
Il punto di crisi centrale sta proprio nella tenuta del multilateralismo come fu concepito a Bretton Woods, o forse meglio come è stato applicato nei decenni successivi. La grande idea che ha sostenuto Bretton Woods fu appunto quella dell’affrontare i problemi che si reputavano globali in modo multilaterale, tramite la creazione di organizzazioni internazionali che agissero per il bene comune e che fossero in qualche modo autonome dai singoli Stati, soggetti terzi rispetto alle dinamiche di cooperazione orizzontale tra Stati sovrani. Sono accaduti molti fatti dal dopo-guerra ad oggi e sono cambiati gli equilibri tra Stati. Oggi molte organizzazioni internazionali stanno vivendo momenti di crisi grazie ai diversi equilibri di potere, ai metodi di formazione del consenso, alla loro rappresentatività.
Inoltre, l’emergere di nuove economie e di un articolarsi di diverse alleanze ha aperto ad un confronto ben più ampio anche sulle premesse sia economiche sia politiche dei modi di regolare il commercio tra Stati, quindi di dare veste all’ordine economico internazionale. Mentre in passato si parlava di fatto quasi esclusivamente di efficienza economica nel considerare i principi del commercio internazionale, oggi sono entrate in agenda le questioni ambientali, quelle sociali, la necessità di risolvere i divari di sviluppo andando oltre la logica dell’aiuto che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso.
Ancora, i privati sono entrati prepotentemente nell’arena del governo dell’economia internazionale. Che sia a causa della tecnologia, dei nuovi modelli di business, della stessa liberalizzazione dei mercati realizzata tramite l’ordine economico internazionale come concepito da Bretton Woods, in ogni caso è evidente che molte entità imprenditoriali travalicano i confini nazionali e divengono interlocutori globali, così come i fenomeni si globalizzano e le attività si parcellizzano in vari luoghi differenti. L’ordine economico internazionale tuttavia non contempla questi interlocutori globali come soggetti di diritto perché ‘privati’, quindi non li ‘vede’ né come soggetti attivi né tantomeno come soggetti passivi. L’ordine attuale si basa tuttora di fatto sulla convinzione che gli interessi privati vadano sintetizzati in un interesse generale che è però statale, e che sia poi lo stato a rappresentarli all’esterno. Questa visione però è superata. Smentita dai fatti.
Infine, le ultime crisi hanno evidenziato e fatto riemergere la necessità di garantire la stabilità finanziaria perché l’economia reale si sviluppi su basi solide. Se lo hanno disvelato le ultime crisi, che erano crisi finanziarie, anche la crisi attuale, che non ha qualificazioni economiche, sta mostrando la necessità di qualche passo avanti in tema di regolazione complessiva dei fenomeni economici, insieme dell’economia reale e del movimento di capitali. Anche questo è un punto di crisi rispetto alle premesse su cui si fonda l’ordine attuale, anche se la liberalizzazione dei mercati dei capitali è comunque avvenuta in modo molto più lento di quanto si affermi.
Mi pare evidente come la pandemia attuale abbia messo in evidenza ed acuito tutti questi punti di criticità e reso palese che o questi si risolvono in modo costruttivo e in qualche modo anche ‘immaginativo’, o assisteremo al fallimento un po’ di tutti, non foss’altro che per il prevalere della natura sulle nostre, un po’ miopi, previsioni.
Quali specificità caratterizzano la disciplina nell’ordinamento attuale?
In primo luogo, accanto alle organizzazioni internazionali oggi esistono una pletora di fora o organismi intergovernativi che testimoniano forme di governo diverse da quelle tipiche del multilateralismo, molto articolate, complesse e in continua evoluzione. Si pensi per tutti ai vari G-, vertici informali che nel corso dei decenni si sono vieppiù istituzionalizzati, al punto che sono sorretti da forme di segretariati permanenti, che ne compongono l’agenda e ne preparano i lavori su base continuativa e progressiva. Peraltro, dal monopolio del G-7 si è oggi passati ad un ruolo più consistente del G-20, a riprova di ciò che cercavo di spiegare prima quanto a diversità di equilibri e di rapporti tra Stati.
