“Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni” di Ombretta Di Giovine

Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni, Ombretta Di GiovineProf.ssa Ombretta Di Giovine, Lei è autrice del libro Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni edito dal Mulino: in che modo la questione etica riguarda anche il diritto penale?
L’idea dominante presso i “tecnici” è che diritto penale e morale siano sistemi distinti. Si suole ripetere che il diritto è – deve essere – secolare, cioè lontano innanzitutto dalla religione, ma anche dalla morale. Nel libro ho invece sviluppato un’opinione più vicina a quella dei non addetti ai lavori, i quali intuitivamente ravvisano tra diritto e morale un legame strettissimo.

La questione non è, semplicemente, che a nessuno piacerebbe un diritto immorale. Il punto è che il diritto trova nella morale buona parte del suo fondamento, della sua giustificazione. E poiché quello penale, più di altre branche del diritto, tocca aspetti fondamentali della vita degli individui, il suo legame con la morale è particolarmente forte, anche se non sempre visibile.

In altre parole, le scelte del legislatore e le decisioni del giudice sono fatte discendere da costruzioni tipicamente giuridiche: desunte o motivate sulla base dei principi/valori costituzionali e della legislazione positiva; argomentate seguendo i tipici passaggi del ragionamento logico-consequenziale o cesellate sulla scorta dei diversi “tipi” di interpretazione giuridica ecc. Ma dietro tali scelte e tali decisioni si nascondono spesso intuizioni morali.

Il nodo del rapporto tra diritto penale e morale viene a galla soltanto nel caso insorgano “dilemmi”, sui quali si focalizza il libro. Qui infatti i principi/valori entrano in conflitto tra loro e il ragionamento razionale di tipo classico fallisce.

Per inciso, i dilemmi sono più diffusi di quanto generalmente si pensi.

È possibile ricorrere alla violenza fisica su detenuti in ipotesi eccezionali per estorcere informazioni che salverebbero la vita di molte persone? È ammissibile una trattativa tra Stato e mafia quando un accordo sia l’unico modo per interrompere una spirale, altrimenti inarrestabile, di stragi? È giustificato il sacrificio della libertà personale e la compressione delle attività economiche di molte persone in nome di pure importantissime politiche sanitarie, come quelle anti-Covid? Anche la c.d. eutanasia legale, altra questione molto attuale, è un dilemma, perché implica un conflitto tra il valore della vita e quello dell’autodeterminazione individuale nonché, con riguardo a quest’ultima, tra visioni diverse dell’autodeterminazione. Queste sono alcune delle esemplificazioni svolte nel libro.

Se nei dilemmi, come dicevo, la matrice etica del diritto diviene scoperta, il problema sta nel fatto che la morale non fornisce indicazioni univoche per risolvere i quesiti. A rigore, anzi, non esiste una morale. Si danno varie teorie morali e la risposta spesso varia a seconda di quella da cui si è, più o meno consapevolmente, condizionati.

Quale morale per il diritto?
Questo è appunto il dilemma nei dilemmi. Non sono una filosofa morale (sono una giurista), ma credo sia molto difficile, se non impossibile, decretare la superiorità di una teoria morale sulle altre.

Alcune concezioni prevalgono in certi luoghi e in certi momenti su altre, ma si tratta appunto di preferenze contingenti e condizionate. In oriente, per esempio, hanno la meglio le etiche comunitariste, in cui spiccano la vena solidaristica e la logica del gruppo; in occidente, dominano concezioni individualiste, che ruotano attorno alla persona. In Europa, poi, è ancora molto forte l’ascendente kantiano; oltreoceano resistono le etiche utilitariste. Le visioni sono insomma varie e non più compatte al loro interno. Anzi, i distinguo tendono a sfumare all’insegna del dominante pluralismo. Ma anche il pluralismo, che ovviamente in sé è una ricchezza straordinaria, può diventare un problema quando determini prolungate situazioni di impasse. Una soluzione nel diritto ci vuole sempre, e sarebbe opportuno che giungesse in tempi ragionevoli, perché sia utile al cittadino.

Per questa ragione, nel libro mi chiedo se, laddove non si riesca a convergere su ipotesi condivise, e quindi falliscano gli strumenti tradizionali del giurista, alcuni dilemmi possano trovare soluzione per altra via, ovverosia riconoscendo un cauto rilievo alle emozioni.

