
Nel passato tali conflitti erano risolti attraverso accordi presi dal potere religioso e quello civile, che concordavano le soluzioni e poi le imponevano ai loro sudditi. Questo schema non può più funzionare, e quindi la relazione fra diritto e religione si svolge in termini plurali che sfidano a trovare soluzioni nuove. Nel mio libro cerco di mettere in luce alcuni aspetti problematici e provo ad offrire delle prospettive. Non ho la pretesa di conoscere le risposte, ma ho l’ambizione di sollevare questioni che non possono essere silenziate come se fossero state già risolte.
Quale importanza riconosce la nostra Costituzione al fenomeno religioso?
La Costituzione italiana è storicamente figlia di un conflitto anche religioso. Lo schema semplificato dello scontro fra cattolici e comunisti aiuta a capire in che modo si sia sviluppata la risposta costituzionale, che supera l’ambito degli articoli che presentano un riferimento esplicito alla religione. È vero che ci sono quattro articoli esplicitamente connessi al fenomeno religioso, ma a distanza di settant’anni è necessario interpretare lo spirito costituzionale superando i limiti di questi quattro articoli. Mi spiego meglio. L’art. 7 riflette e cerca di comporre il conflitto fra lo Stato e la Chiesa cattolica, e quindi tocca esplicitamente il fattore religioso; l’art. 8 supera la precedente distinzione fra Chiesa cattolica e altre religioni, e a sua volta interviene sul fattore religioso; l’art. 19 consacra la libertà religiosa individuale come principio costituzionale e l’art. 20 tocca la libertà religiosa collettiva, vietando le discriminazioni che nel passato erano state sviluppate contro gli enti ecclesiastici. E questi sono i quattro articoli che coinvolgono apertamente il fenomeno religioso. Non si può però negare che c’è un riferimento ai valori religiosi in molti altri articoli. Per restare ai soli “Principi fondamentali”, vediamo ad esempio che il riferimento all’Italia quale «Repubblica democratica fondata sul lavoro» esprime una tensione etica riferita al lavoro come base della dignità umana, e non quale sola espressione di uno strumento di sostentamento. L’art. 4 conferma questa interpretazione, in quanto se da un lato ribadisce la garanzia del «diritto al lavoro», da un altro lato dichiara che ogni cittadino ha il «dovere di svolgere un’attività» che «concorra al progresso materiale e spirituale della società». Come si vede, la Costituzione esprime una dimensione esplicitamente spirituale, che non è direttamente connessa alla forma religiosa intesa in senso tradizionale.
C’è molto fattore religioso anche nel riconoscimento dei diritti individuali – all’epoca il concetto di «diritti umani» non aveva ancora lo sviluppo che ha adesso – come diritti che non nascono dalla legge statale, in quanto preesistono allo Stato, così come nel riconoscimento della dignità sociale senza distinzione alcuna. Del resto, sappiamo bene che la laicità costituisce uno dei caratteri propri dello Stato contemporaneo. Si tratta di un fondamento costituzionale, che però non leggiamo nella Costituzione. Questo significa che la Costituzione esprime laicità senza avere bisogno di trovare una formula esplicitamente dedicata. A me sembra che questo è un ulteriore indice dell’importanza attribuita al fattore religioso nella vita sociale, che la Costituzione non poteva non tenere in considerazione.
Quali caratteri assume la libertà religiosa individuale?
La libertà religiosa individuale è concepita come una libertà fondamentale, da cui nascono diritti individuali molto chiaramente espressi nell’art. 19 della Costituzione, che è anche l’unico articolo che consacra diritti per «tutti» e non solo per i cittadini, come avviene per gli altri diritti di libertà. Come ho detto, all’epoca la categoria dei «diritti umani» non era ancora consolidata, tuttavia il riferimento a «tutti» rende l’idea di come i diritti di libertà religiosa fossero già concepiti come «diritti umani» in grado di costituire dei doveri persino in capo allo Stato. La norma costituzionale compone anche una specie di paradigma applicativo dei diritti di libertà religiosa, che schematicamente possiamo distinguere in tre gruppi. Il primo riguarda la «libertà di professare la fede», che non significa solo di poterla dichiarare pubblicamente, ma più in generale di potersi comportare secondo quanto previsto dalle regole religiose di riferimento. Anzi, per la verità, la legge protegge il diritto di non rivelare la propria fede, proprio per evitare che la conoscenza di questo dato possa essere strumentalmente utilizzata in termini discriminatori; com’è avvenuto purtroppo e come tuttora avviene. In pratica questo diritto obbliga lo Stato a facilitare l’espressione della fede personale, anche nelle forme associate. Questa precisazione è importante, in quanto la fede si esercita principalmente in forme collettive, che altro non sono che una declinazione associata della libertà individuale.
Il secondo gruppo riguarda i diritti connessi alla «propaganda religiosa», che coinvolge anche il proselitismo. Esiste insomma una tutela costituzionale della trasmissione delle notizie di carattere religioso più forte delle altre forme di pubblicità, che ovviamente di base comprendono anche l’espressione religiosa.
