“Antologia in latino della Divina Commedia di Dante Alighieri” tradotta da Giovanni Battista Mattè, a cura di Enrico Renna

Prof. Enrico Renna, Lei ha curato l’edizione dell’Antologia in latino della Divina Commedia di Dante Alighieri, tradotta da Giovanni Battista Mattè e pubblicata da La scuola di Pitagora: quale ricezione ebbe l’opera del Mattè e quali giudizi riscosse?
Antologia in latino della Divina Commedia di Dante Alighieri, Giovanni Battista Mattè, Enrico RennaIn tempi difficili per il latino come sono i nostri riproporre, sia pure in veste antologica, per il VII centenario della morte del Sommo Poeta, la traduzione latina di Giovanni Battista Mattè (Inverso di Drusacco, nel Canavese, 1810 – Castellamonte 1892) della Divina Commedia, può apparire un’operazione culturale peregrina, ma così non è. Intanto, essa si inserisce in un filone ben preciso, quella della fortuna della Commedia nella lingua di Virgilio, iniziata negli anni 1416-17 con la traduzione in latino ad opera del francescano Giovanni Bertoldi da Serravalle. Come ha ben sottolineato Giovanni Ambrosi, nel 1965, nella ricorrenza di un altro Centenario, il VII dalla nascita, l’adozione del latino «si ispira particolarmente al fatto che fu questa la lingua, da cui Dante traendo lo bello stilo, come da naturale fonte materna, condusse d’un balzo l’infanzia del volgare letterario italiano al più superbo splendore della virilità».

Ma per il rapporto tra latino e Dante, autore del Poema Sacro, si può rintracciare una motivazione ancora più profonda e diretta: la famosa epistola del monaco Ilaro del convento di S. Croce del Corvo, in Lunigiana, inviata a Uguccione della Faggiuola, un documento di discussa autenticità, ma che per le indagini degli ultimi tempi condotte da Giorgio Padoan, sembra riacquistare dignità testimoniale. «Se l’epistola è autentica, ed è vero quanto Ilaro in essa espone e il Boccaccio riecheggia, sia nel Trattatello in laude di Dante sia nelle Esposizioni sopra la Commedia, il poeta, nel passare al monaco la prima cantica perché la recapitasse a Uguccione come esemplare di dedica, gli avrebbe confessato di volersi servire in un primo tempo del latino per la sua opera, ma che poi ne sarebbe stato dissuaso dalla constatazione dello scarso apprezzamento dei signori del tempo per la lingua latina e si sarebbe quindi deciso per il volgare» (Giuseppe Scalia). In ogni caso, si accetti o no l’autenticità del documento, trasmessoci dal prezioso Zibaldone Laurenziano, autografo di Boccaccio, sta di fatto che Dante fu rimproverato frequentemente dai Trecentisti e dagli Umanisti per non aver composto la Commedia in latino, ed aver privilegiato, di contro, le inclinazioni dei signori del suo tempo.

Per tornare al Mattè, va detto che egli nominato arciprete di Castellamonte nel 1851, fu apprezzato cultore delle lettere e della poesia latina. In occasione della Messa d’oro di monsignor Luigi Moreno, il suo Vescovo, l’8 giugno del 1873 ad Ivrea, pensò di festeggiarne la ricorrenza, in mezzo ad un’eletta schiera di vescovi e di arcivescovi, con l’offerta della traduzione della prima Cantica del poema dantesco. Questa è la prima origo del lavoro di traduzione dell’intero poema (Cantica de Inferis, Purgatorium, Paradisus) che il Mattè portò a compimento tra il 1873 e il 1876. Il latinista Gian Severino Perosino, direttore de «Il Baretti», Giornale Scolastico Letterario, diede notizia della traduzione dell’Inferno, compiuta dal Mattè, sulla sua rivista. L’anno successivo, sempre sulle pagine dello stesso periodico, il Perosino recensiva la traduzione del Purgatorium con queste parole: «Quello che abbiamo detto del prof. Biancardi, con ben più ragione possiamo ripetere del bravo cav. D. Mattè, della cui valentia nel poetare latino non essendo quasi numero del Baretti che non ne contenga qualche saggio, da lui fatto per lo più estemporaneamente di mano in mano che il giornale gliene porta a Castellamonte qualche argomento, non è certo necessario che oggi diciamo di lui in parole ciò che egli tutti i giorni dimostra coi fatti. Ci rallegreremo piuttosto con lui e coi nostri studi del bel dono ch’egli ha testè fatto alle lettere pubblicando la sua versione in distici latini del Purgatorio Dantesco sopra annunziata e ristampando quella dell’Inferno, di cui il Baretti ebbe già annunziare la 1ͣ edizione con parole di lode, le quali giovarono pure, lo diciamo con orgoglio, a farne conoscere il modesto autore, il cui merito non era certo eguagliato dalla fama. Se non che ci spiace dover soggiungere che il Mattè per un sentimento di eccessiva modestia non pubblica altrimenti i suoi lavori letterari che in ristretto numero di copie di cui fa dono agli amici; noi però nutriamo fiducia che quando si risolverà a pubblicare anche la terza Cantica Dantesca, che sappiamo aver pure già tradotta, vorrà riunirle tutte e tre e farne un sol volume a vantaggio degli studi e degli studiosi».

