
di Saverio Bellomo
Olschki
Il Dizionario prende in esame tutti i commenti o gli apparati di chiose e i testi composti con l’intento di illustrare la Commedia stesi prima del 1478, anno di pubblicazione del commento del Nidobeato, «il quale può considerarsi come il primo steso appositamente per la stampa, quantunque il suo grado di originalità sia scarsissimo, in quanto riproduce in gran parte Iacopo della Lana.» La scelta risponde «a una esigenza di carattere scientifico, perché permette di selezionare testi omogenei sia quanto a tradizione, sia quanto a statuto. Infatti, non solo la diffusione manoscritta implica strumenti di ricerca e modi di catalogazione specifici, ben diversi da quelli adatti alla tradizione a stampa, ma implica anche un più sfumato concetto di Authorschaft, con pesanti conseguenze sia ecdotiche che di valutazione critica. Questa data ha inoltre il vantaggio di fungere da spartiacque nella storia della critica dantesca (e letteraria) tra una prima fase legata ancora al modello del commento medioevale, con tutto ciò che ne consegue sul piano dell’organizzazione del sapere, e una seconda, che per comodità potremmo definire rinascimentale, in cui l’interesse per la Commedia diviene quasi esclusivamente letterario; una prima, che vede in Dante un modello insuperabile, e una seconda, che gli antepone Petrarca; una prima, che ancora condivide problemi, passioni e sentimenti che erano stati dell’Alighieri, e una seconda, che ormai guarda con curiosità antiquaria a tutto ciò.»
«La produzione di commenti e chiose alla Commedia» fu «intensa e precoce»: «Se già attorno al 1334 l’autore dell’Ottimo commento poteva definire la sua come un’operazione di raccolta e di compilazione […], è il napoletano Guglielmo Maramauro a fornire, tra il 1369 e il 1373, la prima bibliografia della critica dantesca nel proemio al suo commento».
«Dal punto di vista testuale, il commento ha uno statuto complesso, perché dipendente, in qualità di mediatore epistemico, da un altro testo. Nel caso del commento medievale, inoltre, le cose si complicano, perché ad esso vennero delegate le principali funzioni didattiche, in quanto riproduce per iscritto, in buona sostanza, il modello della lectio universitaria, la quale rispetto al testo oggetto di lectura, come è noto, ha la possibilità, se non il dovere, di spaziare in vari campi del sapere, conquistandosi in tal modo una quasi completa autonomia da esso e magari una dipendenza rispetto agli altri testi da cui questo sapere è tratto. Nel caso infine del commento alla Commedia si aggiunge una ulteriore complessità dovuta alle esigenze di un pubblico enormemente allargato e vario, che si affaccia spesso per la prima volta alla letteratura e necessita pertanto di strumenti di lettura fortemente differenziati a seconda del proprio livello culturale.»
«Se non si fa storia della nostra letteratura senza tenere conto della geografia, come ci ha insegnato Carlo Dionisotti, meno che mai si può fare storia della critica dantesca, a causa della condizione di esule dell’Alighieri. Poiché tale condizione non è accessoria o contingente rispetto alla sua poesia, ma consustanziale alla stessa genesi delle grandi canzoni dottrinali, del Convivio e della Commedia, cioè di tutta la produzione della maturità, e poiché Firenze ha parte centrale nella concezione politica e nella scelta linguistica di Dante, è chiaro che Firenze, madre di poco amore, come recita un celebre epitafio, in quanto responsabile di questo esilio, reagisce in modo non neutro all’opera dantesca. Dal che deriva la necessità, nell’analisi dei commenti, di tenere conto, prima di tutto, della eventuale loro origine fiorentina. Tale origine hanno, nell’ordine, le Chiose Palatine e l’Ottimo, ambedue testi che ruotano attorno alla personalità di Andrea Lancia, il cui commento di sicura attribuzione compare per terzo. Il notaio fiorentino fu un appassionato promotore del volgare, conobbe personalmente Dante e fu precocissimo (già nel 1317) lettore della Commedia. Ebbe, a quanto pare, una parte importante per riavvicinare Dante alla patria, probabilmente anche nel promuoverne l’opera attraverso la diffusione manoscritta. Dopo di lui silenzio fino a Boccaccio, con il quale sono documentate piccole ma significative tangenze. Il fine dell’operazione culturale di quest’ultimo è quello di riappropriarsi della gloria patria: infatti prima scrive il Trattatello in laude di Dante per sopperire, come dice, a un mancato monumento alla memoria del poeta, poi, con il commento e con la pubblica lettura, ne diffonde la poesia tra i concittadini.
