
Quali disposizioni contiene la Carta delle Nazioni Unite riguardo all’uso della forza armata?
La Carta delle Nazioni Unite contiene due disposizioni fondamentali che riguardanti l’uso della forza armata. Da una parte gli Stati hanno l’obbligo di non ricorrere alla minaccia o all’uso della forza a contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi Stato o in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Dall’altro la Carta consente l’uso della legittima difesa, individuale e collettiva, in caso di attacco armato, La prassi ha sviluppato altre fattispecie, quali l’uso della forza autorizzato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Da precisare, quantunque non sia espressamente sancito nella Carta, che le rappresaglie armate sono vietate.
Come si articola il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite?
Il sistema di sicurezza collettiva fa capo al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite ed è rimasto in gran parte inattuato o, per meglio dire, è stato attuata in modo radicalmente diverso. Secondo l’originaria configurazione, una volta che il Consiglio di Sicurezza avesse determinato che si era verificata una minaccia della pace, una violazione della pace o un atto di aggressione, le Nazioni Unite sarebbero intervenute con i contingenti militari messi preventivamente a disposizione dagli Stati membri. Era prevista all’uopo la stipulazione di accordi ad hoc secondo gli artt. 43 e ss. Addirittura gli Stati avrebbero dovuto tenere a disposizione del Consiglio forze aree per operazioni di pronto intervento. Niente di tutto questo si è verificato. Attualmente le operazioni delle Nazioni Unite sono da qualificare delle operazioni di peacekeeping che hanno luogo secondo uno schema prefissato: il Consiglio incarica il Segretario Generale delle Nazioni Unite di reclutare una forza armata tra gli Stati membri, i quali mettono volontariamente a disposizione soldati e materiali. Le operazioni di peacekeeping operano ad es. come forza di interposizione in una guerra civile o per sorvegliare una tregua e sono caratterizzate dal consenso all’ingresso della Forza da parte dello Stato in cui operano, dall’imparzialità tra i contendenti e dal non uso della forza. Versioni recenti di queste operazioni hanno portato alla configurazione di forme di peacekeeping robusto, in cui la forza delle Nazioni Unite prende posizione tra i contendenti e ricorre all’uso della forza. Vere e proprie operazioni di peace-enforcement avvengono attualmente tramite una risoluzione in cui il Consiglio di Sicurezza autorizza gli Stati ad usare la forza armata. Ne costituisce un esempio la risoluzione 1973 (20111) con cui gli Stati furono autorizzati ad usare la forza a protezione della popolazione civile oggetto di intensi bombardamenti da parte del regime libico.
Cosa sancisce la Costituzione italiana riguardo l ’uso della forza armata?
La disposizione fondamentale è l’art. 11 Cost. che sancisce il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. La nostra Cost., che ricorda sul punto la terminologia usata nell’art. 1 del Patto Kellog Briand, non impedisce qualsiasi guerra, ma solo quella di aggressione. Resta consentita, ad es., una guerra in legittima difesa. Per questo si trovano nella nostra Cost. due disposizioni che disciplinano il ricorso alla guerra: l’art. 78, secondo cui le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari, e l’art. 97, 9° comma, secondo cui il Presidente della Repubblica dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere.
La Cost. non disciplina espressamente le fattispecie di ricorso alla forza armata tecnicamente non qualificabili come guerra. Soccorrono al riguardo le disposizioni di diritto internazionale consuetudinario immesse nel nostro ordinamento tramite l’art. 10, 1° comma Cost. e le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite cui è stata data esecuzione con la relativa legge di adattamento. Sarà pertanto vietata una rappresaglia armata, ma sarà consentito un uso della forza autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Occorre altresì temere presente la Legge 21 luglio 2016, n. 145, che disciplina le fattispecie di invio delle missioni all’estero al di fuori dei casi di cui agli artt. 78 e 87, 9° comma Cost.
Quali sono le fonti del diritto bellico?
Il diritto internazionale bellico ha natura essenzialmente consuetudinaria. Le numerose convenzioni che disciplinano la materia sono spesso dichiarative del diritto internazionale consuetudinario o si sono trasformate in diritto internazionale consuetudinario. Il diritto bellico è uno dei primi esempi di codificazione del diritto internazionale.
