
Quale traiettoria seguì la produzione poetica montiana?
Per molti decenni la secca censura desanctisiana rivolta al “segretario dell’opinione dominante” ha condizionato le letture critiche di Vincenzo Monti: era una censura perfidamente geniale, per la sua densità icastica, eppure tanto, troppo semplificatoria. Anche gli importanti studi di Walter Binni (ricordo almeno Monti poeta del consenso, 1981), non si sono allontanati di molto, nella sostanza almeno, da questa prospettiva. Nell’ultimo ventennio la prospettiva critica invece è cambiata. Le complesse vicende della biografia letteraria e pubblica di Monti negli anni che vanno dalla rottura rivoluzionaria dell’Ottantanove alla fine dell’età napoleonica sono state rilette – ed io mi pongo su questa linea – evitando ogni pregiudiziale sguardo moralistico e invece confrontando la sua opera con le mutevoli circostanze politiche nelle quali si trovò ad agire e a scrivere. Da questo punto di vista seguire da vicino l’attività di Monti – il letterato forse più celebrato di questa stagione – si rivela davvero come un sorprendente “racconto” delle vicende tutt’altro che lineari e coerenti del partito “italico”: dalle speranze e dall’ottimismo durante la Repubblica Italiana guidata da Melzi d’Eril (quando Monti ricoprì la cattedra pavese di Eloquenza) fino alla stagione più dura, dopo l’istituzione del Regno, nel 1805, quando i margini di autonomia politica si fecero sempre più stretti, e Monti si trovò ad occupare il delicato ruolo di Poeta del Governo.
Quali vicende segnarono l’impegno letterario e politico di Giovanni Rasori?
Rettore “giacobino” all’Università di Pavia durante il Triennio Repubblicano, maestro di una generazione di giovani radicali (tra i quali Giovanni Gherardini, classicista non dogmatico e traduttore di opere di Madame de Staël e del Corso di letteratura drammatica di Schlegel), Rasori è uno scienziato di notevole spessore europeo, mai integrato con il potere, e voce sempre problematica anche sul versante del partito italico, negli anni napoleonici e durante la prima dominazione austriaca. Fu notoriamente amico di Foscolo, e con lui diresse un giornale davvero interessante, gli “Annali di Scienze e Lettere”. Della sua opera, che insiste su vari aspetti, appunto tra letteratura e scienza, mi è parso interessante seguire soprattutto la protesta quasi solitaria (in Italia) nei confronti della frammentazione del sapere in curricula accademici e in specializzazioni professionali, frammentazione imposta a suo dire dalla prassi produttiva della divisione del lavoro. Una polemica che appare certo in sintonia con alcune voci recenti e fin contemporanee della filosofia europea (da Ferguson a Lessing), interessate a riflettere, non in senso nostalgico, sulla fine dell’uomo “intero”; ma che coinvolge poco i giovani romantici del “Conciliatore”, rivista cui pure Rasori (in posizione minoritaria e isolata) collaborò fin dalla sua fondazione. Può sembrare sorprendente se si pensa che gli estensori di quel giornale rivendicavano, nel nome di un profondo rinnovamento culturale, proprio la loro partecipazione ad una più vasta sensibilità europea. È una delle contraddizioni, delle “disarmonie” sulle quali provo ad interrogarmi.
Quale fu l’impegno dei letterati in seguito alla nascita del nuovo Stato?
È una domanda alla quale non è facile rispondere. Perché non ha senso parlare in termini generale di “letterati”, e non esiste certo “il partito” della cultura. È noto però che in alcuni ambienti prevalse la delusione, che molti sentirono tradite le aspettative della stagione risorgimentale. Nel nuovo Stato qualcuno riconobbe subito (e polemicamente) una linea di continuità con le istituzioni e i gruppi dirigenti degli Stati preunitari e in particolare con il Piemonte sabaudo. Però è vero che si tentò presto – diciamo dopo la morte di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi, tra la fine anni Ottanta e l’inizio del nuovo decennio – di offrire un’immagine unificante della cultura “risorgimentale”, facendo prevalere gli aspetti meno divisivi e problematici. Nel mio libro ho potuto soltanto provare qualche affondo, qualche breve ricostruzione di questa operazione di revisione ideologica della storia recente. Esemplare mi è sembrato il caso della ricostruzione delle vicende del salotto milanese di Clara Maffei, che divenne (dopo la morte della contessa, nel 1886) una sorta di simbolo della parabola dell’unitarismo risorgimentale: prima mazziniano e radicale, nutrito di idealismi generosi e irrequieti, poi – grazie soprattutto alla regia di Carlo Tenca – maturo e “finalmente saggio”, monarchico e naturalmente sabaudo.
Quali forme assunse la narrazione antimilitarista, distopica e parodica di età risorgimentale?
