie animali.

Inoltre, il DNA, quattro lettere, miliardi di sequenze che possono essere lette da destra a sinistra oppure da sinistra a destra, o ancora in copia speculare, e che inoltre ha alla base del proprio metabolismo delle logiche giocate su reazioni che avvengono nel tempo di miliardesimi di secondo è oggi fonte di attrazione per gli informatici alla ricerca di sistemi di archiviazione sempre più potenti e sicuri. Per questo si può parlare di DNA usato per archivio, computer e crittografia: il DNA assicura una capacità di immagazzinamento e conservazione di una potenza unica. Ad esempio, 154 sonetti di Shakespeare e il discorso “I have a dream” di Martin Luther King sono stati archiviati in una quantità di DNA pari ad una punta di spillo. Inoltre, le sequenze di DNA possono funzionare come porte logiche, ben più potenti di quelle a base di silicio attualmente in uso: da qui nasce l’interesse per lo sviluppo di sistemi di calcolo che impieghino le logiche del DNA, in cui al posto degli attuali microprocessori ve ne siano altri di DNA.

Manuela Monti, biologa delle cellule germinali, è Dottore di Ricerca in Bioingegneria e Bioinformatica e responsabile del Centro Ricerche di Medicina Rigenerativa della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. Insegna biologia delle cellule staminali allo IUSS di Pavia e svolge un programma di ricerche dedicato alla neo-oogenesi in condizioni di prematura perdita oocitaria e senescenza in collaborazione con istituti di ricerca in USA e Giappone. È autrice con C.A. Redi di diversi saggi di divulgazione scientifica.

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