
Come si “spacchetta” il costrutto di inclusione? Parlare di inclusione oggi significa fare riferimento ad un filone di studi che sta studiando quali sono le condizioni e i dispositivi che permettono di costruire ambienti inclusivi ad alto tasso di partecipazione. Il focus d’attenzione si è finalmente allontanato dalla lente di ingrandimento che era posta sulle persone che venivano considerate “fuori dalla norma”, perché fuori dalle categorizzazioni socialmente condivise di ciò che viene considerato “normale”, “normotipico”, “normalizzante”. L’assunto consolidato è che la normalità è una “metafora”. È una costruzione socialmente condivisa che definisce ciò che “sta dentro” e ciò “che sta fuori” i criteri della normalità. Per questo produce inevitabilmente esclusione ed etichette linguistiche che rafforzano stigmatizzazioni già in atto. Nei contributi più recenti, quali i cultural, feminist e disability studies, così come gli studi sull’intersezionalità tra dimensioni di diversità, lo sguardo si è spostato su ambienti e culture che producono disuguaglianze, espongono a marginalità o limitano l’autonomia e la realizzazione delle persone. Contesti, organizzazioni e comunità devono rispondere a criteri di accessibilità e garantire piena partecipazione alla pletora di attori organizzativi che li abitano. La sfida è intercettare e implementare dispositivi organizzativi e sistemi di azioni che sono utili per progettare e costruire ambienti ad alto tasso di inclusività. Questa è la sfida a cui cerco di rispondere nel volume “Diversity & Disability Management”, muovendo da una recente letteratura internazionale che sta studiando pratiche e percorsi di sviluppo inclusivo nelle aziende, nelle scuole, e in ogni comunità.
In che modo la gestione delle diversità può essere una leva strategica per l’innovazione nei contesti sociali, educativi e organizzativi?
L’ipotesi che sostengo nel volume “Diversity & Disability Management” è che l’inclusione lavorativa costituisca la leva strategica per l’inclusione sociale. Abbiamo rilevato l’interesse di indagare come progettare ambienti di lavoro accessibili, dove l’accessibilità non fosse solo una questione di “accomodamenti ragionevoli” ma anche una condizione per l’innovazione dell’azienda. Abbiamo condotto ricerche situate nelle organizzazioni e nelle imprese di tutto il territorio nazionale per tre anni. Gli esiti di questi studi ci hanno aiutato a formalizzare i modelli operativi e le pratiche di gestione attraverso cui i gruppi di lavoro, le aziende, le imprese possono essere supportati nello sviluppo di sistemi di valorizzazione del personale e di innovazione organizzativa. Questo non ha a che fare solo con le “categorie considerate protette”, ma riguarda il ripensamento e la trasformazione dei modelli dell’impresa 2030. Le organizzazioni, in un mondo multietnico, superglobalizzato, in rapido cambiamento, si configureranno sempre di più come imprese ad alto tasso di eterogeneità e diversità. Creatività e innovazione si collocano solo all’interno di gruppi eterogenei, composti da persone con differenti abilità, background, nazione, etnia, genere, etc.., dove ci sia confronto e scambio continuo.Si aggiunga a questo che l’inclusione lavorativa premia soprattutto in termini di brand dell’azienda. Pensiamo ad Apple, che fa dell’accessibilità dei suoi dispositivi il suo punto di forza per conquistare un pubblico molto più ampio oltre i confini nazionali. Premia in termini di produttività e innovazione, laddove consente di valorizzare il contributo potenziale di ciascun professionista all’interno dell’organizzazione, massimizzare i processi produttivi e arginare il rischio di avere professionisti che sono sottoimpiegati rispetto al loro valore di contribuzione. Il rapporto “The Disability Inclusion Advantage”, realizzato da Accenture nel 2018, evidenzia come le aziende che eccellono nella inclusione lavorativa delle persone con disabilità abbiano in media ricavi superiori del 28% rispetto alle aziende in cui i livelli di inclusività siano molto più bassi.
