
di Paolo Zellini
Adelphi Edizioni
«Il passaggio dal continuo al discreto, cioè l’approssimazione delle equazioni della fisica matematica, in cui intervengono variabili continue, con un modello puramente aritmetico è realizzabile soprattutto grazie al calcolo matriciale. La costruzione di un modello aritmetico, consistente in un sistema di equazioni lineari, le cui incognite non sono più sotto il segno di derivazione o di integrazione, è la premessa indispensabile per ridurre il calcolo a operazioni elementari su stringhe di zeri e uni. Ma il termine «ridurre» non deve ingannare. Un modello matematico in grado di riassumere la dinamica di un fenomeno naturale (come l’equazione di Laplace per gli stati di equilibrio nella teoria del calore) deve potersi ridurre a un pulviscolo di operazioni elementari e a una pura informazione numerica. È sempre il numero, in particolare un ambito discreto di numeri, a dare la possibilità di ricondurre un modello matematico a una sorta di chiarimento e di quantificazione comprensibile. Tuttavia questa riduzione è possibile solamente per via di proprietà matematiche di speciali operatori, di cui le matrici sono l’esempio più semplice e diretto. L’algebra matriciale è lo strumento principale che collega le operazioni del calcolo differenziale e integrale alla computazione digitale. Non importa tanto la riduzione di per sé, quanto lo studio di questo strumento intermedio, tra il modello iniziale e l’ultima fase della computazione digitale, che la rende possibile. Sono per lo più le matrici a decidere, in ultima analisi, quali problemi possono essere risolti con un calcolo digitale automatico. […]
Ogni calcolo che si proponga di approssimare l’aritmetica dei numeri reali segue un processo di riempimento che va dal discreto a un continuo inconoscibile. Di solito noi siamo propensi a concepire il procedimento opposto (cioè una divisione del continuo), perché vorremmo, con un procedimento infinito in potenza, riempire lo spazio, e considerare i passaggi intermedi del riempimento come se ci fosse già chiaro in che cosa consiste quel plenum che è il punto ideale di arrivo del processo. […]
Ma il continuo è davvero qualcosa di cui dovremmo o potremmo disfarci? Sarebbe un grave errore pensarlo. Anche se inconoscibile, il continuo rimane un presupposto ineliminabile. […] Noi comprendiamo realmente solo i processi che si svolgono nel discreto, ma gli stessi processi sono pure guidati da «immagini incerte e confuse», per usare le parole di Dedekind, in cui il nostro pensiero si combina con qualcosa che non c’è, e che è pur necessario presupporre. […] Il continuo e l’infinito si sottraggono alla nostra effettiva capacità di comprensione, che può basarsi invece sull’intuizione del finito e del discreto, e forse, se seguiamo l’intero percorso della scienza del calcolo dell’ultimo secolo, neppure su quella.»