“Dilemma etico del male minore e Ticking Bomb Scenario. Riflessioni penalistiche (e non) sulle strategie di legittimazione della tortura” di Gabriele Fornasari

Prof. Gabriele Fornasari, Lei è autore del libro Dilemma etico del male minore e Ticking Bomb Scenario. Riflessioni penalistiche (e non) sulle strategie di legittimazione della tortura pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane: in che modo il dibattito sull’uso della tortura quale strumento di contrasto al terrorismo internazionale è riemerso nel panorama contemporaneo?
Dilemma etico del male minore e Ticking Bomb Scenario. Riflessioni penalistiche (e non) sulle strategie di legittimazione della tortura, Gabriele FornasariQuesto dibattito non è estraneo all’esperienza del Novecento, soprattutto negli Stati Uniti, in Israele e in Germania. In quest’ultimo Paese esso ebbe una notevole risonanza negli anni Novanta perché chi sollevò la questione era un intellettuale molto famoso e accreditato, il sociologo Niklas Luhmann, che peraltro fece proseliti anche nel campo dei giuristi, come dimostrano per esempio numerosi scritti del costituzionalista Winfried Brunner. La loro tesi era che non esistono diritti assoluti, e ciò deve valere anche per il diritto a non essere torturati, al quale, sebbene sia affermato solennemente in numerosi documenti internazionali, tra cui la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, si può e si deve fare eccezione laddove non vi sia alternativa in vista della salvezza di un macro-interesse che riguarda l’incolumità di una moltitudine di persone. Già in questa impostazione si aveva in mente il fenomeno del terrorismo internazionale, così come era la minaccia del terrorismo, quello palestinese, a indurre ad affermare una tesi analoga una commissione nominata dal governo israeliano per indagare su atti di tortura commessi dalle forze di sicurezza di quel Paese nei confronti di prigionieri politici. Ma naturalmente la questione esplose negli anni immediatamente successivi al 2001, negli Stati Uniti, in seguito agli attentati alle Torri Gemelle di New York, quando l’amministrazione Bush da un lato autorizzò, sebbene non espressamente, le orribili torture che furono poi documentate fotograficamente con immagine rese pubbliche che suscitarono grande sconcerto e dall’altro utilizzò una task force di pensatori, guidati dal giurista di origine coreana John Yoo, per creare un fondamento teorico giustificativo all’uso della tortura, di fatto negando che si potesse considerare come tortura tutta una serie di attività che invece erano pacificamente configurate come tali non solo in strumenti giuridici internazionali, ma perfino nella stessa legislazione penale degli Stati americani.

Come si articola la riflessione intorno al dilemma etico del male minore?
La riflessione intorno al dilemma etico del male minore ha radici profonde nella filosofia morale, di cui sarebbe complesso ricordare qui anche solo i più importanti passaggi. Come segnalo nel libro, essa ha conosciuto un’importante reviviscenza, all’inizio soprattutto in Gran Bretagna e poi in un ambito geografico più ampio, nei primi decenni della seconda metà del XX secolo, ad opera di filosofi morali che ipotizzavano situazioni estreme, solitamente del tutto astratte, per mettere alla prova determinati principi morali. L’obiettivo era quello di individuare in sostanza il punto di equilibrio tra istanze deontologiche e istanze utilitaristiche in casi nei quali il sacrificio di un bene di elevata rilevanza è comunque inevitabile, sul presupposto che non sempre è giustificabile moralmente perseguire il male minore. Se ne trova un esempio paradigmatico nel caso di un ospedale nel quale si trovano cinque pazienti in pericolo di vita, per ognuno dei quali sarebbe necessario il trapianto di un organo, che però non si riesce a reperire; un giovane uomo perfettamente sano si presenta all’ospedale per una visita di routine e il medico si accorge che nel suo corpo ci sono i cinque organi necessari perfettamente compatibili con i pazienti in punto di morte: anche se uccidendo il giovane, espiantando i suoi organi e trapiantandoli nel corpo dei cinque pazienti si salverebbero molte più vite di quella che viene sacrificata, è chiaro che sarebbe oltremodo problematico giustificare moralmente una tale azione.