Il discrimine che segna il punto di non ritorno è dato dalla Terza Guerra di Indipendenza, e in particolare dalle sconfitte di Lissa e Custoza (1866). Per la verità il dibattito era stato teso già all’indomani del decreto, firmato il 4 maggio 1861, con cui il Ministro della Guerra Manfredo Fanti aveva imposto la fine dell’Armata Sarda e la nascita del nuovo Esercito Italiano: il quale, notoriamente, si poneva in diretta continuità con il modello militare sabaudo. L’alternativa, piena di fascino per molti democratici, era invece offerta da Garibaldi e dalla sua milizia popolare volontaria. Il confronto, anche in Parlamento, era stato subito particolarmente duro; e dopo il Sessantasei, e le sue sconfitte, il dibattito riprese vigore. L’esercito regolare aveva fallito miseramente; e le uniche vittorie significative di quel conflitto erano state quelle garibaldine, a Bezzecca, per esempio. Pasquale Villari scrisse subito un intervento, apparso «Il Politecnico», che fece clamore, sintomatico fin dal titolo (Di chi è la colpa?). Per lui la colpa del disastro non era certo attribuibile a quei disgraziati soldati che erano caduti sul campo o in mare, ma stava interamente sulle spalle di un paese arretrato culturalmente e guidato da una classe dirigente impreparata e corrotta. Ma è interessante riflettere (ed è proprio questo il filo che ho provato a seguire nel mio libro) sul ruolo che il discorso letterario svolse a partire proprio dalle sconfitte del Sessantasei. Gli Scapigliati Farina e Tarchetti, già nell’autunno di quell’anno, appaiono pronti: il primo scrive un pamphlet (Tutti militi!), il secondo un romanzo (Una nobile follia), offrendo spunti anche molto radicali di polemica antimilitarista, nel loro opporsi al modello militare accentratore e autoritario adottato dallo Stato Italiano. Sembrò utile allora rispondere alla crisi di fiducia che colpiva l’esercito regio anche con gli strumenti della letteratura. Già nel 1867 il Ministro della Guerra nel secondo Gabinetto Ricasoli chiamò il sottotenente Edmondo De Amicis, rodato di fresco dall’esperienza della Terza Guerra di Indipendenza, alla direzione dell’«Italia militare». Su questo giornale uscirono i suoi primi Bozzetti militari, brevi racconti che offrono un’immagine altra dell’esercito: familiare, fatta di uomini (ufficiali e soldati semplici) generosamente pronti al sacrificio per difendere l’interesse comune, certamente popolare. Versi, e racconti segnano in gran numero anche le divergenti interpretazioni della Campagna dell’Agro Romano, e la battaglia di Mentana (novembre 1867). Ma l’episodio forse più sorprendente di “uso” del discorso letterario in questo ambito è offerto dall’uscita, nel 1872, da due racconti “lunghi”, concepiti e addirittura commissionati ad intraprendenti “soldati-scrittori” dal Ministero della Marina e da quello dell’Esercito. Il primo, Il racconto di un guardiano di spiaggia, riprende esplicitamente i modi della narrazione distopica proposti da George Chesney nella sua Battle of Dorking (1871), immaginando un’Italia sconfitta e sottomessa alla Francia per non aver voluto finanziare la riforma della Marina Militare. Il secondo, Il racconto di un guardiano di spiaggia, al contrario racconta di una guerra eroica, portata a termine vittoriosamente grazie alla coesione nazionale e ad un’ottima preparazione dell’esercito regio. Ci fu anche un’eco parlamentare, perché Alfonso La Marmora non gradì il racconto disfattista, e accusò il Ministro della Marina di allora, Augusto Riboty, di esserne l’ispiratore. Aveva ragione, naturalmente, ma il titolare del dicastero si schernì, offeso. Le recensioni sui giornali furono molte; il freddo e tecnico dibattito alla Camera (si discuteva allora proprio della riforma della Marina Militare) non avrebbe potuto risvegliare quelle passioni che la letteratura sembrava invece capace di sollecitare.
Duccio Tongiorgi, docente all’Università di Genova, si è occupato della cultura italiana dell’Illuminismo e dell’età napoleonica (Nelle grinfie della storia, 2003). Ha studiato gli insegnamenti letterari nell’Università del Settecento e contribuito a promuovere ricerche sui rapporti tra reti diplomatiche e espressione letteraria (Diplomazia e comunicazione letteraria nel secolo XVIII, 2017; La diplomatie des lettres au dix-huitième siècle, 2019). Si è occupato della letteratura del secolo decimonono, con studi tra l’altro manzoniani (Il mondo sottosopra, 2012), sulle antologie scolastiche (Solo scampo è ne’ classici, 2009) e di ambito risorgimentale (La vittoria macchiata, 2012). Di ambito novecentesco sono invece le sue indagini sul rapporto tra letteratura e industria, su Sinisgalli, Svevo e Bontempelli. Fa parte del Consiglio Scientifico della Società per gli Studi del Secolo XVIII. È tra i promotori del progetto M.E.T.A. – Metastasio’s Epistolary Texts Archive.