“Diritto e gestione del patrimonio culturale” di Antonio Leo Tarasco

Prof. Antonio Leo Tarasco, Lei è autore del libro Diritto e gestione del patrimonio culturale edito da Laterza: quali problemi pone il finanziamento del settore museale?
Diritto e gestione del patrimonio culturale, Antonio Leo TarascoIl settore museale non dovrebbe solo porre problemi di “finanziamento passivo” ma anche di “finanziamento attivo”. Anche se la communis opinio ritiene che il patrimonio culturale ponga esclusivamente problemi di ricerca di fonti di sostentamento, è vero (anche) il contrario: esso costituisce una risorsa (ad un tempo) culturale ed economica per l’intero patrimonio culturale e che bisogna imparare a gestire. In Italia, purtroppo, ogni energia è diretta a spendere il denaro pubblico per gestire i beni culturali e non anche alla loro valorizzazione economica. Ciò comporta il fatto che è considerato bravo il dirigente o il politico di turno che, rispettivamente, sappiano spendere o ricercare ulteriori finanziamenti da destinare al settore. Ma in questo modo si dimentica la componente economica del patrimonio culturale e si viola anche la Costituzione che impone a tutte “le pubbliche amministrazioni”, nessuna esclusa, di “assicura[re] l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico” (art. 97 Cost.). Dunque, il patrimonio culturale va certamente sostenuto ma la sua gestione deve anche fornire un contributo al sostegno della finanza generale: non può diventare, come è purtroppo diventato, un buco nero che assorbe solo risorse finanziarie. Questo non è affatto imposto dall’art. 9 Cost. che, infatti, va letto unitamente all’art. 97 Cost.

In che modo è possibile incrementare la capacità di automantenimento e la redditività del settore museale?
Le modalità sono molteplici e la loro realizzazione concreta dipende dall’opzione strategica che, in sede politica, si intende adottare. Innanzitutto bisogna chiarire che si può agire sul lato delle entrate o sul lato della spesa. Agire sulle spese, comprimendole senza incidere sulla tutela e la fruizione pubblica, significa dimostrare consapevolezza del fatto che anche il settore culturale è chiamato a fornire il proprio contributo al rispetto all’equilibrio dei bilanci e alla tenuta dei conti, al pari della sanità, dell’università o degli enti locali, ad esempio.

Sotto questo aspetto, basti pensare che solo nel 2017, il 68% dei visitatori dei siti statali si è diretto verso il 2,28% dei musei e delle aree archeologiche con la conseguenza che il 61,03% degli incassi totali da biglietteria sono stati generati solo dall’1% dei siti statali: quindi, sia sotto il profilo economico che culturale, il rendimento del 98-99 per cento di musei ed aree archeologiche statali è bassissimo sotto ogni profilo.

A ciò aggiungasi che i ricavi da biglietteria rappresentano in media il 90% degli introiti complessivi dei siti statali: come è spiegato nel mio “Diritto e gestione del patrimonio culturale”, rendono pochissimo le sponsorizzazioni, le donazioni, i servizi aggiuntivi, le concessioni d’uso. Addirittura i costi di gestione dell’Art Bonus, almeno per lo Stato, eguagliano o sono superiori alle donazioni ricevute. Questo significa che il patrimonio culturale costudito in musei ed aree archeologiche dello Stato rende praticamente nulla ma assorbe moltissime risorse. La capacità di autofinanziamento dei siti statali è tendente allo zero nella stragrande maggioranza dei 570 istituti e luoghi della cultura del MiBAC, fatte salve talune e isolate eccezioni coincidenti con i siti più noti. Il problema si aggrava ulteriormente nel caso di archivi e biblioteche che, per loro natura, attraggono un numero di visitatori ancora inferiori in quanto studenti o studiosi.