Infine il terzo gruppo coinvolge la «libertà di culto», ossia garantisce lo svolgimento delle pratiche religiose intese nella loro più tipica forma esteriore: quella rituale. Questa libertà comprende anche il diritto di disporre di spazi idonei al culto, e quando si trattasse di edifici, la legge ammette che vengano costruiti con un sostegno economico pubblico. Insomma, lo Stato assume il compito di promuovere la risposta anche ai bisogni religiosi.
In cosa si concreta la libertà religiosa collettiva?
In senso tecnico la libertà religiosa collettiva va distinta dall’esercizio della libertà religiosa individuale in forma associata, di cui ho appena detto. Si parla di «libertà religiosa collettiva» nel caso dei diritti di libertà dei soggetti giuridici collettivi, che nel linguaggio comune chiamiamo «enti», o «associazioni» o magari «religioni», considerate nella loro veste istituzionale. La libertà religiosa collettiva riguarda pertanto la libertà religiosa della Chiesa cattolica, come delle altre religioni, che la Costituzione italiana chiama «confessioni religiose» (un’espressione tecnica non molto chiara, per la verità). In primo luogo, questi soggetti godono di una «libertà religiosa uguale», nel senso che sono tutti liberi allo stesso modo, anche se in concreto possono ricevere un trattamento giuridico diverso, giustificato dal fatto che la libertà non comporta un’uguaglianza formale, ma sostanziale. Vuol dire che le «confessioni religiose» non sono uguali – e questo è un dato sociale ineludibile – perciò non richiedono tutte le medesime regole di riferimento, ma in ogni caso lo Stato deve assicurarne la libertà. E questo è il primo punto concreto. Un secondo punto si realizza nel principio di «autonomia confessionale», che impedisce allo Stato di interferire nell’organizzazione dei soggetti religiosi, che sono liberi di darsi uno statuto senza dovere rispettare eventuali regole prestabilite dallo Stato. In concreto questo significa che lo Stato non può, ad esempio, obbligare una confessione religiosa ad essere democratica o a non discriminare in ordine al genere. Infine, lo Stato si autolimita obbligandosi a regolare i rapporti con questi soggetti solo attraverso una legge speciale, preceduta da un’intesa con le confessioni religiose. In questo senso sussiste una garanzia parlamentare che sottrae alla responsabilità del solo governo la politica ecclesiastica («politica ecclesiastica» significa con tutte le organizzazioni religiose, non solo la Chiesa cattolica, anche se «ecclesiastico» rinvia intuitivamente alla sola Chiesa cattolica).
Quali limiti incontra la libertà religiosa?
Questa è una bella domanda. In genere si rispondeva che per sua natura la libertà religiosa era illimitabile, proprio perché riguarda la coscienza personale: tocca cioè un ambito in cui lo Stato e la legge non possono entrare. All’inizio del secolo scorso si sarebbe risposto con un sorriso, osservando che pensare che la legge possa limitare la coscienza sarebbe come supporre che la legge possa intervenire sulla circolazione del sangue nelle vene (Ruffini). La Costituzione sembra seguire questa impostazione, in quanto pone un solo limite alla sola libertà di culto, vietando solo i «riti contrari al buon costume»: di conseguenza tutte le altre espressioni della libertà religiosa sarebbero prive di limiti. Tale concezione è figlia dell’idea originaria della libertà religiosa come libertà di essere se stessi nel più intimo del proprio essere, pertanto lasciando fuori ogni ingerenza statale. Tuttavia questa concezione è in parte stata rivista dalle norme di diritto internazionale – che valgono anche in Italia – e che ammettono che la libertà religiosa possa essere limitata, ma solo dalla legge e solo per motivi eccezionalissimi: «per la tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico e della sanità pubblica, della morale pubblica o degli altrui diritti e libertà fondamentali». Questo elenco pone una serie di problemi interpretativi, che adesso non possono essere approfonditi, e che comunque danno l’idea della sostanziale illimitabilità della libertà religiosa, che può essere legittima solo in casi eccezionali.
In questi giorni ci stiamo misurando proprio con una delle situazioni eccezionali che hanno provocato una lesione della libertà religiosa, sia individuale che collettiva, giustificata dalle misure di distanziamento sociale necessarie per contenere il contagio del coronavirus Sars-CoV-2. La formula che ho riportato va vista con molta attenzione, in quanto lascia un’area molto larga alla limitazione della libertà a quegli Stati che volessero ad esempio promuovere un’unicità religiosa, tacciando altre religioni di contrarietà alla «morale pubblica». Anche il bilanciamento fra diritti di libertà religiosa ed altri diritti di libertà costituisce un’operazione molto delicata, direi da fare con grande cura. Questa larghezza è dovuta al fatto che la norma internazionale vale per tutti i Paesi del mondo, molti dei quali non avrebbero accettato una formula meno discrezionale. In ogni caso, direi che in Italia la limitazione non solo è eccezionale, ma anche sufficientemente ben delineata: ad esempio, la legge penale supera eventuali diritti religiosamente qualificati nel senso che non si può commettere un reato dicendo che si sta adempiendo ad una prescrizione religiosa, ma per il resto la libertà religiosa è piuttosto essa stessa un limite al potere legislativo che non il contrario.