In fondo, gli studi scientifici dimostrano che il sistema emotivo funziona in modo simile in tutti noi e questo dovrebbe tranquillizzarci perché assicura una base di maggiore omogeneità ed oggettività nel confronto con situazioni non altrimenti decidibili. Sicuramente accorcerebbe la distanza tra i cittadini e un sistema sempre più freddamente “algoritmico”.

Si noti che l’insieme d’ipotesi cui ho fatto riferimento rientra nel focus di una disciplina anch’essa appellata con il suffisso “etica”: la neuro-etica.

Almeno nelle sue prime manifestazioni, la neuro-etica, a differenza delle etiche classiche, si muoveva però su un piano descrittivo e non normativo: mirava a dar conto di un fenomeno, senza trarre dalle evidenze massime di comportamento; senza esprimere giudizi su situazioni e condotte umane (ciò che, come ho appena detto, forse non è proprio possibile nel caso di dilemmi, dove è già molto riuscire a garantire le condizioni perché si giunga a un giudizio largamente condiviso). Né aveva la pretesa di derivare dall’osservazione conferme a favore di una concezione teorica o dell’altra.

Proprio per questo, a mio avviso, questa neuro-etica fornisce suggerimenti e stimoli utili al diritto penale.

Ovviamente, in tanto sarà possibile “attivare” le emozioni, in quanto si accorcino le distanze tra chi deve prendere le decisioni e il fatto che tali emozioni suscita.

Come intuibile, ciò presupporrebbe un certo cambiamento culturale e di mentalità. Andrebbe ridimensionato il ruolo di quella che a tutt’oggi, almeno da noi, è considerata la componente più qualificante del diritto, vale a dire … le regole che ancor oggi, secondo l’opinione prevalente, sarebbero da sole in grado di conformare il comportamento umano e di assicurare al tempo stesso l’agognata certezza (obiettivi sempre più spesso falliti). Specularmente, si dovrebbe riporre maggiore fiducia nelle capacità valutative del giudice, valorizzarne la “discrezionalità”.

Ma forse non si tratterebbe di una vera svolta. Come dicevo, tante volte, dietro i ragionamenti giuridici, non c’è molto altro che un’intuizione. Intuizione affinata dall’expertise ma pur sempre guidata dalle risposte emotive che scattano nel contatto con situazioni difficili. Intuizione, insomma, travestita da ragionamento.

Quale contributo possono offrire al diritto le moderne scienze cognitive?
Le scienze cognitive hanno già recato contributi proficui al diritto. Molte loro acquisizioni sono penetrate nel discorso giuridico e gius-penalistico in particolare, anche se, al momento, prevalentemente dottrinale.

La psicologia cognitiva, per esempio, ha aiutato a stanare alcune trappole del ragionamento giuridico e quindi a prevenire o a correggere gli errori che da esso derivano.

Com’è giusto che sia, l’obiettivo, da subito, è stato valorizzare il ragionamento razionale (di tipo logico-consequenziale), facendolo prevalere su quello intuitivo.

Nel libro ho però provato a dimostrare che ciò è possibile, e utile, in un numero rilevante di situazioni, ma non sempre.

Prendendo spunto dalle osservazioni di chi, all’interno della psicologia cognitiva, ha parlato di “euristiche dell’affetto” e ha dimostrato come queste consentano in alcuni casi valutazioni più raffinate di quelle degli esperti, la tesi che sostengo nel libro è che anche nel discorso specificamente giuridico, a volte, corriamo il rischio di identificare semplicisticamente il concetto di razionalità con una comparazione costi/benefici su base matematica e probabilistica. Eppure, una decisione fondata sul mero dato quantitativo può rivelarsi, sempre in alcuni casi, meno accurata di un giudizio incentrato su profili qualitativi. Per fare un semplice esempio (tornato di attualità grazie alle posizioni del Presidente francese Macron), i rischi legati alle fonti di energia nucleare non necessariamente sono preferibili a quelli di altre fonti di energia pulita, perché statisticamente più contenuti, ove possano esitare in eventi “qualitativamente” peggiori e più duraturi. In altri casi, poi, una comparazione costi/benefici non è nemmeno astrattamente possibile. Questi sono appunto i “dilemmi” di cui mi occupo nel libro. Ed è qui che entrano in gioco le neuroscienze, dalle pure il diritto può imparare molto.