Se si riflette su questi dati senza pregiudizi, non si potrà non convenire sulla necessità di individuare una ideale “short list” di istituti e luoghi della cultura irrinunciabili in cui far affluire anche le collezioni museali, archivistiche e bibliotecarie dei siti meno visitati. Con tutto quel che ne consegue in termini di risparmio di risorse finanziarie correnti (utenze, personale) che potrebbero essere utilmente deviate verso i siti con maggiore afflusso, se non addirittura verso altri settori della Pubblica Amministrazione, con conseguenti risparmi verso la complessiva finanza pubblica.

Per questo nei miei studi propongo di concedere a terzi immobili di interesse culturale meno frequentati e di minore rilevanza strategica così come accorpare le collezioni (anche librarie e archivistiche) concentrate in istituti e luoghi della cultura scarsamente frequentati, con conseguente liberazione non solo di risorse finanziarie ma anche di quelle umane, parimenti (sempre più) scarse.

Sul piano delle entrate, poi, per incrementarle le modalità sono tantissime e tutte pienamente assentite dalla legislazione vigente. Non occorre scrivere altre norme. Basta solo attuare quelle, abbondanti, che ci sono.

Cominciamo con il dire che i prezzi dei biglietti andrebbero determinati scientificamente, individuando il punto massimo di disponibilità a pagare dei visitatori oltre il quale la domanda di visita calerebbe. Da sempre, invece, il prezzo del biglietto viene formulato senza alcun aggancio alla scienza economica. I benefici di una nuova politica dei prezzi sarebbero immediati ed intuibili, visto che la biglietteria copre oltre il 90% dei ricavi complessivi. Se fosse vero che la gratuità di accesso favorisce la visita, i siti ad accesso gratuito tutto l’anno sarebbero stracolmi. Ed invece sono proprio quelli che sono deserti sempre.

Poi, sarebbe necessario ampliare la variegata composizione dei ricavi oltre la tradizionale area della biglietteria: stimolando il rendimento delle concessioni d’uso di beni e delle riproduzioni (anche tridimensionali) di beni culturali, inclusa l’utilizzazione di beni culturali in occasione di mostre ed esposizioni (c.d. loan fee).

Occorrerebbe registrare quali marchi i segni desunti dal patrimonio culturale (inclusi i loghi museali) in modo da poterli concedere in uso a terzi mediante licenza: il Louvre di Parigi ha ricavato € 400 milioni dalla concessione in uso del proprio marchio in favore degli Emirati Arabi Uniti, per l’apertura del Louvre di Abou Dhabi. In Italia, nel 2017, i ricavi lordi complessivi di 470 musei ed aree archeologiche hanno superato di poco i 207 milioni di euro mentre al netto scendono a € 184 milioni. E sui marchi non vi è alcuna idea strategica od esperienza concreta paragonabile.

Bisognerebbe, infine, introdurre il principio di remuneratività dei servizi amministrativi e materiali resi: non è possibile continuare a restaurare gratuitamente sculture ed opere d’arte di terzi così come assistere passivamente alla produzione di lucro da parte società private organizzatrici di mostre anche grazie a tutta l’attività amministrativa svolta dai diversi uffici pubblici che, però, impiegano risorse finanziarie e personale per esaminare progetti, facility report e condition report di mostre organizzate da privati.

Come è possibile far sì che vengano soddisfatti sia i valori di promozione culturale che quelli di sostenibilità del debito pubblico ed equilibrio di bilanci?
Basta conoscere il valore economico del patrimonio culturale e metterlo a reddito. Vi sono usi economicamente produttivi del patrimonio culturale che non incidono minimamente sulla libera fruizione da parte dei visitatori. La Francia ha molto da insegnarci in tal senso. Anche se aspira a caratterizzarsi come État culturel, per usare la celebre espressione di Marc Fumaroli, il fondamentale obiettivo di démocratisation culturelle, storicamente radicato nell’ordinamento francese a partire dalla presidenza di Charles de Gaulle, non è perseguito a qualunque costo economico ma in rapporto costante ad altro fondamentale valore: la capacité d’autofinancement dei musei. L’obiettivo di promozione culturale – che resta, giustamente, lo scopo ultimo della gestione degli istituti e luoghi della cultura – viene perseguito in Francia con la migliore combinazione possibile tra riduzione delle spese ed incremento delle entrate dei musei. Grazie a tale politica attenta sia ai valori di promozione culturale (lì comunemente denominata démocratisation culturelle) che alla capacité d’autofinancement si giunge alla determinazione di un tasso di automantenimento finanziario (taux d’autofinancement) dei musée nationaux pari, nel 2016, al 47%. E in Italia? Neanche lo conosciamo perché non interessa a nessuno misurarlo. E se riuscissimo a farlo, il valore numerico sarebbe certamente pari a meno della decima parte di quel valore. I dati pubblicati nel volume lo dimostrano obiettivamente.

