
La prima corrisponde al periodo che va dall’immediato dopoguerra all’inizio degli anni Sessanta. Innanzitutto i dirigenti locali erano tutti vecchi militanti comunisti che condividevano le stesse esperienze di vita. Si trattava di dirigenti entrati nel partito fin dagli anni Venti, quelli della fondazione, e che avevano vissuto sulla propria pelle la persecuzione fascista essendo stati condannati al carcere oppure costretti all’esilio in Francia. Molti di questi dirigenti avevano passato dei periodi di formazione militare in Urss e avevano combattuto in Spagna negli anni della guerra civile. È alla luce di queste esperienze che questi militanti hanno poi avuto un ruolo decisivo negli anni della Resistenza diventando i punti di riferimento dell’organizzazione partigiana comunista. Sono quindi proprio questi uomini a guidare il partito in periferia dal dopoguerra agli anni Sessanta. Questa scelta del partito non fu casuale. Negli anni del dopoguerra il Pci era caratterizzato dalla contemporanea presenza di due visioni: una parte della leadership e dei militanti era orientata verso la legalità e la partecipazione democratica; l’altra parte del partito coltivava la speranza di riprendere il percorso insurrezionale iniziato con la Resistenza. La classe dirigente in periferia incarnava in pieno questa doppia opzione. Essi erano a tutti gli effetti dei rivoluzionari, ma nel medesimo tempo si muovevano a loro agio nel sistema democratico che pure pensavano, in prospettiva, di trasformare in un regime socialista. Un primo momento di svolta si ebbe con gli anni Sessanta, quando si affermò una nuova leva di dirigenti, quella cioè che si era avvicinata al partito negli anni della Resistenza o in quelli immediatamente successivi. Questa nuova generazione aveva caratteristiche molto diverse da quella precedente, in particolare per quanto riguarda l’estrazione sociale visto che, alla guida delle federazioni, troviamo dirigenti appartenenti a categorie che possono rientrare nel terziario come tecnici e impiegati e che negli anni Cinquanta erano in numero inferiore rispetto agli operai. Un nuovo rinnovamento generazionale si verificò solo nel corso del decennio successivo, quando venne avviata una profonda trasformazione della classe dirigente comunista e delle modalità con cui questa veniva selezionata. In seguito alla mobilitazione studentesca, alle lotte operaie e al nuovo corso intrapreso da Berlinguer, si registra infatti un mutamento del corpo sociale del partito, con l’arrivo, ai vertici delle federazioni, di giovani dirigenti con pochi anni di militanza e collocati in breve tempo in posti di responsabilità-chiave. La generazione post-sessantottina, che prese le redini del partito nel corso degli anni Settanta, non solo gestì il partito negli anni Ottanta ma fu anche la protagonista della trasformazione del Pci nel corso degli anni Novanta, e continua tuttora ad avere un ruolo di rilievo sia a livello locale sia nazionale.
Il Suo libro prende in esame una cosiddetta ‘regione rossa’, la Toscana: a quali fonti ha attinto per il Suo lavoro?