Nel mondo della finanza – che è quello che conosco meglio – da decenni esistono organi composti da autorità indipendenti domestiche che elaborano standard che poi ciascuna autorità adotta (che sia o meno parte del consesso che ha generato lo standard). Si tratta di quella che chiamiamo soft law, cioè una norma non direttamente vincolante, ma che viene poi tuttavia applicata con rigore direttamente dalle autorità nei propri paesi ed anche strettamente monitorata, in alcuni casi persino da una istituzione internazionale, come il FMI e la Banca Mondiale. Il fenomeno dei cosiddetti ‘standard setting bodies’ è essenziale nella regolazione dei rapporti economici in moltissimi settori, sicuramente nei mercati finanziari.
In secondo luogo, assistiamo a varie forme di regionalismo e di forme di cooperazione bi- o pluri-laterale, anche tra regioni. Accanto alle misure delle organizzazioni internazionali (in particolare l’OMC), ci sono sempre stati anche accordi di collaborazione economica bilaterali. Anche questi negli anni hanno subito modifiche ed oggi si hanno i cosiddetti ‘Free Trade Agreements’ (FTA) di nuova generazione. Tutti conosciamo il CETA tra Unione Europea e Canada, per comprendere di che si parla. Ebbene, il numero di questi accordi è elevatissimo e soprattutto il medesimo Stato (o unione regionale, come nel caso dell’Unione Europea) tende usualmente ad applicare i medesimi principi con le diverse controparti. La Unione Europea è proprio un caso evidente di questo: negozia accordi con sempre le medesime condizioni, che possono essere accettate o no, ma che in via generale producono il risultato di un avvicendarsi di previsioni simili però non applicate in modo multilaterale, bensì in modo articolato. Un fascio di accordi con principi simili ma adattabili alle circostanze. Una regolazione quindi ‘diffusa’. Ciò che è interessante è che questi nuovi accordi contengono spesso una serie di ‘condizioni’ di natura sociale ed ambientale (la cosiddetta ‘condizionalità’). Tramite questi accordi, il governo dell’economia, quindi il suo ordine giuridico, sta cambiando radicalmente.
Infine, come accennavo, cambia il ruolo dei ‘privati’, sempre più determinanti nel governo effettivo dell’economia. Un ruolo esplicito lo hanno nella applicazione dei Sustainable Development Goals (SDGs). Pochi notano questo dato per la sua importanza in termini di governance dell’economia, ma gli SDGs, tramite il cosiddetto Global Compact, hanno riconosciuto un ruolo di formazione del diritto ai privati che mai era esistito prima in tale dimensione.
Quali vicende hanno segnato il passaggio dalla lex mercatoria al diritto statuale ed internazionale del commercio?
Il passaggio da ius mercatorum (mi permetta questa modifica perché concettualmente la differenza è notevole) a diritto commerciale statuale è figlio della nascita dello Stato nazionale moderno. Con lo Stato nazionale il diritto diviene territoriale perché la sovranità si esplica su un certo territorio. Gli stessi concetti di popolo e di nazione sono legati a quello di territorio. Come dicevo, è quindi lo Stato che al suo interno regola i rapporti della sua comunità, anche dal punto di vista economico, e tende ad applicare i medesimi principi in modo tendenzialmente coerente e sistematico all’interno del proprio ordinamento, che per definizione è visto come un sistema, un tutt’uno. Lo Stato regola soprattutto grazie a leggi generali ed astratte, cui l’intera comunità soggiace. Queste logiche sono lontanissime dalle premesse dello ius mercatorum, che invece concepiva un diritto nato dalla prassi, dagli usi, dal ‘basso’ dei costumi piuttosto che dall’ ‘alto’ del legislatore sovrano, e particolare. Un diritto addirittura transeunte, poiché ciascuno si portava dietro il proprio diritto, cosicché il mercante di Firenze e quello di Anversa risolvevano le dispute in base a soluzioni concrete allo specifico problema sulla base dei due diritti in contrasto, con soluzioni puntuali adattate alle circostanze.
Tutta la concettualizzazione del diritto internazionale come lo conosciamo noi nasce dal concetto di Stato. Il diritto internazionale, anche quello economico, esiste perché esistono gli Stati nazionali ed è il risultato della auto-limitazione dello Stato nazionale, che esercita la propria sovranità anche nel momento in cui delega a terzi la gestione di un determinato evento o serie di eventi ‘internazionali’.
In tutta questa logica, il diritto internazionale non può rivolgersi ai ‘privati’ direttamente. Il diritto dei ‘privati’, quello che appunto oggi chiamiamo lex mercatoria moderna perché lo descriviamo comunque in riferimento al diritto statuale fondato sulla legge, si è ricavato spazi che tuttavia valgono solo per i rapporti contrattuali e che, benché oggi rappresentino una fetta importantissima degli strumenti di governo dei commerci, coesistono con il diritto internazionale dell’economia, non vi sono intimamente integrati.
