
Si tratta di un’influenza che spesso tende ad essere sottovalutata, anche a causa del fatto che le analisi costituzionalistiche continuano a fare riferimento alle categorie tradizionali, affermatesi nel secolo scorso, di forma di governo e indirizzo politico. Lo stesso dibattito sulle riforme istituzionali, dalla Commissione Bozzi fino alla riforma Renzi-Boschi, si è perlopiù sviluppato senza riconoscere il peso delle dinamiche europee sugli equilibri della forma di governo parlamentare, con riferimento alla quale si tende a discutere tuttora sulla base dell’inquadramento che del tema diede l’Assemblea Costituente: lo dimostra quanto ancora oggi si faccia riferimento ai contenuti dell’ordine del giorno Perassi, con la quale, il 5 settembre 1946, si optò per una forma di governo parlamentare razionalizzata.
Il volume nasce appunto dall’esigenza di prendere in considerazione in modo sistematico i processi decisionali dell’Unione europea nell’analisi della forma di governo italiana e delle sue prospettive. Poi, ovviamente, si può discutere di quali siano i concetti più adeguati per svolgere un’operazione siffatta. E in qualche misura il volume origina da un disaccordo tra i due curatori in merito all’opportunità di riferire il concetto di forma di governo all’Unione europea. Anche se va ormai considerato che, successivamente alla chiusura del volume, è intervenuta la sentenza n. 239 del 2018, della Corte costituzione. In essa, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della soglia di sbarramento del 4% per le elezioni dei parlamentari europei eletti in Italia, la Corte ha espressamente parlato di “forma di governo dell’Unione europea”, rilevandone la sua trasformazione in senso parlamentare.
Quanto l’indirizzo politico europeo trae il suo alimento e la sua direzione dalle dinamiche istituzionali che hanno luogo negli Stati membri?
Le dinamiche politiche e costituzionali nazionali tendono a giocare un ruolo importante all’interno degli equilibri istituzionali dell’Unione europea. Basti pensare, per esempio, al “ritmo” dei processi decisionali dell’UE, il quale risulta fortemente condizionato dai cicli elettorali esistenti in ciascuno degli Stati membri, e in particolare dalle scadenze elettorali dei maggiori paesi.
Va detto, tuttavia, che le dinamiche politico-costituzionali domestiche finiscono per riverberarsi non soltanto sugli assetti istituzionale dell’UE, ma, per il tramite di quest’ultima, anche su quelli degli altri Stati membri. Del resto, ogni rappresentante nazionale nel Consiglio e nel Consiglio europeo – in quanto abilitato pro quota ad incidere sulla formazione di politiche e di un diritto comune all’intera UE – concorre in un certo senso fisiologicamente a determinare un segmento dell’indirizzo politico dei paesi membri diversi da quello di provenienza.
Il tutto, peraltro, continua a coesistere con talune persistenti forme tradizionali di relazioni tra Stati sovrani, come quelle rappresentate dalla diplomazia bilaterale, o da rituali ormai fuori luogo, quali le “foto di gruppo”, con tanto di bandiere, che vengono diffuse a margine di ogni Consiglio europeo. Il che a volte dà luogo a corto-circuiti, ad esempio come quello che si è registrato di recente nei rapporti tra la Francia e l’Italia; o ad affermazioni un po’ ipocrite, come quando si richiama il principio di non ingerenza sugli affari interni di un altro Stato membro. Al contrario, l’Unione europea richiede una continuità di rapporti e giustifica un interesse e una influenza sistematici negli affari di governo degli altri Stati membri, perché questi, in seno alle istituzioni dell’UE, contribuiscono a co-determinare un indirizzo politico comune.
Come si sono evolute le forme di governo degli Stati membri in rapporto agli sviluppi del processo di integrazione europea?
Non vi è dubbio che il processo di integrazione europea abbia prodotto, nel lungo periodo, un indebolimento dei Parlamenti nell’ambito delle dinamiche decisionali nazionali. Non è un caso che nella recente ordinanza n. 17 del 2019, la Corte costituzionale abbia individuato nella «lunga interlocuzione con le istituzioni dell’Unione europea» un elemento di contesto in grado di giustificare, almeno in parte e in congiunzione con altri fattori, l’anomala compressione dei tempi di esame che si è registrata nell’ultima legge di bilancio.
Il processo di integrazione europea ha tuttavia inciso anche sugli equilibri interni al potere esecutivo, determinando un rafforzamento dell’organo monocratico di vertice del Governo (Presidente del Consiglio, Cancelliere, Primo Ministro, etc.) e del Ministro dell’Economia rispetto alle altre componenti del Governo.