Il diritto penale riposa sulla consolidata concezione che le emozioni siano un fattore di inquinamento del giudizio: quale uso delle emozioni è invece auspicabile nel diritto?
Ecco appunto l’insegnamento più importante che le neuroscienze possono impartire al diritto penale: non sempre, non necessariamente le emozioni sviano il giudizio, e cioè lo inquinano, come il giurista (ma anche l’uomo comune) è per tradizione portato a pensare.

È vero che le emozioni, in sé, non sono né “buone” né cattive” e che, nell’ottica evoluzionistica, possono soltanto rivelarsi funzionali o disfunzionali al raggiungimento di scopi di fitness in determinati contesti. Tuttavia, gli studi scientifici condotti su soggetti con alcune patologie neuronali hanno da tempo dimostrato che deficit conclamati incidono sul moral sense, inibendo la risposta empatica di fronte alla sofferenza altrui.

Tale dato dovrebbe far riflettere.

Una risposta emotiva deficitaria può compromettere la vita sociale dell’individuo; determina svantaggi competitivi e, se si accompagna a condizioni ambientali sfavorevoli, accresce la propensione alla devianza, anche criminale. Questo ci dice molto sulla potenziata pericolosità sociale di chi è affetto dalla patologia; d’altro canto, solleva anche interrogativi impegnativi, cui il diritto penale incontrerebbe difficoltà a rispondere in modo adeguato.

Facciamo il caso degli psicopatici. Anche a voler persistere nella visione della pena come castigo, siamo sicuri che persone dotate di attitudine al ragionamento logico-consequenziale standard e talvolta addirittura superiore alla media, ma (più o meno) incapaci di cogliere il diverso disvalore di violazioni convenzionali rispetto ad offese sostanziali, meritino lo stesso rimprovero di un soggetto “normodotato”, e cioè di chi “sente a pelle” la differenza che c’è tra un rutto a tavola e un omicidio? Evidentemente no.

Eppure, del problema si parla poco in generale e per nulla nelle sentenze che – per comprensibili ragioni di difesa sociale – persistono nel ritenerci tutti eguali, anche se uguali non lo siamo affatto.

A un secondo e diverso livello, la risposta emotiva potrebbe orientarci nella soluzione dei “dilemmi”. Come già ricordato, tale risposta è simile in tutti i soggetti “sani”. Le evidenze scientifiche forniscono una spiegazione del perché, messi a contatto con una situazione di fatto o, meglio ancora, con persone in carne ed ossa, le differenze ideologiche dei “decisori” spesso si riducano o addirittura scompaiano.

Ho già fatto l’esempio del fine vita. Ora aggiungo che probabilmente nemmeno i più accaniti sostenitori della sacralità della vita in sé, vedendo con i propri occhi la sofferenza di alcuni malati, negherebbero loro il diritto a porvi fine.

Per giungere a tale risultato, non c’è bisogno, come vorrebbero invece i fautori del Referendum sulla c.d. eutanasia legale, di spazzare via la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente, rendendo lecita la condotta di chi uccide persone che glielo chiedono casomai perché tristi, sole o depresse, salvo poi verificare, a danno fatto, e cioè nel corso del successivo procedimento penale, se la volontà del “consenziente” si fosse davvero validamente formata (in caso contrario, infatti, permarrebbe l’omicidio comune).

Penso, in genere, che le emozioni suscitate dalla presa di contatto con concrete situazioni di vita abbiano buone possibilità di unire, di stemperare gli estremismi, di evitare o almeno contenere polarizzazioni, perché permettono a persone con opinioni profondamente differenti, di giungere a soluzioni condivise senza costringerle a rinnegare la propria visione del mondo.

D’altronde, se le varie soluzioni dei diversi dilemmi non possono essere giudicate “giuste” o “sbagliate”, dobbiamo arrenderci all’evidenza che una risposta omogenea è meglio di tante risposte diverse oppure di nessuna risposta.

Anche nel diritto penale è giunto insomma il momento di ripensare il concetto tradizionale di razionalità, finora costruito tutto attorno al ragionamento logico, per aprire un varco, seppur piccolo, alla componente emotiva.

Ombretta Di Giovine insegna Diritto penale nell’Università di Foggia. È membro della Commissione per l’Integrità della Ricerca del CNR e ha fatto parte di numerose commissioni ministeriali di riforma in materia penale. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Ripensare il diritto penale attraverso le neuro-scienze? (2019) e La Corte costituzionale e il fine vita (con G. D’Alessandro, a cura di, 2020), entrambe per Giappichelli.

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