Quale considerazione ebbe proprio il Mattè della sua opera di traduttore dantesco?
Un’indicazione preziosa in tal senso la offre lo stesso arciprete, il quale, recensendo, sempre su «Il Baretti», nel 1874, la traduzione della Commedia dantesca realizzata da un altro latinista, l’amico Giuseppe Pasquale Marinelli (umanista e filantropo marchigiano), rivendicando l’originalità della propria impresa, così conclude: «È poi cosa singolare che prima che avessimo relazione vicendevole ci siamo incontrati nel genio. Io pure, come lui, ho tradotto in versi latini l’Iliade d’Omero e la Divina Commedia, di cui solo l’Inferno è finora stampato. Vi è solo differenza, che Egli ha preso ad imitare o meglio rifare altre traduzioni, come accenna nelle prefazioni, ed io ho tradotto senza nessun soccorso di altre traduzioni; onde se le mie resteranno inferiori, sono però affatto originali e nella forma e nello stile». Nella Prefazione diretta al lettore, con cui si aprono i Cantica de Inferis, dopo aver lodato il ben noto commento della Commedia composto da Niccolò Tommaseo, rivendica l’utilità del suo tentativo di rendere Dante in latino e questo per un duplice vantaggio, risvegliare, da un lato, lo studio della lingua di Roma e avviare, dall’altro, a una più profonda conoscenza della lingua italiana. Si augura altresì che il suo esempio, non vano, possa suscitare, uti scintillam parvam flamma excipit ingens, altre prove ben più alte della sua.

Come proseguì la fama del Mattè traduttore nel corso del Novecento?
La fama della versione latina della Divina Commedia del Mattè, citata nei principali repertori bibliografici danteschi coevi, italiani e stranieri, già consolidata durante l’Ottocento, si arricchisce nel corso del Novecento, tra gli altri, di un tassello, veramente importante e significativo: un importante documento pontificio, promulgato in occasione del VII centenario della nascita di Dante Alighieri, presceglie a dispetto di tante altre traduzioni latine del poema dantesco, proprio quella di Mattè. Si tratta della prima delle Litterae Apostolicae motu proprio datae del Papa Paolo VI, oggi Santo, intitolata Septimo exeunte saeculo a Dantis Aligherii ortu e datata 7 dicembre, festa di S. Ambrogio vescovo, del 1965, terzo anno del suo Pontificato. La lettera, in latino, accoglie nel testo undici citazioni dei versi del Paradiso riportati in nota nella traduzione latina del Mattè: “Latina interpretatio I.B. Mattè, Dantis Aligherii Paradisus, Eporediae 1876”.

Quali caratteristiche stilistiche presenta la traduzione dell’arciprete di Castellamonte?
Un giudizio abbastanza esteso sui pregi della resa in latino del capolavoro dantesco da parte del Mattè fu formulato da Federico Ravello nel 1921, in un saggio compreso in un volume celebrativo per il VI centenario della morte del sommo poeta. Esso termina così: «Non si può fare a meno di riconoscere e di affermare che al traduttore non facevano per certo difetto né la padronanza della lingua né la tecnica del verso e neppure – e questo costituisce il principal pregio – l’attitudine a rendere non indegnamente la poesia di Dante». Il giudizio di Ravello fa eco ad un altro giudizio, non meno lusinghiero, espresso nel corso dell’Ottocento, dal celebre dantista Giuseppe Jacopo Ferrazzi: «La versione dell’arcip. Cav. Mattè, a mio avviso, non è punto inferiore a verun’altra delle latine, vuoi per fedeltà, vuoi per eleganza, e più che altro per lo spirito serbato dell’originale».

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