Un dato che emerge in tutta evidenza dalla tabella è il primato di Bologna. Fino al 1328 è indiscussa vestale del culto dantesco: in quattro anni produce il commento all’Inferno di Graziolo e quello del Lana alla intera Commedia. Quella data segna il terminus ante quem di quest’ultimo e, forse non casualmente, anche l’inizio della signoria di Bertrando del Poggetto, il ben noto nemico dell’Alighieri. Ma da quella data in avanti il nome dei dantisti bolognesi si spande ovunque, anche grazie alla loro itineranza, dovuta a esilio o altre contingenze: Bambaglioli è al bando dal 1334, Lana forse già ci si trovava dal ’23. Ambedue sono menzionati esplicitamente in più occasioni. Non si sottovaluti questo fatto in un’epoca in cui la conquista dell’autorità era tutt’altro che facile, specie se riferita a opere per loro natura soggette al saccheggio come i commenti. E invece, oltre che da Maramauro, Bambaglioli è ricordato dall’Ottimo commentatore come «il cancielliere di Bologna»; Lana, lusinghieramente da Alberico da Rosciate quando si accinge e tradurne e rielaborarne il commento, meno lusinghieramente dall’imolese Benvenuto, […]: tuttavia ne fa il nome. La tradizione manoscritta del commento laneo è del resto la più cospicua, con il suo centinaio abbondante di manoscritti. Si attesta su numeri analoghi il solo Comentum di Benvenuto, che nasce, sotto forma di recollectae, nell’università bolognese. Bisogna tenere conto inoltre che le chiose del Lana furono alla base del commento dell’Ottimo, di Alberico, dell’Anonimo fiorentino (specie per la seconda metà del Purgatorio) e furono utilizzate largamente dal Falso Boccaccio. Anche Graziolo ha udienza non occasionale nell’Ottimo, che lo conosce attraverso il volgarizzamento.
Quanto alle ragioni di tale primato, non si andrà troppo lontani dal vero mettendolo in relazione con la presenza dell’università, struttura laica della gestione del sapere e con tradizione di studi di retorica, bene disposta quindi a recepire una poesia «laycis rhetoricisque modis», come recita l’epitafio diGiovanni del Virgilio, la quale veicolava contenuti enciclopedici attraverso una lingua che non era quella del clero.
Il poema ebbe la sua prima diffusione, come mostrano gli studi sulla sua tradizione manoscritta e come era naturale per le vicende biografiche del poeta, nell’Italia settentrionale; ecco la ragione della precoce composizione in quel territorio di un apparato esegetico in latino come quello dell’Anonimo lombardo, finalizzato a una prima comprensione di un testo per lettori che non parlavano il medesimo volgare di Dante. L’ingresso in Toscana del poema avvenne per questo motivo da nord, attraverso Pisa, le cui tradizioni ghibelline la resero particolarmente ben disposta ad accoglierne il messaggio politico. Per la ragione opposta l’Italia meridionale guelfa entra in gioco tardi, e dopo la morte di Roberto, il re «da sermone» cui l’Alighieri non aveva lesinato le critiche. Compare anche una località non italiana, Costanza, ove Giovanni Bertoldi da Serravalle portò a termine un commento e una traduzione latina della Commedia, che segna il primo tentativo di esportazione in Europa del poema dantesco, occasionato dal grande concilio del 1415.
[…] La scelta della lingua da parte dei commentatori non pare tanto legata alla cronologia, quanto alla geografia. I commentatori toscani e soprattutto fiorentini scelgono il volgare, mentre gli altri mostrano una certa preferenza per il latino. In questo quadro, il bolognese Lana rappresenta una notevole eccezione, prontamente normalizzata da almeno quattro traduzioni latine, mentre non contraddice la regola il caso di Pietro Alighieri, sì fiorentino, ma che scrive a Verona. Le ragioni di tale opzione sono lucidamente espresse dal bergamasco Alberico da Rosciate, che ben conosce le difficoltà di comprensione del toscano da parte dei settentrionali […].
È notevole la scelta del volgare nel napoletano Maramauro, ma si spiega con la forte influenza culturale fiorentina durante il regno di Giovanna d’Angiò. Da quanto emerge dai dati, raramente la scelta del volgare pare dettata dalla volontà di raggiungere un pubblico di basso livello culturale, a riprova del fatto che Dante, come ha osservato Dionisotti, non fu mai il poeta dei bottegai. Sono infatti rari i commenti che, per il loro livello culturale depresso, parrebbero essere loro dedicati: tra essi possono essere annoverate le Chiose Selmi, le Chiose Cagliaritane e quelle stilate saltuariamente ad uso personale da Bartolomeo Ceffoni.
Quanto alla condizione sociale dei commentatori, se guardiamo alla loro professione, vediamo rappresentate tutte le principali categorie di intellettuali dell’epoca. Una parte di essi appartiene alla classe dirigente: Bambaglioli fu cancelliere, Bosone da Gubbio podestà, Alberico da Rosciate diplomatico, Guglielmo Maramauro funzionario regio, lo stesso Pietro Alighieri giudice. Accanto a loro, ma con posizione di minore rilievo e responsabilità, deve essere posto il notaio Andrea Lancia. Un’altra categoria è costituita dai professori di grammatica e retorica, pubblici lettori della Commedia, i quali, con la loro opera, la promossero ad auctoritas alla pari di un classico. Ma ciò avvenne non prima della fine del secolo XIV, dopo che Boccaccio, iniziatore delle pubbliche letture, aveva affrancato il poema dalle riserve dovute all’uso del volgare, rendendola degna dell’attenzione dei maestri. Tra questi, in ordine cronologico, compaiono Benvenuto da Imola, Francesco da Buti, Filippo Villani, Domenico Bandini, il poco noto Cristiano da Camerino, Bartolomeo Nerucci e Guiniforte Barzizza.
