
In realtà anche il sanscrito come tutte le lingue è soggetto a evoluzione, e si può parlare di una storia del sanscrito come di una storia del latino, del greco o di ogni altra lingua.
Le culture che trovano espressione attraverso questa lingua sono principalmente quella brahmanica, quella buddhistica e quella jainica. Le ultime due tradizioni si risolvono a impiegare il sanscrito per così dire per non sfigurare di fronte alla cultura brahmanica, di cui subiscono il prestigio, anche se almeno in origine si erano espresse in altri idiomi (pāli per il buddhismo, ardhamāgadhī per le fonti jaina).
Gli eventi storici che si verificano nell’arco temporale che interessa questa produzione letteraria spaziano da poco meno della metà del secondo millennio aev a metà e oltre del secondo millennio ev, con propaggini che si spingono al XX e XXI secolo della nostra era.
Il sanscrito dà vita a una serie di parole entrate nell’uso delle nostre lingue, dall’inglese (jungle, lakh, punch, shampoo, thug) all’italiano (bandana, lacca, sandalo, svastica), ben oltre l’àmbito filosofico, quindi non è così lontano dalla nostra comunicazione quotidiana come potremmo presumere.
Quale difficoltà accompagna il tentativo di far corrispondere termini tecnici indiani a equivalenti in lingue occidentali?
Da un lato è sempre rischioso tentare di far corrispondere termini tecnici indiani a equivalenti in lingue occidentali. Rendere dravya con sostanza; guṇa con attributo; padārtha con categoria espone a rischi di indebita attribuzione e di parziale sovrapposizione; rendersi conto che nella concezione indiana termini come essere, essenza ed esistenza non coprono differenze significative può suscitare sconcerto. D’altro canto, la resa di determinati termini chiave non è affatto univoca, e differenti traduzioni si sono fatte strada, sostenute autorevolmente da diversi studiosi. Così per es, pratītyasamutpāda può essere reso altrettanto bene con genesi interdipendente e con coproduzione condizionata: entrambe le traduzioni hanno le loro ragioni.
Un esercizio utile può essere costituito dalla meditazione sul confronto tra voci apparentemente assai distanti (per contesto di produzione, per orientamento religioso e simili), ma che nei fatti vengono almeno parzialmente a sovrapporsi: si vedano per esempio le coppie mokṣa / nirvāṇa; brahman / śūnya. Con questo non si vuol dire che la filosofia indiana sia la notte in cui tutte le vacche sono nere, ma di alcune sconcertanti somiglianze profonde, velate da contrapposizioni forse superficiali, bisognerà tenere conto.
Come si sviluppa la produzione filosofica indiana classica?
Secondo una tassonomia brahmanica (sacerdotale) invalsa nell’uso, si individuano sei scuole classiche della filosofia indiana, che prendono il nome di darśana, “punto di vista”, “visione del mondo” (Weltanschauung?).
La produzione dossografica di ogni scuola vedrà nella propria impostazione il punto di vista definitivo e autorevole, nelle altre punti di vista preliminari, buoni in via propedeutica ma da gerarchizzare in una scala di verità relative che via via si avvicinano gradualmente e asintoticamente alla sola verità assoluta. Il senso di darśana è sempre in bilico tra un’accezione debole (e in tal senso è equiparabile a naya “principio, metodo, procedura”, → vāda “dottrina”, mata “opinione”, dṛṣṭi “visione, concezione”, che spesso possono venire in usati in senso dispregiativo (per intenderci come il termine greco per opinione, δόξα), e una forte. Non è stata ancora tentata una ricognizione argomentata e puntuale delle possibili analogie di darśana con “teoria” (θεωρία), il che è sorprendente, visto che entrambi i vocaboli si rifanno etimologicamente a radici che significano “vedere”, forse con riferimento a una auspicabile oggettività dello sguardo filosofico, che dovrebbe essere capace di cogliere il fenomeno e ancor più di scorgere al di là del velo fenomenico l’essenza autentica del vero. Resta dunque irrisolta in darśana la tensione tra un’accezione passiva (la visione del divino che si riceve senza averla meritata e che non comporta sforzo cosciente) e una attiva, quella che dà vita a una molteplicità di punti di vista che si propongono di analizzare il reale, diversificando e moltiplicando le possibili interpretazioni dei fenomeni che si presentano alla “vista”, ossia alla capacità di penetrazione intellettuale.