Nella fase più recente, peraltro, le Assemblee rappresentative hanno cercato di recuperare un proprio ruolo all’interno dei processi decisionali europei. Si pensi, per esempio, ai “poteri europei” riconosciuti ai Parlamenti nazionali dal Trattato di Lisbona (art. 12 TUE), tra i quali spicca il controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà mediante il cosiddetto “cartellino giallo” (protocollo n. 2 allegato al trattato di Lisbona). Si tratta di strumenti tutt’altro che trascurabili, il cui rendimento appare peraltro inevitabilmente legato alla capacità delle diverse componenti parlamentari dell’Unione (Parlamento europeo, Parlamenti nazionali, Assemblee legislative regionale) di porre adeguati contrappesi, anche attraverso lo sviluppo ulteriore della cooperazione parlamentare e mediante lo sviluppo delle procedure euro-nazionali, a quella che è stata definita come “executive dominance issue”, ossia lo strapotere dei Governi determinato in particolare dall’asimmetria informativa che gioca a svantaggio dei Parlamenti.
Come si estrinseca il controllo del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali sulle diverse componenti dell’«esecutivo frammentato» dell’Unione (Consiglio europeo, Consiglio, Commissione, Banca centrale europea, agenzie)?
Sia i Trattati europei sia il diritto costituzionale nazionale hanno messo a punto strumenti sempre più sofisticati e originali per l’esercizio delle funzioni di controllo parlamentare sulle diverse componenti dell’“esecutivo frammentato” dell’UE: basti pensare alle procedure del cosiddetto “dialogo monetario”, le quali consentono al Parlamento europeo di esercitare un controllo sulla BCE per molti aspetti più intenso rispetto a quello al quale è sottoposta la FED nell’ordinamento statunitense.
Malgrado tale sforzo, le forme di indirizzo-controllo operanti a livello domestico appaiono ancora per molti aspetti insufficienti e sconnesse rispetto ai processi decisionali europei. Mentre infatti le dinamiche proprie della rappresentanza e della responsabilità sono ancora oggi ancorate alle arene politiche degli Stati membri, competenze sempre più significative tendono invece a svilupparsi a livello sovranazionale, con l’ulteriore e non secondaria difficoltà di individuare un preciso centro istituzionale al quale poter imputare la responsabilità politica di una determinata decisione.
In un sistema a più livelli, infatti, diventa assai agevole scaricare su altri la responsabilità delle scelte compiute, indebolendo i già delicati meccanismi sui quali si fondano le nostre democrazie.
Quali riflessi ha avuto nel nostro Paese l’Unione europea rispetto all’evoluzione della forma di governo: dal rapporto tra Parlamento e Governo al Presidente della Repubblica e alle stesse forme di governo regionali?
Singoli contributi presenti nel volume rispondono a questo interrogativo. Per esempio, il ruolo svolto dal Presidente della Repubblica Mattarella in occasione del lungo e complesso procedimento di formazione del Governo Conte diventa molto più comprensibile e lineare se si tiene presente il fatto che il Presidente è tenuto a garantire il rispetto di una Costituzione che, per effetto delle condivisioni di sovranità consentite, sin dall’origine, dall’art. 11 Cost. e, più di recente, dagli artt. 117 e 97 Cost., è ormai divenuta una “Costituzione composita”.
Quanto alle forme di governo regionali, anch’esse sono sia influenzate dalle dinamiche europee, sia chiamate ad esserne elemento essenziale: l’Unione europea presuppone e in qualche misura incoraggia un’articolazione territoriale dei suoi Stati membri. E, soprattutto, pone in diretta concorrenza tra di loro i vari sistemi istituzionali: quelli meno efficienti e non in grado di identificare tempestivamente e di rappresentare efficacemente i loro interessi finiscono inevitabilmente per risultare penalizzati in ambito europeo.
Ecco una ragione in più per cui occorre liberarsi da un po’ di retorica federalista, di cui a lungo il processo di integrazione europea si è circondato, specie in Italia, secondo la quale l’UE avrebbe già condotto o comunque condurrebbe, in prospettiva, ad un superamento degli Stati nazionali. Al contrario, le dinamiche decisionali che oggi caratterizzano l’UE, sempre più chiaramente intergovernative, chiedono nuove, e tutt’altro che facili, prestazioni alle istituzioni nazionali e sub-nazionali.
Di ciò occorre essere consapevoli se si vuole essere in grado di esercitare un peso significativo in queste, sempre più decisive, dinamiche.