“Disuguaglianze e istruzione in Italia. Dalla scuola primaria all’università” a cura di Giuseppe Pignataro e Andrea Gentili

Prof. Giuseppe Pignataro, Lei ha curato con Andrea Gentili l’edizione del libro Disuguaglianze e istruzione in Italia. Dalla scuola primaria all’università pubblicato da Carocci: che relazione esiste tra disuguaglianze e istruzione?
Disuguaglianze e istruzione in Italia. Dalla scuola primaria all'università, Giuseppe Pignataro, Andrea GentiliNumerose ricerche in ambito socioeconomico mostrano da tempo un forte legame tra disuguaglianza e livelli educativi. Un bambino di 4 anni cresciuto in una famiglia svantaggiata è esposto, in media, a tre milioni di parole in meno rispetto ad un suo omologo cresciuto in un contesto più agiato. Gli stimoli ai quali i bambini sono esposti variano in modo considerevole a seconda dell’ambiente familiare in cui si cresce e sono spesso irrecuperabili. Proprio in questi contesti si dipanano le prime fasi del percorso di vita, dalla presenza di servizi come gli asili agli stimoli che sviluppano le dotazioni naturali di cui i bimbi hanno necessità. I dati a nostra disposizione mostrano in maniera netta come i vantaggi legati alle appartenenze di classe continuino a perdurare negli anni influenzando le nuove generazioni e i loro rendimenti scolastici. Le stime rivelano come il titolo di studio dei genitori sia una delle principali determinanti nella scelta di proseguire gli studi universitari e come possa influenzare fortemente anche il tipo di percorso intrapreso. Inoltre, le privazioni culturali provenienti da condizionamenti monetari e geografici riducono gli incentivi all’apprendimento minimizzandone i vantaggi e creano una ulteriore spirale di disuguaglianza tra generazioni. In questo libro, cerchiamo di raccogliere spunti differenti con l’obiettivo di comprendere una tale relazione cosi complessa partendo dalla storia dell’istruzione in Italia e guardando all’attualità attraverso alcune proposte di giustizia sociale.

Quale importanza riveste l’istruzione per lo sviluppo economico e come motore della scala mobile sociale?
La scuola e l’università non sono solo luoghi di conoscenza, ma anche spazi di formazione delle coscienze. Credo che la trasmissione di valori e apprendimenti alle nuove generazioni sia uno degli elementi cardine dell’ascesa economica e sociale, soprattutto per i giovani provenienti da famiglie con uno status socioeconomico basso. Identificare però la scuola come il canale per far aumentare la mobilità sociale e rendere la nostra società più meritocratica, specialmente in un periodo di scarsa crescita economica, fornisce solo una risposta parziale alla comprensione del problema. Affinché i processi educativi siano la causa e non la semplice conseguenza di un ordine sociale è necessario che lo stato si preoccupi di assicurare a tutti le stesse condizioni iniziali. È necessario quindi parlare di uguaglianza delle opportunità, dei punti di partenza e non dei punti di arrivo. Non basta esser più veloci per vincere una competizione: occorre che i contendenti, nel momento in cui sono alla campana che dà il via, siano tutti allineati sulla stessa striscia di partenza. Altrimenti non sarà il più veloce a vincere ma quello che si trova in una posizione di vantaggio con meno handicap dei suoi concorrenti. L’istruzione quindi può essere in sé un grande ascensore sociale, purché però venga associato ad uno sviluppo economico sostenibile con la partecipazione di tutti. Lo dice l’articolo 34 della nostra costituzione: ‘La scuola è aperta a tutti‘. Il nostro compito come economisti sarebbe quello di rendere effettiva questa partecipazione proponendo soluzione credibili di politica economica che favoriscano la perequazione tra le classi sociali.