Io credo invece si possa lavorare molto sulla concomitanza tra diritto degli Stati e diritto prodotto dai privati. Ma questo va oltre la questione del passaggio da ius mercatorum a diritto statuale del commercio.
Come vengono risolti i conflitti tra ordinamenti?
Se si intende il conflitto tra ordinamenti nel senso di conflitto tra la leggi applicabili in una qualsiasi situazione che ha ‘caratteri di internazionalità’, se cioè la questione è come decidere se in un rapporto tra due soggetti di Stati diversi si debba applicare la legge di un paese o quella di un altro, all’interno del sistema moderno di rapporti tra Stati ed ordinamenti giuridici abbiamo oramai elaborato meccanismi che prevedono la prevalenza di un diritto sull’altro sulla base di principi condivisi. Le regole tecniche quindi esistono. Hanno alcuni limiti, ma se si resta entro quella logica bene o male il meccanismo funziona. Non è in questo che evidenzierei un punto di crisi del sistema.
Ciò che tuttavia ritengo interessante in questo tema è il problema teorico, che ha valore in generale nei discorsi che stiamo facendo: i meccanismi di conflitto di leggi determinano criteri di prevalenza e producono il risultato che un rapporto internazionale venga ’nazionalizzato’, mi verrebbe da dire ‘addomesticato’, nel senso che viene sussunto in un ordinamento e poi trattato di fatto come se fosse un rapporto nazionale. Il meccanismo risolve il conflitto ma acuisce il problema che i rapporti internazionali, in quanto tali, di per sé non sono automaticamente riconducibili ad un ordinamento nazionale, qualsiasi esso sia. SI impoverisce una realtà composita e la si riduce entro una gabbia che non necessariamente la contiene in modo soddisfacente. Peraltro, le situazioni internazionali possono essere molto complesse e potenzialmente sussumibili in una pluralità di ordinamenti. Insomma, lo strumento, pur tecnicamente oggi molto perfezionato ed ‘aperto’, e che dà prevalenza alla autonomia delle parti anche nella scelta della legge applicabile, ha dei limiti insiti che la complessità dei commerci di oggi accentua.
C’è però un altro significato che possiamo dare a ‘conflitti tra ordinamenti’, che il mondo di oggi rende più attuale e che invece esprime a mio avviso un chiaro punto di crisi: proprio perché le realtà imprenditoriali sono spesso transnazionali, è data loro la possibilità di scegliere dove e come investire e come strutturarsi dal punto di vista dell’organizzazione societaria, sulla base delle differenze tra ordinamento ed ordinamento. Lo State-shopping (il forum shopping) è legittimo e direi addirittura fisiologico nel sistema così come concepito oggi. È tuttavia anche uno dei problemi: da un lato abbiamo assistito per decenni ad una corsa al ribasso in termini di regolazione a tutela dei diritti sociali ed ambientali da parte di paesi che, soprattutto in assenza di capacità propria di produzione del know-how, avevano bisogno di investimenti stranieri e dovevano quindi incentivarli. Da altro lato, abbiamo assistito ad una rincorsa verso i paradisi fiscali anche da parte di Stati che tradizionalmente non ne avevano propensione, sempre per attirare investimenti con lo strumento della agevolazione. Abbiamo cioè assistito alla concorrenza tra ordinamenti, persino all’interno dell’Unione Europea, che dovrebbe essere un mercato unico ove potenzialmente le condizioni concorrenziali sono identiche per tutte le imprese. Il primo caso ha però esposto molte popolazioni a livelli insufficienti di protezione, fino a raggiungere forme di sfruttamento. Il secondo in qualche modo sradica le imprese dai territori in cui operano ed indebolisce la possibilità dei governi di adottare le misure pubbliche di sostegno che vorrebbero perché manca loro la corrispondente leva fiscale.
In che modo la moderna lex mercatoria può offrire risposte ai problemi concreti del commercio internazionale?