I primi strumenti di codificazione datano dalla metà del secolo XIX quando fu adottata la Dichiarazione di Parigi del 1856 sulla guerra marittima, che ha abolito la guerra di corsa e riveste tuttora un’importanza fondamentale per il blocco e il contrabbando di guerra. Successivamente, le due Conferenze della Pace dell’Aja del 1899 e 1907 adottarono un numero cospicuo di convenzioni. In particolare, la Conferenza della Pace del 1907 si concluse con l’adozione di 13 convenzioni, che disciplinano sia il diritto della guerra terrestre sia il diritto della guerra marittima. Dopo la I guerra mondiale, gli orrori causati dall’uso dei gas e l’apparizione di nuovi strumenti bellici furono d’impulso per l’adozione del Protocollo di Ginevra del 1925 sul divieto dell’uso di armi chimiche e batteriologiche e del processo verbale di Londra del 1936 sulla guerra sottomarina, che obbligava i sommergibili ad osservare le stesse regole delle navi di superficie.
Quanto alle regole di stretto diritto umanitario, aventi ad oggetto il trattamento delle vittime della violenza bellica, occorre ricordare le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949. La codificazione ulteriore include la Convenzione dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali e il II Protocollo alla Convenzione dell’Aja del 1954 (adottato nel 1999), i due Protocolli del 1977 addizionali alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 (il I Protocollo dedicato ai conflitti internazionali, il II Protocollo relativo ai conflitti interni), il III Protocollo addizionale relativo all’adozione di un emblema distintivo aggiuntivo (2005) e la Convenzione del 1981 sulla limitazione o il divieto di talune armi convenzionali. Tale Convenzione funge da quadro per l’applicazione dei tre originari Protocolli (dedicati, rispettivamente, alle schegge non localizzabili, alle mine, trappole e altri dispositivi e alle armi incendiarie) cui si sono aggiunti altri due protocolli: il quarto relativo alle armi laser accecanti (1995) e il quinto dedicato ai residui esplosivi della guerra (2003). È attualmente in discussione, nell’ambito della Conferenza del Disarmo, la questione delle armi autonome, ma non è ancora stato deciso se convenga concludere un sesto Protocollo alla Convenzione del 1981 oppure limitarsi all’adozione di una mera dichiarazione di principi. Il Protocollo relativo alle mine è stato oggetto di revisione nel 1996. Occorre aggiungere la Convenzione del 1993 sull’interdizione delle armi chimiche, che non è una pura convenzione di disarmo, ma è anche una convenzione di diritto umanitario, poiché non solo obbliga a non produrre armi chimiche, ma ne vieta anche l’uso. Anche la Convenzione di Ottawa del 1997 contiene norme di disarmo e di diritto umanitario, poiché vieta la fabbricazione e l’uso delle mine antiuomo. La Convenzione di Oslo sulle bombe a grappolo (cluster weapons), conclusa nel 2008, è entrata in vigore nel 2010. A differenza della Convenzione di Ottawa, che proibisce totalmente l’uso delle mine antipersona e ne impone la distruzione, quella di Oslo non stabilisce una proibizione totale. Essa infatti non si applica agli ordigni più perfezionati, che non possono essere considerati indiscriminati sotto il profilo del diritto umanitario. Hanno per oggetto la protezione dei fanciulli e la prescrizione di un’età minima per il reclutamento: la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 (art. 38) e il relativo Protocollo opzionale del 25 maggio 2000, nonché l’art. 3 della Convenzione OIL n. 182 del 17 giugno 1999.
Il personale delle Nazioni Unite, tranne che non sia impegnato direttamente nel conflitto nell’ambito di un’azione coercitiva, è salvaguardato mediante la Convenzione sulla sicurezza del personale delle Nazioni Unite e del personale associato del 15 dicembre 1994 e relativo Protocollo opzionale, aperto alla firma il 16 gennaio 2006.
Tranne la Dichiarazione dell’Aja del 1899 sul divieto di lanciare proiettili ed esplosivi dagli aerostati, chiaramente caduta in desuetudine, la guerra aerea non ha ancora trovato idonea codificazione. Una Commissione di Giuristi fu incaricata dalla Conferenza di Washington sugli armamenti di redigere regole in materia. La Commissione riuscì ad elaborare le Regole dell’Aja sulla guerra aerea (1923), ma queste non furono mai tradotte in regole giuridicamente vincolanti. Talune disposizioni del I Protocollo del 1977 si applicano anche alla guerra aerea (ad es., bombardamento di obiettivi terrestri).