Quale ritardo ha accumulato il nostro Paese nella corsa all’accumulazione di conoscenza e competenze?
Il successo o meno di un Paese si misura da anni sulla base dei propri investimenti in capitale umano e sociale. L’economia del sapere e della conoscenza continua a crescere e diventerà sempre più una prerogativa di necessità nel futuro mondo globalizzato. Non potremo mai competere con le tigri asiatiche sulla riduzione dei costi di lavoro. Possiamo però fare la differenza sulla tecnologia e sulla innovazione. Allo stato attuale le informazioni a disposizione vedono l’Italia in una condizione di difficoltà rispetto agli altri paesi occidentali. Sono ad esempio più di 2 milioni i giovani italiani che hanno tra i 15 e i 29 anni e che appartengono alla categoria dei cosiddetti NEETs (Not in Education, Employment or Training), ovvero coloro che non studiano, non lavorano e non partecipano a progetti formativi. Siamo al primo posto per numero di NEETs in Europa e contemporaneamente siamo tra gli ultimi nell’investimento in istruzione. Se si considera ad esempio la quota del Prodotto Interno Lordo (PIL) destinata all’Università, questa si attesta a livelli molto bassi, pari all’1% del PIL, molto inferiori rispetto alla media Europea. Il divario tra tasso di disoccupazione totale e quello giovanile è tra i più alti tra i paesi europei. Ci troviamo quindi di fronte ad una serie di problematiche da affrontare. Il primo è sicuramente il tema del sottofinanziamento dell’istruzione. Ma non è l’unico. Il sistema educativo deve anche avere la capacità di affrontare le esigenze del mondo del lavoro. Le abilità richieste mescolano competenze tradizionali a tecnologie innovative, capacità artigianali associata a prospettive di mercato innovative. Sono lavori multidisciplinari che richiedono una maggiore interazione tra coloro che necessitano di determinate abilità e gli enti che dovrebbero valorizzare questi talenti. Riusciremo a recuperare il nostro gap se avremo la capacità di innestare un processo virtuoso che favorisca l’incontro tra talenti e posizioni aperte sulla base del merito.

Quali sono gli effetti sociali e politici di tale ritardo?
L’Italia è tra i paesi con la più bassa quota di laureati in Europa, pensate solo il 18% della popolazione adulta. Dopo la Grecia, il nostro paese ha anche la più bassa quota di spesa pubblica per istruzione, non più del 7% della spesa per servizi. Questo è il primo effetto sia esso sociale e politico di questo ritardo. Per fare un esempio più concreto, i dati della Banca d’Italia mostrano che un laureato proveniente da una famiglia di liberi professionisti o dirigenti guadagna in media circa 300 euro al mese in più di una laureato proveniente da una famiglia di operai. Siamo quindi di fronte ad una perdita di conoscenza che si ripercuote negli anni creando un blocco permanente di mobilità sociale. Nel libro argomentiamo più volte sull’idea che le società mobili siano caratterizzate da forti investimenti in educazione e bassi livelli di disuguaglianza. Ne sono un esempio i Paesi Scandinavi. Un secondo ritardo si può invece osservare tra le persone di età compresa tra i 25 e i 64 anni; il 40% ha solo una licenza elementare o media inferiore. La media europea non supera il 20%. Noi dovremo mitigare l’impatto di questi fattori il più precocemente possibile, tramite sostegni economici adeguati, misure differenziate e quasi individualizzate che compensino a scuola come in università i deficit cumulati.

Quali fattori hanno determinato il fallimento delle politiche scolastiche italiane?
Per comprendere i rischi che il fallimento delle politiche scolastiche creano in questo paese è sufficiente osservare qualche dato. Nell’Italia pre-covid, il MIUR stimava più di 23mila alunni a rischio dispersione nella secondaria di primo grado e più di 110mila per gli studenti di secondo grado. Non abbiamo ancora alcun dato ufficiale ma si ritiene che tale valore possa essere cresciuto del 50% nell’era post-covid. Come vedete, i numeri legati alla dispersione scolastica in Italia sono molto preoccupanti. Questo è il primo campanello di allarme ma non è l’unico. I dati PISA mostrano come un terzo degli studenti nella fascia 15/16 anni non raggiunge un livello di competenze sufficiente in almeno 3 materie quali lettura, matematica, scienze. Il risultato europeo è in netta controtendenza rispetto a quello italiano da almeno un decennio. Tra le cause, la scarsa continuità didattica caratterizzata dal perpetuarsi di un precariato decennale con frequenti cambi tra istituti. Questo aspetto rende frammentario lo sviluppo della conoscenza tra i giovani e gli incentivi a proseguire negli studi. Inoltre, il rapporto OCSE, Education at a glance 2020, mostra come gli stipendi dei docenti italiani continuino ad essere tra i più bassi in Europa. È innegabile che questo possa nel tempo determinare un cambiamento degli incentivi dei docenti a proseguire un lungo periodo di precariato in questa professione.