L’obiettivo del mio studio è stato quello di andare ad indagare i rapporti tra il centro e la periferia nel campo della formazione e selezione della classe dirigente, dando alla ricerca un taglio prosopografico. Per portare avanti una ricerca di questo tipo è stato quindi fondamentale utilizzare come fonti sia quelle prodotte dal centro sia quelle prodotte dalla varie federazioni toscane. In particolare, ad essere prese in esame sono state innanzitutto le carte della Commissione di organizzazione, cioè l’organo del partito che a livello nazionale gestiva tutte le questioni legate all’organizzazione e, tra queste, si occupava anche della selezione dei dirigenti. Altri strumenti utili sono stati i verbali dei singoli congressi provinciali che forniscono importanti informazioni, sia per la ricostruzione delle carriere dei dirigenti sia per indagare le modalità con cui venivano selezionati. Oltre alle fonti primarie appena elencate, ho poi utilizzato le memorie dei più importanti dirigenti toscani, i quali, spesso, hanno ricostruito le vicende che li hanno portati ad avvicinarsi al comunismo e anche le modalità secondo cui sono stati formati e selezionati. Tra le altre fonti secondarie utilizzate non posso non citare una rivista come «Rinascita» e il quotidiano del partito «l’Unità» su cui spesso venivano pubblicati importanti riflessioni sulle questioni legate alla scelta dei dirigenti. Bisogna poi sottolineare che il Pci fu il partito che maggiormente si adoperò per creare un archivio che fosse il più completo possibile. Si può quindi affermare che l’archivio del Pci sia uno dei più curati e completi, aspetto che contribuisce in parte a spiegare come mai il Pci rappresenti ancora oggi uno dei temi maggiormente approfonditi dalla storiografia. La ricerca di archivio è stata quindi svolta presso la Fondazione Gramsci di Roma, che custodisce tutto l’archivio del Pci, quindi sia i documenti prodotti dagli organi centrali che da quelli periferici, e presso l’Istituto Gramsci Toscano che conserva gli archivi delle varie federazioni toscane. Un aiuto fondamentale alla mia ricerca è arrivato dall’archivio della scuola di partito “A. Marabini” conservato presso l’Istituto Gramsci dell’Emilia Romagna. Mentre per il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale è stato molto utile il sito dell’Anpi, al cui interno è presente una lista, con le relative informazioni biografiche, di tutti coloro che hanno preso parte alla guerra di Liberazione. Tenendo conto che tutti i dirigenti comunisti fino agli anni Sessanta avevano preso parte alla Resistenza questo archivio digitale si è rivelato utilissimo.
Come avviene la costruzione del “partito nuovo” all’indomani del secondo conflitto mondiale?
Nel 1944, appena rientrato in Italia, Togliatti parlò esplicitamente di costruire un partito nuovo rispetto a quello degli anni della clandestinità, che fosse nazionale, di massa e di governo. Erano queste le tre le principali caratteristiche che dovevano contraddistinguere il «partito nuovo». Un partito con queste caratteristiche prevedeva poi la forte professionalizzazione dei dirigenti di partito, i quali dovevano fungere da avanguardia per le masse. Il partito andava poi organizzato nelle fabbriche attraverso dei piccoli nuclei, le cellule, e gestito secondo il principio del centralismo democratico, che vietava lo sviluppo di correnti interne. L’intento perseguito da Togliatti era duplice: creare un partito solido, disciplinato, diretto dall’alto ma comunque aperto a settori più ampi della società in modo da evitare le chiusure settarie e aspirare così ad ottenere la maggioranza dei consensi elettorali. Partendo da questo principio, il partito mutò la sua organizzazione rispetto agli anni della clandestinità, assumendo così una dimensione di massa e superando il modello organizzativo, molto più chiuso e settario, tipico della clandestinità. Il processo di trasformazione appena descritto prevedeva ovviamente degli interventi sulle strutture organizzative, in modo da mantenere contemporaneamente le caratteristiche di un partito di massa e di un partito di quadri. Dal punto di vista numerico, il passaggio da un partito settario, composto da quadri, ad un partito di massa fu un processo rapido in quanto il Pci, raggiunse nel giro di pochi anni, le dimensioni di un partito di massa. Ben diversa fu invece l’evoluzione del partito a livello di classe dirigente. Vista la mancanza di quadri e la scarsa preparazione politico-organizzativa che contraddistingueva la maggior parte dei nuovi iscritti, la scelta dei dirigenti cadde su militanti di provata fedeltà ed esperienza che quindi gestirono la costruzione del “partito nuovo”. Per cui si può affermare che a livello di base il Pci divenne effettivamente un partito di massa, mentre dal punto di vista della leadership mantenne una forte connotazione leninista.
Come affrontò la dirigenza comunista la Primavera di Praga e la contestazione?
