
Come afferma Riccardo Orestano nel suo Introduzione allo studio del diritto romano, «vi sono almeno cinque significati [di diritto romano] che non possono essere ricondotti ad unità», tutti ovviamente legati, sebbene in modo diverso, al Corpus iuris civilis. Il primo significato è quello di «diritto romano dei Romani», cioè il diritto romano che si formò dalle origini della città antica fino appunto alla compilazione di Giustiniano e che si potrebbe anche definire il «diritto romano puro», o Roman Roman law, come è stato nominato più di recente. Il secondo è quello di diritto romano come «tradizione romanistica», con riferimento alla recezione del Corpus iuris civilis nell’Europa medioevale e moderna. Il terzo significato intende il diritto romano come «diritto comune europeo», nel senso, dell’imponente nucleo di origine romana che i vari sistemi civilistici dell’Europa continentale condividono, ciò che i common lawyers sono soliti chiamare semplicemente civil law o Roman civil law; vi è poi il significato di diritto romano considerato in senso stretto come «Pandettistica» e, infine, l’ultimo significato: quello di scienza che studia il puro diritto romano, chiamata convenzionalmente «romanistica» o, più precisamente, «giusromanistica».
Sì, perché «i testi romani costituirono il fondamento normativo e, in buona parte, anche metodologico della nuova scienza giuridica, inizialmente di matrice bolognese, che s’irradiò in tempi rapidi in tutta Europa, costituendo parte essenziale di quel fenomeno spiccatamente europeo della rinascita del XII secolo. Sia che si guardi alle tecniche esegetiche dei glossatori, sia che si guardi alla grande stagione dei commentatori, caratterizzata da un approccio più marcatamente sistematico rispetto alle scuole precedenti, sia che si guardi, infine, allo studio del diritto praticato dalla corrente umanistica sviluppatasi nella prima età moderna, principale fonte e baricentro della scienza giuridica rimase sempre il diritto romano».
Giungiamo così alla ««terza vita del diritto romano» che si ebbe in Germania con Friederich Carl von Savigny e lo sviluppo della scuola storica, che rilanciò il diritto romano come il diritto civile in Germania, in opposizione ai tentativi di codificazione.» Tale reviviscenza «portò innanzitutto allo sviluppo della scienza pandettistica, impegnata in una definitiva sistemazione dogmatica e atemporale del diritto romano al fine di una sua applicazione pratica […] La Pandettistica, valicando i confini nazionali in virtù del suo indiscusso primato scientifico, non solo riportò l’interesse, in parte perduto, sul diritto romano in molti paesi dell’Europa continentale, ma soprattutto allargò in modo ampio e profondo il raggio dell’influenza del diritto romano in tutti i paesi dell’Est europeo.»
Fu tuttavia con l’entrata in vigore del Bürgerliches Gesetzbuch tedesco nel 1900 che «tramontò definitivamente l’idea di un utilizzo, seppur mediato, delle fonti romane come diritto positivo».
«Da quel momento – a parte la peculiare realtà di alcune esperienze ibride (mixed legal systems) quali il Sudafrica e la Scozia, dove si conservano tuttora parti del diritto romano e della sua tradizione come diritto positivo – l’interesse per lo studio del diritto romano, liberato dall’obbligo di servire il diritto privato moderno, fu visto nella sua storia».