Quale rischio rappresenta per la democrazia il deficit di istruzione?
L’Italia non cresce ormai da decenni. I motivi sono tanti partendo dalla selezione della classe politica fino alle politiche di assistenza di dubbia efficacia. Bisognerebbe però ammettere che l’Italia non cresce anche e soprattutto perché si legge e si studia troppo poco. Questo aspetto coinvolge soprattutto i giovani. Le classifiche INVALSI parlano chiaro: più del 50% dei giovani al Sud si attesta ad un livello di performance scolastiche al di sotto della media nazionale, mentre la percentuale nazionale è nettamente più bassa di quella europea. Un paese che non legge e non studia è destinato ad impoverirsi ulteriormente e a diventare profondamente inegualitario. Un paese con scarsi investimenti in istruzione non potrà nel tempo ad esempio assicurare la sostenibilità del carico previdenziale delle vecchie generazioni, anche a causa del tasso di natalità quasi nullo. Questi sono solo alcuni dei rischi del non investire in istruzione. Senza il sapere, non c’è crescita e non può esserci sviluppo dell’economia. Finita la pandemia, ci ritroveremo con un debito pubblico al 160% del PIL con un deficit almeno del 10%. Esiste un solo modo per rendere questo debito sostenibile nel tempo, crescere grazie allo sviluppo tecnologico. Questa è la strada che hanno intrapreso tutti i paesi, nessuno escluso. Su questo, penso non si possa più scegliere, altrimenti lei ha ragione, è a rischio la tenuta democratica del nostro paese.

In che modo la disuguaglianza condiziona l’accesso all’istruzione universitaria?
La disuguaglianza condiziona in maniera evidente il percorso di studi. Se prendiamo in esame l’università, i dati a nostra disposizione mostrano come i tagli e le riforme degli ultimi vent’anni abbiano influenzato negativamente il percorso di studi dei meno abbienti. Gli importi delle tasse sono aumentati dal 10 al 20%, il Fondo di Finanziamento Ordinario del MIUR si è ridotto del 20% e il numero di idonei senza borsa di studio è cresciuto drammaticamente. Tutto questo è avvenuto solo negli ultimi 10 anni. Nel libro proponiamo un’analisi per l’Università di Bologna per cui lavoro. Il mio ateneo è stato negli anni estremamente attento alle tematiche distributive assicurando un numero di borse di studio superiore alla media italiana. Purtroppo, in Italia osserviamo come la selezione dei percorsi scolastici e il differenziale triennale/magistrale abbia creato un drammatico crollo della partecipazione per gli studenti che provengono da condizioni maggiormente disagiate. Secondo Euridice (2020), siamo tra i paesi europei con il livello di tassazione studentesca più elevata (anche se non altissima come in UK) e minore concessione di borse di studio. La prima cosa da fare sarebbe invertire questo trend fornendo le condizioni affinché l’Università possa essere accessibile a tutti. Su questo, rientra il tema del diritto allo studio.

A che punto è l’attuazione del diritto allo studio nel nostro Paese?
A livello previsionale, l’università sarà sempre meno accessibile se non accompagnata da un adeguato sostegno al diritto allo studio. La materia di finanziamento in ambito universitario è sostanzialmente disciplinata a partire dal 2012 prevedendo una quota premiale che in realtà ha coinvolto soprattutto le regioni del Nord più una parte regionale che sia almeno il 40% del totale stanziato. Per quanto riguarda le scuole, la normativa è molto meno uniforme spesso decentralizzata a livello regionale. Da economista, il primo problema che riscontro sull’efficacia del diritto allo studio è che manca un quadro chiaro di attribuzione delle competenze fra Stato e Regioni con un ovvio problema di differenziazione tra Nord e Sud Italia. Il sistema di sussidiarietà può funzionare una volta definiti i livelli essenziali delle prestazioni da garantire a livello nazionale. Senza la definizione corretta di questi contenuti, il sistema si svilupperà, come è avvenuto in questi anni, sulla base di virtuosità individuali dei singoli territori con le ovvie sperequazioni di cui abbiamo pocanzi discusso. Questa forma di federalismo motivazionale non può essere accettabile nei processi educativi. Noi abbiamo bisogno di chiare identificazioni delle prestazioni minime da garantire a tutti e un sufficiente finanziamento per mantenerle nel tempo. Su questo purtroppo siamo molto indietro.