Come vengono disciplinati nel nostro ordinamento i diversi istituti per la valorizzazione economica del patrimonio culturale, come servizi aggiuntivi, concessioni d’uso, sponsorizzazioni, donazioni, finanza di progetto, utilizzo di marchi commerciali e prestiti per mostre?
Gli istituti giuridici sono sovrabbondanti e pienamente adeguati. Se un alieno leggesse una ideale raccolta di norme sui beni culturali resterebbe stupefatto dalla qualità e perfezione normativa. Il problema è che quelle norme non sono applicate. Bisognerebbe quindi riscoprirle, leggerle, ed applicarle, concentrando le risorse verso questa direzione. Il problema della scarsa redditività del patrimonio culturale italiano non sta nella legislazione ma nell’Amministrazione pubblica. L’Italia è un punto di riferimento per la normativa ma non per i concreti risultati raggiunti nella gestione.

Eppure, nel volume ho calcolato che applicando questi istituti giuridici si otterrebbe in dieci anni una riduzione del rapporto debito pubblico/PIL fino al 76% mentre il rapporto deficit pubblico/PIL diverrebbe addirittura di segno negativo (-2,3%).

A tali conclusioni giungo ipotizzando un valore complessivo del solo patrimonio culturale mobile statale superiore a 10 volte di quello attualmente misurato, cioè € 1.737 miliardi. Se a tale realistico valore applicassimo lo stesso rendimento del 5,5% delle aziende pubbliche (Return of Investment) rilevato da Mediobanca per il 2017, avremmo un rendimento potenziale di 95,5 mld. Tale valore inciderebbe sul PIL per ben il 5,5%; e in dieci anni, si giungerebbe ad un rapporto deficit/PIL di segno negativo.

Quali lezioni si possono trarre dalla comparazione con i sistemi francesi e anglosassoni di utilizzazione economica del patrimonio culturale?
La lezione che si può trarre è semplice: siamo seduti su una miniera d’oro e non ce ne siamo neanche accorti. Solo a mo’ di intrattenimento salottiero siamo soliti ripetere che il patrimonio culturale costituisce una ricchezza ma, stando ai dati pubblicati nel mio volume, è evidente come nessuno abbia avuto fino ad ora il coraggio e la chiarezza intellettiva necessari per trarre ogni conseguenza pratica da tale generica (ma, in fondo, veritiera) affermazione di principio.

La nostra incapacità a gestire e sfruttare (come finanche la Chiesa cattolica considera lecito fare nelle proprie normative in tema di beni culturali) è lapalissiana mettendo a confronto la modestia dei ricavi museali italiani rispetto a quelli francesi e inglesi.

Per l’istituzione del Musée Universal Louvre di Abu Dhabi, ad esempio, il corrispettivo che gli Emirati Arabi Uniti verseranno alla Francia per l’intera durata trentennale dell’accordo (2007-2037) è di € 974,5 milioni. Tale somma, già di per sé elevatissima, è addirittura indicizzata secondo l’inflazione europea e non tiene conto del costo annuale di € 40 milioni annui per l’acquisizione della collezione permanente degli emiri. Alla cifra complessiva concorre la sola licenza del marchio Louvre per ben 400 milioni di euro. In Italia non si sa neanche cosa sia registrare un marchio museale; figuriamoci se si conosce quanto vale. Ed ovviamente, se non esiste una precisa strategia del marchio culturale, tecnicamente questo non potrà mai valere alcunché.