Eventuali lacune nella disciplina dei conflitti armati possono essere colmate in virtù del processo di produzione giuridica operato dalla c.d. “clausola Martens”. Secondo tale clausola – inserita nel preambolo della IV Convenzione dell’Aja del 1907, nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, nel I Protocollo addizionale del 1977 e nel preambolo della Convenzione del 1981 – regole metagiuridiche, quali quelle derivanti dai principi d’umanità e dai dettami della coscienza pubblica, possono essere trasformate in principi giuridici. Infatti, la clausola stabilisce che, in attesa di una regolamentazione convenzionale più completa, le popolazioni e i belligeranti restano comunque “sotto l’impero dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni …, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica”. La clausola appartiene al diritto internazionale consuetudinario.
Tra le fonti del diritto bellico è da annoverare lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (1998), che contiene non solo norme processuali, ma anche sostanziali in materia di crimini internazionali (genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra: artt. 6-8). Alla Conferenza di Kampala (2010) è stato definito il crimine di aggressione (art. 8 bis), già previsto ma non definito dall’art. 5 dello Statuto. L’Assemblea degli Stati parti dello Statuto di Roma ha deciso l’attivazione della giurisdizione della Corte in materia di aggressione a partire dal 17 luglio 2018.
Quali principi comuni informano il diritto dei conflitti armati internazionali?
Nella manualistica vengono in genere elencati tre principi a fondamento del diritto dei conflitti armati: necessità, proporzionalità, umanità (con particolare riferimento al diritto internazionale umanitario). Meno sinteticamente, i principi che disciplinano il diritto dei conflitti armati possono essere indicati in relazione ai soggetti ed all’oggetto della violenza bellica.
Un primo principio riguarda i combattenti. Essi, purché siano combattenti legittimi, hanno diritto di partecipare alle ostilità, non possono essere puniti per gli atti di belligeranza compiuti, tranne che abbiano commesso un crimine di guerra, ed hanno diritto, qualora catturati, allo status di prigionieri di guerra. Vige in proposito il principio dell’eguaglianza dei belligeranti. Il legittimo combattente ha diritto allo status di prigioniero di guerra sia che combatta per l’aggressore sia che combatta per l’aggredito.
Altro principio fondamentale è quello di distinzione. Solo gli obiettivi militari possono essere oggetto di violenza bellica. I belligeranti devono sempre distinguere tra obiettivi militari e obiettivi civili, con la conseguenza che la popolazione e i beni di natura civile non possono essere oggetto di attacco armato.
Da ricordare inoltre che, secondo la Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868, scopo della violenza bellica è quello di porre il nemico fuori combattimento e non quello di renderne la morte inevitabile, Di qui una serie di limitazione quanto ai mezzi e metodi di combattimento, come, ad es, il divieto di impiegare mezzi e metodi di guerra capaci di provocare mali superflui o sofferenze inutili.
Quali differenze concernono la disciplina dei diversi scenari di guerra (terrestre, marittima e aerea)?
Le tre categorie di conflitti obbediscono a regole comuni, tanto che taluni manuali militari nazionali (ad es. quelli della Germania e del Regno Unito) contengono regole di base identiche e poi una disciplina specifica per la guerra marittima e quella aerea. Le differenze tra i tre tipi di conflitti derivano essenzialmente dai mezzi impiegati e dall’ambiente in cui si svolgono le ostilità. Nella guerra terreste, ai fini della partecipazione alle ostilità, viene in considerazione il combattente legittimo. che deve essere in possesso di determinati requisiti. In quella marittima viene in considerazione essenzialmente la nave: solo le navi da guerra possono partecipare alle ostilità, non quelle mercantili. Regola applicabile anche alla guerra aerea. La disciplina è diversa anche in altri settori. Ad es. una nave da guerra del belligerante può trovare rifugio in un porto neutrale per un limitato periodo di tempo (regola delle 24 ore), mentre un contingente imitare che trovi rifugio in uno Stato neutrale deve essere internato. La regola delle 24 ore non è applicabile alla guerra aerea.
Quali garanzie prevede il diritto bellico?
Il diritto dei conflitti armati ammette che il belligerante possa comminare una rappresaglia contro l’avversario che abbia commesso una violazione del diritto bellico nei suoi confronti (c.d. rappresaglia bellica). Non possono, però, essere oggetto di rappresaglia taluni beni particolarmente tutelati dal diritto bellico (ad es. i prigionieri di guerra o la popolazione civile). Il I Protocollo addizionale ha esteso il divieto di rappresaglia: in pratica queste sono ammesse solo nel campo di battaglia.