Quali sfide pone al nostro Paese la quarta rivoluzione industriale?
La quarta rivoluzione industriale, ovvero il processo che porterà alla produzione industriale del tutto automatizzata è tutt’ora in una fase di incubazione in tutta Europa. I primi esempi del 4.0 si ritrovano solo in Germania (pochi in Francia), mentre l’Italia si trova ancora in una fase di implementazione. La robotica verrà utilizzata per interconnettere tra loro i macchinari di produzione con evidenti risultati sulla diagnostica e la manutenzione preventiva. La velocità e la qualità attesa dei prodotti dovrebbero nel giro di qualche anno superare l’intervento umano determinando potenzialmente cambiamenti radicali nel mercato del lavoro. Segnalo che questa fase di transizione è irreversibile. Noi possiamo decidere di rinunciarvi ma gli altri paesi non lo faranno. Il timore che questo possa creare ulteriori fonti di disagio per i nostri lavoratori è concreto. Possiamo essere pronti a questa nuova sfida? Possiamo se avremo la capacità di indurre qualificazione e specializzazione nella forza lavoro. Le rivoluzioni industriali del mondo occidentale dalla macchina a vapore alla meccanizzazione della produzione hanno aumentato il numero di lavoratori assunti, non lo hanno mai ridotto. Il timore che l’utilizzo della robotica possa spazzare via masse di lavoratori è errata, se sapremo garantire una corrispondenza tra sviluppo tecnologico e maturità digitale dei nostri lavoratori. Non c’è altra soluzione e questo è senza dubbio un compito da attribuire alle istituzioni scolastiche. Un primo esempio possiamo già osservarlo in questi mesi con i competence-center, cioè dei veri e propri centri di ricerca che avranno sede in alcuni atenei italiani, che hanno l’obiettivo di formare le competenze per l’industria 4.0 con applicazioni concrete sulle linee di produzione. Questa è la principale sfida che ci attende nei prossimi anni.

Quali interventi sarebbero necessari per colmare il gap d’istruzione del nostro Paese?
Formazione e lavoro sono le chiavi di volta del futuro del paese. Sulla base della nostra esperienza, non possiamo immaginare interventi separati per colmare il gap d’istruzione in Italia. Essi devono essere plurimi e vanno rivolti agli studenti, ai docenti e anche al mondo delle imprese. Il primo elemento anche se banale è l’ammontare dei fondi investiti in istruzione, ovviamente con una adeguata verifica delle condizioni di spesa e una precisa identificazione dei target da raggiungere. È necessario investire molto di più con l’obiettivo di assicurare nuove assunzioni, aumentare i salari, eliminare il precariato. Il secondo elemento è il potenziamento dei percorsi di formazione scolastica orientati alla ricerca industriale e all’innovazione. Le competenze sul campo richieste nel mercato del lavoro sono ormai variegate, non solo scientifiche ma anche umanistiche. Qualunque sia la disciplina di interesse, la scuola e l’università devono contribuire a renderla attenta alle esigenze future. Trasformare digitalmente la stessa organizzazione scolastica può contribuire in questa direzione. La strategia nazionale per le competenze digitali approvata il mese scorso va in questa direzione sebbene. Bisognerebbe inoltre introdurre una forma di premialità rilevante per le imprese che specializzano i propri dipendenti. Passando dal credito d’imposta agli incentivi alle assunzioni, le imprese hanno bisogno di sapere che investire in percorsi di formazione per la forza lavoro è necessario per affrontare la sfida mondiale e che lo Stato su questo è molto attento alle esigenze delle imprese. In questa direzione, una ulteriore semplificazione dei contratti di lavoro dopo il Jobs Act aiuterebbe a tutela dei lavoratori.

Giuseppe Pignataro è Professore Associato in Politica Economica presso il Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bologna. Si occupa da anni principalmente di tematiche inerenti alle misurazioni della disuguaglianza e gli effetti delle politiche pubbliche, l’analisi microeconomica dei mercati e i relativi problemi informativi. Insegna Economia della Disuguaglianza ed Economia Politica presso le Scuole di Economia e Scienze Politiche dell’Università di Bologna.

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