I sei darśana si studiano a coppie, ciascuna delle quali comprende un primo elemento di orientamento ateistico, tendenzialmente più antico, al quale si appoggia il secondo elemento, tendenzialmente più recente, di orientamento variamente teistico. Le coppie sono sāṃkhya e yoga, vaiśeṣika e nyāya, pūrvamīmāṃsā e uttaramīmāṃsā (meglio nota come vedānta). Ogni darśana costituisce un sistema filosofico autonomo, con una propria epistemologia, cosmologia, etica, metafisica, e ovviamente soteriologia, dal momento che la preoccupazione per la salvezza costituisce la costante del pensiero indiano. Se volessimo però individuare per ognuna delle scuole succitate la dimensione prevalente potremmo sintetizzarla come segue: metafisica (sāṃkhya), ascetica (yoga), fisica (vaiśeṣika), logica (nyāya), esegesi (pūrvamīmāṃsā), mistica (uttaramīmāṃsā).
Quali sono i termini di maggior rilevanza per la comprensione della filosofia indiana classica?
Difficile fare una classifica, direi almeno ātman, brahman, dharma, karman, prakṛti, puruṣa, yoga, tutti termini complessi, in parte polisemici, problematici, impossibili da riassumere in un’intervista. Forse a qualcuno verrà curiosità di dare una sbirciata alle voci relative.
Alcuni termini sanscriti hanno ormai acquisito un uso comune nella nostra società, come, ad esempio, nirvāṇa, un termine chiave della soteriologia buddhistica e in generale del lessico intellettuale indiano: quale ne è l’accezione originaria?
Per il buddhismo antico, il nirvāṇa è etimologicamente l’estinzione della brama che costituisce la liberazione (caratterizzata da beatitudine, permanenza, libertà e purezza), il fine ultimo del percorso soteriologico, che consente di spezzare il ciclo delle rinascite. Si tratta di un termine chiave della soteriologia buddhistica e in generale del lessico intellettuale indiano, tanto da venire interpretato in senso inclusivistico dalla Bhagavadgītā: “Tale la condizione del brahman, o figlio di Pṛthā: una volta conseguitala [l’uomo] più non si confonde; presa in essa salda dimora, anche al momento della morte ottiene l’estinzione nel brahman (brahmanirvāṇa)” (Bhagavadgītā 2,72). In passi come quelli testimoniati da questa citazione la cultura brahmanica si appropria del concetto di estinzione, mettendolo addirittura in relazione con uno dei termini chiave della propria visione del mondo, brahman appunto.
Il samādhi rappresenta il fine ultimo della disciplina dello yoga: in cosa consiste precisamente?
Etimologicamente il termine significa “accentramento simultaneo [dell’attenzione], attenzione concentrata”. Costituisce il fine ultimo della disciplina dello yoga, una delle otto parti dello yoga a otto membra (aṣṭāṅgayoga), si può considerare il salto di qualità che porta al perfezionamento delle due membra precedenti (concentrazione e meditazione, dharaṇā e dhyāna). Con riferimento alle cosiddette terre mentali (cittabhūmi), lo stadio concentrato in un punto (ekāgra) corrisponde al samādhi detto consapevole (samprajñāta, samāpatti), in cui sussiste ancora la distinta consapevolezza dell’oggetto di contemplazione; lo stadio dissolto (niruddha) al samādhi detto inconsapevole (asamprajñāta), perché l’arresto delle modificazioni mentali comporta l’assenza di ogni attività mentale, ivi compreso il pensiero: la mente (citta) si presenta come uno specchio d’acqua privo di increspature, ormai in grado di riflettere la luce del soggetto (puruṣa, equiparato nell’immagine impiegata al sole) senza alcuna distorsione. Il samādhi di tipo samprajñāta comprende otto fasi: con ragionamento (savitarka), senza ragionamento (avitarka), con deliberazione (savicāra), senza deliberazione (avicāra), con beatitudine (sānanda), senza beatitudine (nirānanda), con autocoscienza (sāsmitā), senza autocoscienza (nirasmitā). Le prime quattro si definiscono “con seme” (sabīja). Il samādhi di tipo asamprajñāta comporta un assoluto distacco (vairāgya), ossia una pratica (abhyāsa) priva di un supporto meditativo quale che sia. Quando la mente, che consiste solo più di impulsi karmici, viene arrestata, il samādhi si dice “senza seme” (nirbīja), e sarà prodotto da mezzi (upāyapratyaya), tipico degli asceti, ovvero naturale (bhāvapratyaya), proprio degli esseri senza più corpo e di quelli che si dissolvono nel principio oggettuale (prakṛti).
Alberto Pelissero è professore ordinario di Indologia presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino, dove insegna Lingua e letteratura sanscrita e Filosofie e religioni dell’India. Pubblicazioni in volume recenti più significative: Filosofie classiche dell’India, Morcelliana, Brescia 2014; I cakra. Le ruote d’energia nella tradizione indiana, Magnanelli, Torino 2016; Estetica indiana, Morcelliana, Brescia 2019; Letterature classiche dell’India, Morcelliana, Brescia 20202 (I ed. 2007).