Il fenomeno della contestazione giovanile e quello della cosiddetta Primavera di Praga segnarono il punto di inizio della segreteria Berlinguer, probabilmente uno dei periodi più studiati della storia del Pci. Si tratta di uno dei momenti più complessi della storia del Pci, in quanto il segretario comunista provò a portare avanti una politica sul piano nazionale fortemente legata a quello internazionale; risulta quindi difficile prenderli in considerazione singolarmente. Berlinguer basò il proprio disegno politico sul tentativo di riformare il comunismo, ma allo stesso tempo di presidiarne i confini identitari. Fu proprio questo punto di partenza a rendere fallimentare la strategia berlingueriana, in quanto il comunismo mondiale non venne assolutamente scalfito dall’eurocomunismo, e il Pci, pur trasformandosi, non poté entrare nella sinistra occidentale, in quanto mantenne un legame troppo stretto con il comunismo sovietico e con la propria identità comunista. Questa impostazione politica, tesa appunto a sottolineare comunque la forte appartenenza del Pci al mondo comunista, è perfettamente rintracciabile seguendo le linee secondo cui si articolò il rapporto tra il Pci e l’Urss. La posizione contraria assunta dal partito nei confronti dell’occupazione di Praga nel 1968 rappresentò il primo grave dissenso tra Pci e Urss, ma comunque non portò alla rottura tra i due attori, il cui rapporto rimase per lo più invariato. Tutte le critiche rivolte ai sovietici erano state fino ad allora non troppo decise, e comunque erano state inserite in una sostanziale accettazione del modello sovietico. Nel 1968 si registrò quindi una novità, vista la posizione netta assunta dal Pci, ma comunque il distacco definitivo dall’Urss non avvenne. Con la segreteria Berlinguer, quindi, il partito avviò un lento e a tratti incoerente processo di distacco dall’Urss, come testimonia l’erogazione di aiuti finanziari sovietici che, dopo aver subito una decurtazione in occasione dell’invasione di Praga, tornarono ad essere cospicui con i primi anni Settanta. La Primavera di Praga rappresentò quindi un momento importante nell’evoluzione dei rapporti fra il Pci e l’Unione Sovietica, la cui portata non va però sovrastimata visto che Berlinguer non mise mai in discussione il legame ideologico con l’Urss. Lo strappo di Praga, seguito da quello per l’invasione dell’Afghanistan e il colpo di stato in Polonia, va inserito proprio nel tentativo di costruire una terza via che fosse alternativa al modello sovietico ma anche alla socialdemocrazia europea. La strategia berlingueriana si rivelò però velleitaria in quanto la cosiddetta terza via non si concretizzò e il legame che il partito aveva con il comunismo sovietico rimase forte per tutti gli anni Ottanta; basti pensare all’entusiasmo che le riforme di Gorbacev suscitarono nel Partito comunista italiano.
Venendo poi al Sessantotto bisogna innanzitutto svolgere una riflessione generale. Il 1968, con le contestazioni studentesche e operaie, ha rappresentato un momento importante nella storia dell’Italia repubblicana e più in generale in quella del Novecento. Si è trattato, di un movimento che non ha prodotto crisi radicali nei sistemi politici occidentali, ma ha influenzato indirettamente la politica. Se si considera il movimento come un fattore di modernizzazione, allora si possono comprendere gli effetti che il Sessantotto ha avuto sul sistema politico. Dopo il 1968 il Pci fu costretto, ancora più che in precedenza, a misurarsi con l’impatto che la cultura di massa ebbe sulla società. Si trattò di un fenomeno che non interessò esclusivamente il Pci, ma anche gli altri partiti comunisti europei, dal momento che, in generale, i comunisti occidentali finirono per trovarsi in una situazione ambigua in quanto, pur restando legati alla loro identità, continuando a impiegare il medesimo lessico e le stesse categorie concettuali quando parlavano di classe, di nazione di imperialismo e rivoluzione, erano costretti a subire o accettare le contaminazioni che arrivano dalle rispettive società. Si trattava di aspetti che erano diversi da quelli della loro tradizione, sicché il legame identitario con l’Urss non poteva, come lo era stato in passato, essere esclusivo e andava o abbandonato o riformulato. I partiti comunisti si trovavano sotto la pressione di una duplice sfida, quella dell’omologazione comunista al modello sovietico e quella della contro-cultura anticonformista estranea alla loro tradizione. Fu proprio dentro queste coordinate che Berlinguer cercò di muoversi, rinnovando la classe dirigente e aprendo il partito a giovani provenienti dal movimento.
Come si giunse alla professionalizzazione delle carriere all’interno del PCI?