Nonostante le aspre rampogne del poeta rivolte alle gerarchie ecclesiastiche e nonostante le sue posizioni teologiche talvolta non del tutto in linea con l’ortodossia, la Commedia trovò il favore di numerosi religiosi, che ad essa si dedicarono con competenza e passione. Sono stati forse troppo enfatizzati alcuni pronunciamenti compiuti da una istituzione religiosa come il Capitolo Provinciale dei Domenicani di Firenze, che nel 1335 fece divieto ai frati di leggere e possedere scritti volgari di Dante. La proibizione, circoscritta esplicitamente, tra tutti i poeti, al solo Alighieri, testimonia piuttosto il successo dell’opera e appare scontata reazione da parte dei difensori della tradizionale gerarchia delle artes e del primato della teologia a una evidente invasione di campo, sul piano semplicemente tematico, compiuta da un poeta. Né dovette essere estranea la preoccupazione che lettori impreparati al linguaggio traslato letterario potessero dare interpretazioni aberranti all’opera dantesca, come ancora alla metà del Quattrocento appare dalle parole di s. Antonino, anch’egli domenicano. Non si dimentichi inoltre la tradizionale diffidenza dell’ordine nei confronti della poesia in genere, e in particolare delle favole antiche che Dante aveva ricuperato e portato a conoscenza di un vasto pubblico.
La miglior prova di come tali ostilità tra Dante e la Chiesa non furono né aspre, né durature, consiste nel considerevole numero di commentatori provenienti dagli ordini religiosi dei predicatori e talvolta insigniti del titolo di maestri di teologia. A loro va riconosciuta l’intelligenza di avere subito compreso, e dichiarato con l’autorità dell’inquisitore, il francescano Accorsio Bonfantini, che la Commedia deve essere interpretata iuxta propria principia in quanto opera poetica, e non deve essere letta come un trattato di teologia. Accorsio non scrisse probabilmente un commento, ma si limitò, prima del 1333, a una expertise sull’ammissibilità della pena attribuita a Dante ai suicidi. Almeno due suoi confratelli si annoverano tra gli esegeti del Quattrocento: Giovanni Bertoldi da Serravalle e Bartolomeo da Colle. Ai domenicani appartennero invece l’Anonimo teologo e Stefano Mangiatroia. Compaiono inoltre un carmelitano, Guido da Pisa, un agostiniano, Benedetto da Firenze, e un servita, Paolo Albertini.Per quanto le personalità di questi frati siano assai diverse sul piano culturale, tutti manifestano – e non c’è da stupirsene – un’attenzione particolare per il contenuto morale della Commedia. Non per caso il poema venne sfruttato assai per tempo ai fini della predicazione, come testimoniano, prima del 1328, i Sermones di Agostino Trionfo, infarciti di citazioni tratte dal Paradiso.
Ce n’è abbastanza per potere affermare, nonostante qualche sospetto in contrario, che la Chiesa non guardò mai con sospetto il poema e che la polemica con Dante fu circoscritta alla Monarchia, la quale, in quanto trattato, aveva tutto il peso di un gesto di politica militante, enfatizzato vieppiù dall’uso che ne fecero i seguaci di Ludovico il Bavaro. Fu infatti proprio in questa occasione e nel momento di massima tensione che l’antidantismo politico toccò il suo apice con la condanna al rogo comminata da Bertrando del Poggetto al trattato e persino alle ossa del suo autore.
Per concludere questo schematico quadro sociologico dei commentatori, resta da dire che molti di loro furono scrittori in proprio. Lasciando da parte il fuoriclasse Boccaccio, si iscrivono nella categoria i trecentisti Iacopo e Pietro Alighieri, Graziolo Bambaglioli, Bosone da Gubbio, Menghino Mezzani, Mino d’Arezzo, Cecco degli Ugurgieri, i quali furono tutti rimatori mediocri o cattivi; mentre Guido da Pisa e Andrea Lancia (e Zanobida Strada se va annoverato tra i commentatori) si dedicarono egregiamente alla prosa, con volgarizzamenti e compilazioni. Autori di opere storiche ed erudite prevalentemente in latino furono Benvenuto da Imola, Filippo Villani e Domenico Bandini. Nel secolo successivo troviamo un poeta cortigiano di fama grande, ancorché non del tutto meritata, come Niccolò Lelio Cosmico, Guiniforte Barzizza, autore di eleganti orazioni, e Antonio Manetti, abile rifacitore della straordinaria Novella del Grasso. Si può aggiungere infine Giacomo Gradenigo, copista e parco rielaboratore del commento laneo e prolifico rimatore.»