Come si articola, nel nostro Paese, il sistema dei rapporti fra Stato e confessioni religiose?
In Italia paghiamo un debito storico specialissimo, che ci rende unici al mondo, dato che Roma non è solo la capitale dello Stato, ma il centro della cristianità. Questa condizione di fatto supera le altre contingenze storiche e giustifica la specialità di un sistema che vede la Chiesa cattolica in una posizione unica rispetto alle altre confessioni religiose. Com’è noto, l’art. 7 della Costituzione legittima e in un certo senso «costituzionalizza» i Patti Lateranensi del 1929, dando forza sia al Trattato che – fra l’altro – ha istituito lo Stato della Città del Vaticano, sia al Concordato, che è uno strumento giuridico esattamente destinato a regolare i rapporti fra la Chiesa cattolica e gli Stati. Il Concordato del 1929 è stato sostituito nel 1984 con l’Accordo di Villa Madama: perciò adesso i rapporti fra l’Italia e la Chiesa cattolica sono regolati da questo Accordo.
Come anticipato poco sopra, i rapporti con le «confessioni religiose diverse dalla cattolica» possono essere regolati per legge sulla base di intese. Questa possibilità si è realizzata solo a partire dal 1984, e col tempo diverse confessioni religiose hanno stipulato un’intesa che è stata poi approvata con legge. Non è stato sempre facile, ma in ogni caso oggi ci sono leggi sulla base di intesa con la Comunità ebraica, diverse altre Chiese e denominazioni cristiane, la Federazione induista e quella buddista. I Testimoni di Geova hanno stipulato un’intesa che il Parlamento non ha approvato e la Chiesa anglicana è in attesa dell’approvazione dell’intesa sottoscritta pochi mesi fa.
Tutte le altre confessioni religiose sono tuttora sotto la disciplina della legge fascista del 1929, chiamata «legge sui culti ammessi»: questa aporia andrebbe sanata al più presto, ma la classe politica non sembra esserne preoccupata, anche se costringe molte persone a non avere la protezione giuridica necessaria.
Questa condizione pesa in modo speciale sui musulmani, rispetto ai quali si è seguita una linea di confronto diversa da quella stabilita dalla Costituzione, dando luogo ad una vera e propria «eccezione islamica». In un certo senso, lo Stato sembra non fidarsi degli islamici e cerca di convincerli a darsi una struttura unitaria come primo passo per avviare le trattative. Questa proposta politica è contraria all’autonomia costituzionale, ma lo Stato persiste, probabilmente perché l’Islam presenta caratteristiche diverse dalle altre religioni presenti in Italia, e non è immediatamente assimilabile al modello giudaico-cristiano: basti pensare all’assenza di clero.
In definitiva, il sistema assomiglia ad un «cantiere senza progetto» che ricorda la metafora del calcio: in serie A la Chiesa cattolica, in serie B le confessioni religiose con intesa approvata per legge; in serie C quelle con intese, ma senza legge; in serie D tutte le altre, paradossalmente ancora disciplinate dalla legge del 1929.
In una società sempre più globalizzata e multiculturale, quale futuro per il diritto ecclesiastico?
Il cuore del diritto ecclesiastico sta nell’attenzione alla disciplina giuridica del fenomeno religioso inteso in senso lato, vale a dire la cura della dignità umana e l’attenzione per prevenire e punire le discriminazioni, che sono un’offesa alla dignità umana. Da questo punto di vista il futuro propone incognite esponenzialmente sempre più problematiche, che potranno giovarsi delle riflessioni sviluppate dai cultori del diritto ecclesiastico, che da sempre sono stati coinvolti nella gestione dei conflitti determinati dal diritto alla diversità, che appunto si moltiplica nelle società sempre più globalizzate e multiculturali. La «superdiversità» è una costante che non spaventa il diritto ecclesiastico, nella misura in cui sia capace di cavalcare le prospettive che il futuro prospetta. In altre parole, si potrebbe dire che il diritto ecclesiastico si presenta come una disciplina sempre più utile per governare le sfide del futuro.
Pierluigi Consorti è professore ordinario presso l’Università di Pisa, dove ha diretto il “Centro interdisciplinare Scienze per la pace”. È stato Presidente del Comitato per la Difesa civile non armata e nonviolenta (presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e ora presiede l’Associazione dei docenti universitari italiani della disciplina giuridica del fenomeno religioso. Fra i suoi libri: La difesa della Patria. Con e senza armi (2010, con F. Dal Canto); Conflitti, mediazione e diritto interculturale (2013), Diritto del Terzo settore (2018, con L. Gori ed E. Rossi).