Una violazione particolarmente grave delle regole di diritto umanitario costituisce un crimine di guerra, la cui repressione può essere esercitata dai tribunali del belligerante nemico, ma anche dai tribunali di altri Stati in base al principio dell’universalità della giurisdizione. Inoltre, i tribunali penali internazionali possono avere giurisdizione in materia, a cominciare dalla Corte penale internazionale
L’applicazione del diritto internazionale umanitario da parte dei belligeranti dovrebbe avvenire con il concorso delle Potenze protettrici. Queste sono Stati neutrali designati dai belligeranti. Il processo di messa in moto del meccanismo è triangolare: il belligerante designa come Potenza protettrice uno Stato neutrale, che potrà svolgere le sue funzioni nel territorio del belligerante nemico (ad es. visita ai campi dei prigionieri di guerra) solo dopo che questi ne abbia accettato la designazione. La prassi attesta come il meccanismo delle Potenze protettrici raramente funziona: spesso, in caso di conflitto generalizzato, è difficile trovare uno Stato che possa o voglia svolgere le funzioni di Potenza protettrice oppure vi sono motivi costituzionali interni che sconsigliano la designazione di una Potenza protettrice, poiché si ammetterebbe implicitamente che si versa in uno stato di guerra. In mancanza della designazione delle Potenze protettrici, le funzioni di controllo sull’applicazione del diritto umanitario dovrebbero essere affidate ad un sostituto imparziale, quale il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Di regola, è questa organizzazione che si attiva presso le parti in conflitto.
Da ricordare inoltre che il belligerante che abbia commesso una violazione del diritto dei conflitti armati è tenuto a risarcire il danno. Tale regola, azionabile da parte degli Stati, lo è difficilmente da parte dell’individuo danneggiato a causa del principio dell’immunità dalla giurisdizione degli Stati esteri. In materia di esenzione dalla giurisdizione, la nostra Corte di Cassazione ha preso posizione a favore dell’individuo danneggiato.
Come è regolamentata la neutralità, sia permanente in tempo di pace che nella guerra?
Gli Stati che non prendono parte al conflitto armato vengono definiti neutrali. La neutralità è una condotta volontaria, nel senso che uno Stato, di fronte ad un conflitto armato, può decidere di mantenersi neutrale oppure intervenire nel conflitto a fianco dell’uno o dell’altro belligerante. Qualora un soggetto di diritto internazionale abbia lo status di neutralità permanente in tempo di pace, è obbligato a restare neutrale in tempo di guerra, pena la commissione di un illecito internazionale. Tra l’altro la neutralità in tempo di pace impone al soggetto neutrale l’obbligo di non stipulare alleanze militari di natura reciproca e di non ospitare basi militari straniere nel suo territorio. Il neutrale ha tre doveri fondamentali: prevenzione, astensione e imparzialità. In particolare, il neutrale deve impedire che il suo territorio sia impiegato per attività ostili dei belligeranti; deve astenersi dall’aiutare l’uno o l’altro belligerante; non può favorire un belligerante a scapito dell’altro (ad es., se impedisce il commercio privato di materiale bellico, deve proibirlo nei confronti dei due belligeranti). Il diritto della neutralità trova la propria fonte, per quanto riguarda la guerra marittima, nella Dichiarazione di Parigi del 1856 e nella XIII Convenzione dell’Aja del 1907; per quanto riguarda la guerra terrestre, nella V Convenzione dell’Aja del 1907. Le Regole dell’Aja del 1923 avrebbero dovuto disciplinare la neutralità nella guerra aerea, ma queste sono rimaste, come si è detto, allo stato di codificazione privata. La neutralità classica ha subito una profonda trasformazione con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, che ha limitato il diritto dei belligeranti di pretendere il rispetto dei doveri connessi alla neutralità e di interferire con le attività dei neutrali. Qualora il Consiglio di sicurezza abbia dichiarato uno Stato aggressore, i tre doveri connessi al diritto di neutralità sono attenuati o addirittura scompaiono.
Come vengono disciplinati i conflitti armati non internazionali?
La disciplina dei conflitti armati non internazionali è relativamente recente. I due strumenti principali sono l’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e il II Protocollo addizionale del 1977. Prima della codificazione del 1949, la guerra civile era considerata una questione che rientrava nel dominio riservato degli Stati.