Come si sono evoluti il pensiero e le norme sulla tortura?
Si tratta di una storia molto lunga, ma volendola condensare al massimo si può dire che fino almeno alla metà del XVIII secolo la tortura ha rappresentato uno strumento assolutamente ordinario all’interno del processo penale, anzi è lecito affermare che vi fosse quasi una coincidenza fra l’attività di processare e quella di torturare gli accusati, poiché la prova per antonomasia era la confessione e si reputava (del tutto erroneamente, come è dimostrato anche da molte ben note vicende storiche, come quella della peste milanese raccontata prima da Pietro Verri poi da Alessandro Manzoni nella “Storia della colonna infame”) che la tortura fosse il mezzo più efficace ed irrinunciabile per indurre a rivelare la verità, precisando anche che ciò valeva sia nell’ambito delle procedure della Santa Inquisizione sia in quello dei processi secolari. Nel Settecento si ebbe la svolta, dapprima attraverso l’opera di antesignani dell’Illuminismo come Christian Thomasius, ma poi soprattutto, e con ben altra enfasi e notorietà, con il libro “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, pubblicato nel 1764. L’invettiva di Beccaria contro la tortura fu durissima e senza appello, venendo criticata come disumana e al contempo inutile, tanto che essa fece presa anche su alcune importanti teste regnanti del suo tempo, a cominciare dalla stessa imperatrice Maria Teresa d’Austria, sotto il cui governo il libro fu scritto, che ne furono condizionate al punto di emanare norme che la abolivano o almeno ne limitavano sensibilmente l’uso legittimo. Ciò non significa, peraltro, che la pratica della tortura, nei processi e soprattutto nell’attività delle polizie segrete che venivano impiegate dai governi specie negli anni della Restaurazione contro gli avversari politici, segnasse definitivamente il passo, ma anche se certamente questo non può essere affermato, si può sostenere con cognizione di causa che il suo uso perse il suo carattere di sistematicità e che si diffuse la percezione del suo carattere disumano. Dunque, appare certamente ingenua ed illusoria la tesi di chi ha sostenuto nel primo Novecento che ormai la tortura era una pratica appartenente esclusivamente al passato, tuttavia è vero che dagli anni Quaranta, nel quadro della nuova sensibilità rappresentata da un deciso rigetto dei gravi crimini contro l’umanità, sia iniziata una fase in cui si è voluto circondare il diritto a non essere torturati di una tutela particolarmente incisiva, come diritto assoluto e incondizionato, sancito da una fitta rete di norme internazionali, tra cui spiccano l’art. 7 della CEDU e la Convenzione del 1984, che impone agli stati aderenti, che sono un numero molto alto, l’obbligo di dotarsi di disposizioni effettive volte a vietare ogni forma di tortura sotto minaccia di sanzione penale. A questo riguardo, non è edificante per noi la vicenda che riguarda l’Italia, perché, pur essendo stato uno dei primi Paesi a firmarla, ha tuttavia dato attuazione legislativa a quell’obbligo vincolante oltre trent’anni dopo, per di più con l’inserimento nel codice penale di una norma per molti aspetti decisamente criticabile.

Quali argomenti caratterizzano il dibattito circa la ri-legittimazione della tortura?
Il punto dolente è proprio che, nell’era in cui a livello normativo vigono su scala pressoché planetaria divieti assoluti di tortura, da un lato si è ricominciato a torturare con inusitata frequenza, e dall’altro si sono fatte strada impostazioni teoriche volte a ridare legittimazione a una pratica contraria a ogni principio di civiltà sulla base di argomentazioni, come quella che evoca lo scenario della bomba a orologeria, che hanno facile presa su un vasto pubblico, ma non reggono ad un vaglio logico appena un po’ approfondito. Appare singolare come i sostenitori della tortura (i quali peraltro quasi sempre esordiscono nei loro contributi dichiarandosi paladini della lotta contro la tortura che però vedono la necessità di accettare un’eccezione in casi particolarissimi) rimproverino da un lato coloro che vi si oppongono in modo assoluto di essere scollegati dalla realtà, ma poi d’altro lato fondino il loro punto di vista sulla rappresentazione di situazioni del tutto irrealistiche, in cui si danno per scontati una quantità di elementi che è sostanzialmente impensabile che si concretizzino tutti in una volta: la polizia detiene un soggetto del quale si sa con assoluta certezza che ha collocato in città una bomba in grado di uccidere migliaia di persone; questa bomba, si sa pure con assoluta certezza, scoppierà entro pochissimo tempo (negli esempi di solito si sa anche esattamente quanto tempo) e siccome non c’è altro mezzo per scoprire dove si trova esattamente e la tortura del colpevole è uno strumento che con matematica sicurezza fornirà con assoluta precisione le informazioni necessarie nel tempo a disposizione, ecco che, in questo scenario, è perfettamente legittimo ricorrere alla tortura e anzi secondo qualche autore lo stato ha l’obbligo morale e giuridico di farlo. Di fronte all’obiezione dell’implausibilità di una situazione del genere (si dichiara colpevole un soggetto che non è ancora stato processato, si sa praticamente tutto ma curiosamente non si sa solo dove si trova la bomba, si ritiene che la tortura sia uno strumento di prova assolutamente e inderogabilmente efficace quando secoli di storia dimostrano il contrario, perché il torturato potrebbe resistere e tacere, oppure mentire, oppure in effetti non sapere nulla), le repliche hanno la singolare caratteristica di rendere più plausibile la situazione in oggetto rinunciando piano piano ad alcuni degli elementi che la rendono irrealistica, con esiti che sono un’eccellente dimostrazione della bontà dell’accusa di una china scivolosa, dato che si giunge a sostenere autentiche bestialità come l’opportunità di torturare anche chi non è colpevole, per esempio un mero testimone o addirittura, per indurre il sospettato a confessare, una persona a lui particolarmente cara in sua presenza, dimostrando che tutte le certezze dell’esempio originario in realtà sono solo delle possibilità. Infine c’è l’escamotage dei torture warrants, una tortura possibilmente mite (un evidente ossimoro!) su mandato giudiziario, da effettuarsi sotto controllo medico, dunque alla luce del sole, in base al bizzarro argomento che siccome nonostante tutti i divieti nel mondo si tortura in modo massiccio tanto vale rendere la tortura legale (lascio solo elaborare ai lettori qualche inevitabile conseguenza logica di questo brillante ragionamento…) e limitata ai soli casi in cui un giudice la ritiene opportuna; mi auguro che tutti i lettori che sono giudici o medici (ma anche tutti gli altri) facciano le dovute riflessioni sulle regole deontologiche a cui le loro professioni si ispirano!