Con il concetto di professionalizzazione delle carriere si fa riferimento sia all’evoluzione delle carriere, cioè il passaggio da cariche politiche di livello più basso fino a quelle più alte, sia il fatto che l’attività politica finisca per diventare la principale attività professionale svolta dalla classe dirigente comunista. Questo fenomeno conobbe una certa accelerazione con gli anni Settanta, quando cioè il ricoprire una carica pubblica diventò il punto di arrivo delle carriere dei dirigenti comunisti. Il fatto che un gran numero di segretari federali, una volta lasciata tale carica, abbia, per i successivi venti o trenta anni, ricoperto cariche pubbliche testimonia proprio questo. Questo processo di professionalizzazione delle carriere politiche è connesso al cosiddetto consociativismo, secondo cui la condivisione della cosa pubblica non risultò essere più un fatto straordinario dettato da condizioni particolari, ma piuttosto la regola che trasformava il meccanismo decisionale in un costante patteggiamento tra le forze politiche. Centrali in questo senso furono poi alcune riforme, come quella della Rai, del 1975, che aboliva il controllo governativo sostituendolo con quello parlamentare e favorendo così fenomeni di lottizzazione dell’ente di comunicazione da parte dei partiti. Sempre nella seconda degli anni Settanta fu avviata la riforma sanitaria, che nel 1978 sancì la nascita del Servizio sanitario nazionale. La trasformazione del sistema sanitario nazionale rappresentò un ulteriore strumento di lottizzazione da parte dei partiti visto le innumerevoli nomine politiche che essa prevedeva, favorendo così la professionalizzazione delle carriere. Con ogni probabilità, tuttavia, l’aspetto più importante che contribuì ad esasperare questo stato di cose fu la nascita delle regioni, visto che, proprio per le dinamiche che ne regolarono la nascita, anche questi enti, come gli altri a livello locale, finirono per diventare gli ingranaggi di un meccanismo di portata nazionale che puntava a considerare l’ente locale soprattutto per la nomina di personale politico –amministrativo alla direzione di altri apparati.
Cosa significò per il PCI la fine del centralismo democratico?
Il meccanismo del centralismo democratico prevedeva il divieto, all’interno del partito, di costruire delle correnti interne. L’obiettivo era quello di mantenere il partito unito e di evitare che si verificassero delle scissioni. Si trattò di uno strumento adottato da tutti i partiti comunisti in quanto faceva parte di una delle condizioni essenziali imposte da Lenin per entrare a far parte della Terza internazionale all’inizio degli anni Venti. Questo tipo di impostazione dava ai partiti comunisti una forte connotazione centralistica che rendeva limitato lo spazio per una discussione democratica e per la contestazione della leadership. Il Pci fin dalla sua nascita, fondamentalmente, si adeguò a questo modello anche se, va detto, che la democrazia interna, dal secondo dopoguerra in poi, non mancò anche se il partito si impegnò a dare un’immagine di sé all’insegna della compattezza. Riassumendo brevemente le fasi che portarono all’abbandono del centralismo democratico, e allo svilupparsi quindi di correnti interne, è possibile stabilire nel 1979, il punto di partenza di un dibattito che coinvolse larghi strati del partito. Procedere a una rapida abolizione del centralismo democratico avrebbe voluto dire abbandonare il marxismo-leninismo, e per una novità di tale portata, all’inizio degli anni Ottanta, il partito non era pronto. È interessante notare come, nel caso del Pci, negli anni Ottanta la periferia abbia sviluppato dei processi autonomi dal centro per quanto riguardava il funzionamento interno. È vero che già dai primi anni Ottanta esistevano delle correnti interne al Pci, ma queste correnti non potevano certo organizzarsi in maniera strutturata soprattutto nel periodo di Berlinguer. A livello provinciale non solo si affermarono modalità di selezione totalmente autonome dal centro, ma soprattutto si resero esplicite le divisioni interne, dettate non tanto da contrapposizioni ideologiche ma più che altro da scontri personali e da una certa insofferenza da parte della base nei confronti della dirigenza. A partire dalla morte di Berlinguer, nel 1984, si nota poi una più marcata strutturazione in correnti, che emergeranno con chiarezza dopo la «svolta della Bolognina», quando vennero formalmente ammesse delle proprie correnti strutturate e venne garantita una rappresentanza negli organi direttivi, una rappresentanza proporzionale ai consensi ottenuti dalle varie mozioni.