È interessante l’analisi di quel che accade ancora nelle mixed legal systems, «dove, accanto al sistema di common law, la tradizione civilistica continentale conserva uno spazio significativo e dove quindi il diritto romano e i testi degli interpreti successivi costituiscono ancora una diretta fonte normativa. Così avviene nel Roman-Dutch law sudafricano (e di altri stati), che ha un ruolo non secondario in ampi settori del diritto privato, in cui il teorico o il pratico si possono trovare ad argomentare, e non potrebbero fare altrimenti, dal tenore di testi della compilazione giustinianea, passando senza soluzione di continuità a giuristi olandesi del XVII secolo, quali, per rimanere agli esempi più noti, Johannes Voet o Hugo Grotius o, ancora, all’autorità di Joseph Robert Pothier. Così avviene talvolta in Scozia, per ritornare all’ambito europeo, dove si attinge al diritto romano e alla dottrina romanistica come fonte normativa. Si prenda, fra gli esempi recenti, il caso Stronach’s executors v. Robertson, discusso in primo grado (Kirkwall Sheriff Court) e poi in appello presso il Court of Session (Inner House), circa i rimedi a disposizione del nudo proprietario (fear) rispetto all’incuria dannosa da parte del titolare del diritto di usufrutto (liferent). Gli organi giudicanti hanno affermato essere ancora in vigore come unico strumento a tutela del fiar in pendenza del liferent, la cautio fructuaria, forma di garanzia escogitata dal pretore, che consisteva in un impegno dell’usufruttuario alla conservazione della cosa secondo il criterio del vir bonus e alla sua restituzione al termine dell’usufrutto. Testi del Digesto in traduzione inglese, opinioni degli institutional writers del XVII e XVIII secolo e commenti alle Istituzioni di Giustiniano di romanisti contemporanei sono portati dalle parti e discussi ampiamente dalla corte.»
La caratteristica giurisprudenziale del modello romano, nel quale «le opinioni dei giuristi per la risoluzione dei casi concreti o le interpretazioni dell’ordinamento da loro offerte, proprio perché sovente formulate in assenza di regole normative espresse, avevano dimensioni spiccatamente creative e in modo non infrequente apparivano in contrasto fra loro (c.d. ius controversum)» le faceva infatti prevalere «le une sulle altre ora in virtù di un riconoscimento nella specifica sede processuale, ora in virtù di una loro approvazione e diffusione presso la maggioranza dei giuristi (ius receptum).»
Il tema è d’altra parte quanto mai attuale: «Negli ultimi decenni, il dibattito scientifico e culturale sull’idea di un diritto codificato europeo, la cui formazione è stata più volte sollecitata dal Parlamento europeo a partire dal 1989, ha fatto ripensare al diritto romano e, soprattutto, alla tradizione di matrice romanistica come a un naturale elemento di unificazione per un futuro diritto privato comune agli stati membri dell’Unione Europea. […] Nessuno ovviamente può pensare in modo credibile ad una odierna riproposizione, più o meno diretta, del diritto comune medioevale: alcuni studiosi volgono lo sguardo piuttosto allo ius commune come modello a cui l’Unione Europea deve ispirarsi per costruire il nuovo diritto comune europeo.»
Il testo si sviluppa così attraverso «percorsi che ruotano tutti intorno al tema della responsabilità e in una certa misura fra loro complementari, perché nel loro insieme capaci di dimostrare come questa operazione di conoscenza storica possa articolarsi con modalità e risultati differenti.» Si prende così in considerazione l’utilitas contrahentium, «criterio regolatore della responsabilità contrattuale» attraverso il quale «si potrà constatare una linea di continuità fra diritto romano, tradizione romanistica e diritti moderni, che la formulazione di cesure critiche o avverse prese di posizione del legislatore non sono state capaci di interrompere.»
O, con riferimento alla diligentia quam in suis, «la linea di una pretesa continuità palesa senza dubbio un certo grado di tensione, perché dietro l’apparente identità del dato linguistico si cela, in realtà, una parziale eterogenesi di significato: le peculiarità e le funzioni che la diligentia quam in suis aveva nel momento della sua invenzione romana, posteriormente, si sono, almeno in parte, trasformate, perdendo la primitiva matrice.»
«L’iniuria nell’illecito aquiliano costituisce» infine l’argomento del terzo ed ultimo itinerario, «dove la sua interpretazione offerta dai giuristi romani conosce, accanto al permanere di una linea di continuità, un consapevole e critico rifiuto nella modernità.»