La lex mercatoria può in qualche modo proprio aiutare nei problemi che sto descrivendo. Ora, in primis bisogna chiarire che usualmente con lex mercatoria si intende un insieme di fonti, in gran parte di natura contrattuale o prodotte come dicevo dalla prassi, ma che comprendono anche alcuni standard elaborati sia da istituzioni private sia da organizzazioni intergovernative. I Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali sono un tipico esempio di un prodotto che deriva di fatto dalla valutazione della prassi e soprattutto dall’elaborazione dottrinale degli esperti, che hanno contribuito a formarli, ma che è imputabile a una organizzazione internazionale intergovernativa. Lex mercatoria è quindi, forse per sua stessa natura, un corpus composito ed eterogeneo.
Questa premessa è necessaria perché le risposte ai problemi non le offre ‘il settore privato’, ma direi piuttosto un nuovo modo di regolare, che vede pubblico e privato insieme e che si compone di soluzioni articolate in base alle necessità. Questa lex mercatoria può offrire risposte perché coinvolge tutti, va oltre il diritto nazionale senza spodestarlo, ed è flessibile, fluida, composita.
Quali sono i principali istituti e le norme di diritto internazionale non cogente?
La lex mercatoria è nella sostanza soft law. E nella composizione che ne ho dato, comprende contratti o norme standardizzati, standard e principi come quelli descritti, linee guida elaborate da organizzazioni internazionali, come quelle dell’OCSE per le imprese multinazionali, in verità rivolte contemporaneamente alle imprese ed ai regolatori, nonché la giurisprudenza, soprattutto arbitrale.
Se andiamo ad analizzare tutti gli strumenti del Global Compact cui accennavo, questi sono in grandissima parte di soft law, ma poi i diversi principi, standard o linee guida possono essere direttamente adottati dalle imprese con codici di condotta o recepiti nei documenti contrattuali, spesso trasformati in norme cogenti dallo stato o da convenzioni internazionali.
Vorrei peraltro che non si creasse una ambiguità: parliamo di norme non cogenti perché non corredate da sanzione, ma come accennavo la loro adozione può essere monitorata e il mancato rispetto censurato per lo meno sotto il profilo reputazionale. Molto concretamente, se ritorniamo alla menzione del monitoraggio del FMI e della Banca Mondiale del rispetto di alcune norme di soft law, qualsiasi rapporto che attesti un mancato rispetto potrà avere effetti considerabili sul rating dello Stato, e quindi sulla disponibilità del mercato a finanziare quello Stato. Così come contribuiscono ai risultati del Doing Business della Banca Mondiale, che stila una graduatoria degli Stati in cui è più sicuro investire. Non parliamo quindi di sanzione in senso giuridico secondo la elaborazione moderna, ma di effetti economici dello stesso tipo.
Quali nuovi orizzonti aprono le teorie dello sviluppo sostenibile?
Come ho indicato, a mio avviso l’insieme di strumenti e di prassi adottati per la realizzazione degli SDGs contengono elementi di superamento dell’ordine attuale che meritano molta considerazione. Non mi riferisco in questo momento ai contenuti, ma specificamente agli strumenti: è la prima volta che assistiamo ad un piano che concretamente vede coinvolti nella formazione delle regole sia il settore pubblico che quello privato simultaneamente e in modo concomitante e dove la adozione dei principi si sviluppa a tutti i livelli, nazionale, internazionale, transnazionale. Si aprono cioè nuovi orizzonti partendo tuttavia dall’esistente.
Quanto poi ai contenuti, di nuovo senza voler entrare nel merito specifico dei principi, il concetto di sviluppo sostenibile alla base degli SDGs mette anche in discussione alcune delle stesse premesse dell’ordine economico attuale: la sostenibilità fa entrare valori esterni alla efficienza nel perimetro dell’economico e unisce due settori finora tenuti concettualmente e giuridicamente separati, quello del trade e quello dello sviluppo. Inoltre, ci fa anche parzialmente superare la cesoia tra Stati ‘sviluppati’ e Stati ‘non-sviluppati’ come due entità agli antipodi di una scala (da cui anche la formula di Stati ‘in via di sviluppo’), riconoscendo che la povertà ed altri fenomeni di sottosviluppo sono in realtà interni a qualsiasi ordinamento, anche se in diverse proporzioni e possibilmente con diverse manifestazioni e si debbono combattere in modo unitario e sincronico. In una parola, si passa dall’internazionale al globale.
Peraltro, se sostenibilità si lega anche a cambio climatico e disastri ambientali, gli orizzonti si ampliano perché si amplia la necessità di considerare i fenomeni economici, sociali ed ambientali come un unicum che ha bisogno di soluzioni in sintonia.
Quale futuro, a Suo avviso, per il commercio internazionale?