A fronte di questo scenario, l’emergenza da Covid-19 ha velocizzato la trasformazione del modo stesso di intendere l’organizzazione del lavoro, aprendo la strada ad organizzazioni più flessibili, modulari e ubique del lavoro, citando Butera, meno assoggettate alla logica del presenzialismo e più orientate alla valorizzazione dell’eterogeneità di posizioni, competenze, expertise. Questa flessibilizzazione di orari, modalità e procedure di lavoro richiede ai lavoratori e alle lavoratrici di apprendere a governare l’inatteso, assumersi rischi e decisioni, essere disponibili a sperimentare soluzioni creative a problemi inediti e imprevedibili e di farlo in contesti che siano in grado di accogliere le crisi e l’incertezza come spinte verso l’innovazione.
Quali sono i principali metodi e pratiche di diversity e disability management nei workplace e nei servizi?
Nel volume propongo un’articolata rassegna di metodi e pratiche per il Diversity e Disability Management, con un approccio consulenziale alla gestione della diversità nei luoghi di lavoro. L’impostazione fortemente metodologica del libro costituisce un’opzione metodica coerente con l’obiettivo di fornire indicazioni operative e strumenti pratici per sostenere lo sviluppo e l’innovazione nelle aziende.
L’ancoraggio a riferimenti internazionali e ai percorsi di consulenza e ricerca condotti sul campo ha consentito di intercettare metodi e procedure con un taglio fortemente pratico che descrivo dettagliatamente nei capitoli a partire da esempi e casi reali. Cito, a questo proposito, la Consulenza Collaborativa Organizzativa che costituisce un primo possibile orientamento metodologico per l’analisi delle condizioni ambientali dell’inserimento professionale delle persone con disabilità, e per la costruzione di un percorso di sviluppo di carriera che sia condiviso, scientificamente fondato, funzionale alle esigenze di tutti gli attori in gioco (lavoratori, dirigenti, datori di lavoro). La Consulenza Collaborativa Organizzativa, in quanto protocollo di ricerca e consulenza, propone un setting di collaborazione in cui tutti gli attori possano posizionarsi all’interno di questa procedura e contribuire al suo successo. La constatazione che esistono già dei riferimenti normativi stingenti in materia di inserimento lavorativo, si veda il D.Lgs. 151/2015, ma che questi siano spesso inevasi, ci ha condotto a raccogliere e proporre approcci che partano dal basso, di tipo bottom-up, che agiscano in modo concreto sulla cultura delle singole realtà aziendali e sulle istituzioni di riferimento sul territorio. Solo attraverso percorsi strutturati di questo tipo è possibile individuare la soluzione in quel momento più sostenibile e percorribile per i lavoratori e per i datori di lavoro.
Nel libro propongo anche metodologie trasformative quali il Diversity Tool e l’approccio Nudge che, attraverso procedure spiegate step-by-step, costituiscono degli strumenti per aiutare i professionisti che abitano le organizzazioni a riflettere sulle culture organizzative, le teorie implicite, le norme tacite, spesso pregiudiziali, stereotipate, che – anche se non sono dichiarate apertamente – possono esprimersi nei comportamenti e nelle pratiche agite nei workplace.
Il primo step è validare quali sono le prospettive distorte, i ragionamenti precritici, i giudizi di valore e le routine disfunzionali che sono sedimentate nelle organizzazioni e che ostacolano la costruzione di schemi di azione e di pensiero inclusivi e aperti al cambiamento.
Alessandra Romano è Ricercatrice Senior di Didattica generale e Pedagogia speciale presso l’Università degli Studi di Siena. Ha pubblicato Metodi per l’apprendimento trasformativo (con Loretta Fabbri, Carocci, 2017). È autrice di più di ottanta contributi in riviste e volumi nazionali e internazionali.