Se la Francia è riuscita a generare oltre un miliardo di euro grazie all’istituzione del Musée Universal Louvre di Abu Dhabi, l’Italia ha ottenuto 1,5 miliardi per il settore beni e attività culturali dalla programmazione comunitaria 2014-2020. Sta forse in questa contraddizione numerica la sintesi più adamantina del contrasto tra diverse concezioni della politica dei beni culturali: in un caso si attinge alla tassazione pubblica, nell’altro si autogenerano i ricavi necessari da destinare al settore culturale; in un caso si rinuncia a mettere a reddito il patrimonio culturale preferendo attingere alla contribuzione fiscale, nell’altro – prima di far ciò – si verifica se sia possibile utilizzare redditivamente il patrimonio culturale senza con ciò compromettere gli obiettivi di promozione culturale.

Analoga lezione proviene dal Regno Unito. Comparando il rendimento economico dei 466 musei statali con quelli inglesi, nei miei studi ho scoperto che solo 15 musei britannici rendono ben 46,44 volte quelli italiani.

Infatti, solo 15 musei e gallerie dipendenti dal Department of Digital Culture Media & Sport, nel 2017/2018, hanno prodotto £ 271.414.000 di self-generated income (cioè ricavi propri) laddove tutti e 466 musei statali hanno prodotto, al netto, poco più di € 184 milioni. Se sul piano economico solo 15 musei inglesi rendono quasi il doppio di tutti i musei statali italiani, anche sul piano del “rendimento culturale” il confronto è impari. Nello stesso periodo 2017-2018, i 15 musei inglesi sono stati visitati da 47.264.853 persone, lo stesso numero di visitatori (47.597.803) che si sono diretti nel 2017 verso tutti i 466 musei statali italiani. Quindi, può dedursene che il rendimento economico è parallelo al “rendimento culturale” inteso nel senso di attrattività di visitatori (in disparte, poi, il tema della qualità della visita, che riguarda tanto i musei italiani quanto quelli stranieri). Questi dati – ricavati dall’analisi dei bilanci delle istituzioni museali straniere – dimostrano come tra promozione culturale e rendimento economico non vi sia incompatibilità ma, anzi, perfetto parallelismo. Tanto più è attraente un’istituzione museale, tanto più è visitata; e la visita genera un lucro a vantaggio della stessa istituzione. Il che, poi, ridonda a favore anche del complessivo equilibrio dei bilanci pubblici (maggiori sono i ricavi propri e minore sarà la dipendenza dai finanziamenti pubblici). Ecco spiegato il nesso tra promozione culturale, valorizzazione economica ed equilibrio dei bilanci pubblici.

Antonio Leo Tarasco è (abilitato) professore ordinario di Diritto amministrativo ed è dirigente del Ministero per i beni e le attività culturali. Insegna Legislazione dei beni culturali nell’Accademia di belle arti di Roma. È stato ricercatore di Diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Federico II” di Napoli e commissario straordinario della Fondazione Toti Scialoja. È autore di oltre 100 scritti giuridici tra cui: La consuetudine nell’ordinamento amministrativo. Contributo allo studio delle fonti non scritte (Editoriale scientifica 2003); Beni, patrimonio e attività culturali: attori privati e autonomie territoriali (Editoriale scientifica 2004); La redditività del patrimonio culturale. Efficienza aziendale e promozione culturale (Giappichelli 2006); Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio (a cura di, con G. Leone, Cedam 2006); Corte dei conti ed effetti dei controlli amministrativi (Cedam 2012); Toti Scialoja critico d’arte. Scritti in «Mercurio», 1944-1948 (a cura di, Gangemi 2015); Il patrimonio culturale. Concetto, problemi, confini (Editoriale scientifica 2019); Diritto e gestione del patrimonio culturale (Laterza 2019).

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