In quali casi giurisprudenziali è stato opposto il rifiuto della rilevanza esimente della «tortura di salvezza»?
Tra gli esempi che ho fatto nel libro, mi piace ricordare una vicenda giudiziaria italiana degli anni ottanta, che già mi colpì quando da neolaureato lessi la sentenza del Tribunale di Padova (poi confermata nei successivi gradi di giudizio), pubblicata nel prestigioso Foro Italiano, con cui venivano condannati, anche se a pene decisamente miti, alcuni agenti di polizia autori di conclamate ed evidenti torture ai danni di un esponente della colonna romana delle Brigate Rosse, detenuto in quanto imputato del sequestro di un generale americano della Nato: nelle limpide motivazioni dei giudici padovani si legge il rifiuto della tesi della difesa, volta ad ottenere l’assoluzione degli agenti in applicazione dell’esimente dello stato di necessità, poiché essi avrebbero agito al fine superiore di garantire allo stato informazioni utili per combattere più efficacemente il terrorismo: la risposta del Tribunale fu che lo stato di diritto può e deve lottare anche contro i fenomeni criminali più gravi con gli strumenti legali dello stato di diritto. Va notato che, a distanza di molti anni, il comandante del gruppo di torturatori confessò in un’intervista alla stampa che in quelle circostanza il ricorso alla tortura in realtà era del tutto ingiustificato.

Su quali motivazioni deve dunque basarsi il rifiuto della legittimazione della tortura?
La tortura è un male assoluto, è degradazione della dignità dell’individuo, è di per sé abuso e sopraffazione, e questa è la ragione per cui gli strumenti internazionali che la condannano lo fanno senza eccezioni, ed è un caso unico, perché perfino il bene della vita umana può essere sacrificato in casi eccezionali, come per esempio l’esercizio della legittima difesa.

Ma una visione come questa, di natura prettamente deontologica, potrebbe essere messa in discussione, secondo un punto di vista che come abbiamo visto ha avuto diversi sostenitori negli ultimi tempi, se ci si trovasse di fronte alla situazione descritta come scenario della bomba a orologeria (ticking bomb scenario): in questo caso bisognerebbe lasciare dunque mano libera alle forze di sicurezza perché agiscano senza limitazioni e pertanto lasciando anche la facoltà di torturare.

Di fronte a questa obiezione si potrebbe mantenere ferma la visione deontologica del rifiuto assoluto, oppure applicare una metodologia utilitaristica per rintuzzarle sul loro stesso terreno.

La mia scelta, che peraltro lascia impregiudicata la convinzione della totale inaccettabilità morale e giuridica della tortura, è nel senso di accettare la sfida e dimostrare l’insussistenza dell’obiezione alla luce del carattere irrealistico degli esempi proposti, buoni per costruire la trama di una serie televisiva per stomaci forti di modesta qualità artistica (la famigerata ‘24’ dell’americana Fox, un autentico manifesto ideologico di esaltazione della bontà della tortura), ma non ipotizzabili davvero nella realtà concreta delle cose, e dunque ribadire che lo stato di diritto si difende efficacemente con gli strumenti dello stato di diritto ed è giusto che rinunci a una pratica come la tortura, che non dà alcuna garanzia di effettività e si presta in quanto tale ad abusi contro la dignità umana che sono degni solo dei peggiori regimi liberticidi.

Gabriele Fornasari è Professore Ordinario di Diritto penale nell’Università di Trento; in precedenza è stato docente a contratto nell’Università di Genova, Borsista della Fondazione Humboldt e Gastprofessor nell’Università di Göttingen. Autore di 220 pubblicazioni in Italia e all’estero, tra cui 7 libri come autore o coautore e 21 come curatore, è stato Coordinatore della Scuola di Dottorato in Studi Giuridici Comparati ed Europei di Trento ed è attualmente Condirettore della rivista Diritto penale XXI secolo e Investigador Asociado presso il Centro de Investigaciones en Filosofia del Derecho y Derecho penal di Valparaiso.

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