Questa è la domanda che ci poniamo tutti oggi nel ripensarci dopo la pandemia. La risposta che mi viene da dare quasi di istinto è che la pandemia non ha cambiato né le premesse né i punti di criticità, ma li ha acuiti anche perché ne ha aumentata la consapevolezza.
Credo che il commercio internazionale ripartirà da ciò che c’era prima della crisi e dagli strumenti di cui disponeva prima, che già erano però così in mutamento rispetto all’ordine cui eravamo abituati. Ripartirà a mio avviso con una sinergia inevitabile tra ciò che chiamiamo ‘pubblico’ e ciò che chiamiamo ‘privato’, integrando il diritto degli Stati, non snaturandolo, ma cercando per forza di risolvere i punti di criticità che ho cercato di illustrare.
La responsabilità sociale delle multinazionali – concetto non ben definito ma che un po’ sintetizza alcuni dei contenuti del Global Compact – imporrà loro il rispetto di alcuni valori generalizzati e farà sì che esse si facciano carico della loro attuazione. La condizionalità che è propria di alcuni accordi di free trade si diffonderà come strumento. Ci sarà un maggior radicamento delle norme che si applicano alle attività di una impresa rispetto al territorio ove esse avvengono, anche tramite quella stessa condizionalità imposta ai fini di poter investire, ma anche con una possibile riorganizzazione delle catene di valore.
Credo insomma ci saranno aggiustamenti che bilanceranno aperture e freni, che modificheranno in parte la logica del commercio internazionale, probabilmente anche con conseguenze sui mercati finanziari e di governo del debito sovrano.
Ci sarà tuttavia un altro fattore determinante ad influenzare il futuro del commercio internazionale: l’innovazione tecnologica e l’intelligenza artificiale stanno trasformando anche la struttura dei mercati. C’è chi prevede una ulteriore riduzione delle imprese di medie dimensioni verso, da un lato, giganti economici e, dall’altro, micro realtà. Se questo scenario dovesse corrispondere alla realtà, allora per forza le norme dovranno adeguarsi a ciò che intendono regolare e la dimensione transfrontaliera dovrà essere valorizzata in modo che si sappia dare una risposta al fatto che comportamenti fuori da uno specifico territorio hanno effetti determinanti su quel territorio. Il fenomeno è ovviamente già ben presente e noto, ma in futuro potrebbe divenire centrale nella organizzazione dei rapporti economici.
D’altro canto, tutto ciò non significa per nulla la fine del multilateralismo, ma mi pare la nascita di un multilateralismo nuovo, più articolato e forse anche più ricco. Ignoro volutamente la prospettiva antagonista, chiusa nei protezionismi, semplicemente perché è suicidaria e sa mai avverrà, non staremo a dover parlare di futuro ordine economico, ma di cosa resta del nostro futuro.
Ma tutto questo fa parte del libro che verrà, il libro di Alberto e mio si ferma molto prima di questo, cerca più semplicemente di prendere la rincorsa per trovare chiavi di lettura per il futuro. Come tutti sappiamo, per fare un buon salto la rincorsa va presa lunga, così come per mettere a fuoco a volte facciamo un passo indietro e solleviamo la testa. Per questo abbiamo cercato di mettere il commercio internazionale nel contesto delle diverse teorie e fasi storiche che ci hanno portato all’oggi.
Maria Chiara Malaguti è Professore ordinario di Diritto internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Le sue aree di maggior interesse sono il diritto internazionale ed il diritto dell’Unione Europea applicati ai mercati finanziari, il diritto internazionale degli investimenti ed i più recenti aspetti di sviluppo sostenibile e responsabilità sociale delle imprese in ambito transfrontaliero. Studia inoltre gli aspetti di uniformazione del diritto e conflitto di leggi. Esercita la professione legale e svolge attività di consulenza. È consulente giuridico del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale. In tale veste, supporta il team dell’Avvocatura dello Stato nei contenziosi di arbitrato internazionale degli investimenti. Dal 2014 è Chair del Gruppo di Lavoro UNCITRAL sulle MPMIs ed ha partecipato a vari altri negoziati internazionali in rappresentanza dell’Italia. É inserita nell’Albo dei Conciliatori ed Arbitri ICSID e dei potenziali membri del DSB dell’OMC, nonché arbitro della Corte OSCE. È senior legal advisor della Banca Mondiale per i sistemi di pagamento, i mercati finanziari e la governance.