Presupposto per l’applicazione del diritto umanitario relativo ai conflitti armati non internazionali, è l’esistenza di un “conflitto armato”. L’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra non definisce la soglia del conflitto, al contrario dell’art. 1 del II Protocollo addizionale. Questa seconda disposizione definisce la soglia del conflitto armato in termini positivi e in termini negativi: affinché il II Protocollo possa trovare applicazione, deve sussistere, all’interno dello Stato, un conflitto tra le forze armate del governo legittimo e le forze armate dissidenti oppure tra le forze armate del governo legittimo e gruppi armati organizzati posti sotto comando responsabile, purché esercitino un controllo del territorio, tale da consentire loro di condurre delle operazioni militari continue e concertate e di applicare il II Protocollo. In breve, il II Protocollo trova applicazione quando la guerra civile abbia raggiunto un’intensità tale da essere equiparata ad uno scontro tra due eserciti convenzionali. Il II Protocollo non si applica, come precisa l’art. 1, alle situazioni di tensioni e di disordini interni, come sommosse, atti isolati e sporadici di violenza. La soglia dell’art. 3 comune è inferiore a quella stabilita dal II Protocollo, quantunque, al pari di questo, l’art. 3 non trovi applicazione nelle situazioni di semplici tensioni e disordini interni. Qualora non sia applicato l’art. 3, il governo al potere dovrà comunque applicare gli strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo, di cui sia parte.
L’art. 3 prevede uno standard minimo di trattamento umanitario, ma insorti e governo legittimo sono abilitati a concludere “accordi speciali” per la messa in vigore, in tutto o in parte, delle altre disposizioni contenute nelle quattro Convenzioni. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, o altro ente umanitario imparziale, può aiutare le parti a concludere tali accordi. L’art. 3 stabilisce l’obbligo di trattare con umanità, e senza discriminazioni fondate sulla razza, il colore, la religione o il credo, il sesso, la nascita, il censo o altro criterio analogo, coloro che non partecipano direttamente alle ostilità, incluse le persone che abbiano deposto le armi o siano state messe fuori combattimento. È fatto obbligo di raccogliere e curare i feriti e i malati. È vietata la cattura di ostaggi ed una serie di atti inumani, quali le mutilazioni, i trattamenti crudeli e la tortura.
La ribellione è un crimine nei confronti dello Stato e di regola viene perseguita. Ne segue che i ribelli non possono essere considerati come legittimi belligeranti e non hanno diritto al trattamento di prigionieri di guerra, tranne che non sia intervenuto riconoscimento di belligeranza da parte del governo legittimo. Essi possono quindi essere processati e condannati anche alla pena capitale. Ma la condanna, secondo quanto dispone l’art. 3, deve essere il risultato di un giudizio pronunciato da “un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili”. L’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra è considerato come dichiarativo del diritto internazionale consuetudinario.
Il II Protocollo costituisce un’espansione dell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra. Talune delle norme del II Protocollo ricalcano, seppure in maniera ridotta, quelle del I Protocollo relativo ai conflitti armati internazionali. Di particolare importanza sono le norme poste a tutela della popolazione civile. Popolazione civile ed individui ad essa appartenenti hanno diritto ad una protezione generale contro gli effetti delle ostilità. A questo fine è stabilita una serie di divieti: la proibizione degli attacchi contro la popolazione civile e gli individui ad essa appartenenti, il divieto di affamare i civili, il divieto di attaccare opere o installazioni che contengono forze pericolose e la proibizione dei trasferimenti forzati della popolazione civile. La natura consuetudinaria di buona parte delle disposizioni del II Protocollo è stata riconosciuta dal Tribunale per la ex-Iugoslavia. Anche gli Stati Uniti, che non hanno ratificato il II Protocollo, ne riconoscono, in linea di principio, la natura consuetudinaria.
Il II Protocollo, pur costituendo un’espansione dell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, ribadisce il principio secondo cui gli insorti non sono legittimi combattenti. Essi possono essere puniti dal governo legittimo per gli atti compiuti. La pena capitale non è esclusa. Tra l’altro, il II Protocollo non impone un preciso obbligo di accordare, al termine delle ostilità, una generale amnistia nei confronti degli insorti, ma stabilisce solo un generico impegno (art. 6, par. 5).
È da precisare che le violazioni gravi delle regole dei conflitti armati interni sono ora assimilate a crimini internazionali.