
A questo proposito è d’obbligo citare la nota definizione di Gregory Bateson “the map is not the territory” la mappa non è il territorio, in cui per mappa si intende la conoscenza cibernetica dell’informazione, la discretizzazione dei dati che la mente elabora dal caos che la circonda. Nel nostro caso la “mappa” è anche il codice necessario per esplorare la città e quindi ne rappresenta la coscienza simbolica. Per questo motivo l’apparente dicotomia fra la realtà urbana costruita (le rovine del passato, gli edifici del presente) e quella pensata-immaginata (il modello culturale), può essere meglio risolta attraverso tecnologie complesse di visualizzazione e rappresentazione. In breve, le potenzialità del digitale risiedono nella capacità di generare infinite mappe di conoscenza e di lettura del territorio urbano, sia nello spazio costruito che in quello semplicemente pianificato o lasciato vuoto. In archeologia lavoriamo molto con strumentazioni geofisiche (magnetometria, prospezioni georadar e geoelettriche) che consentono di creare modelli predittivi di città e insediamenti penetrando il suolo con sensori differenti.
Fra le nuove opportunità inserirei poi lo studio dei contesti urbani nello spazio-tempo, o meglio nell’universo quadridimensionale che questi rappresentano. Le trasformazioni urbane a livello diacronico infatti sono un tema storico, architettonico e archeologico molto interessante che le nuove tecnologie possono affrontare con maggiore successo che in passato. Cioè l’approccio tradizionale nello studio urbano si concentra nella riproduzione di fasi principali, esperibili o documentabili del contesto spaziale, ma non affronta il problema della dinamica del cambiamento, le transizioni, i movimenti, le demografie in progress. Dal punto di vista cognitivo-percettivo la memoria urbana si basa sulla facoltà bioculturale di placemaking, ovvero sulla creazione di luoghi significativi e narrabili nello spazio. L’evoluzione/trasformazione in simulazioni virtuali immersive si può attuare attraverso modellazioni procedurali, modelli semantici generati da studi sulla complessità e le reti: dobbiamo immaginare il tutto per comprenderne le parti.
Come si è evoluta la ricerca sulla storia e l’archeologia delle città nella prospettiva digitale?
Il tema della ricerca digitale per la storia e archeologia della città si è evoluto in modo consistente negli ultimi anni a livello tecnologico ma soprattutto metodologico. Mi riferisco al fatto che la ricerca si è spinta molto avanti seguendo nuove domande e tematiche che prima non erano state considerate adeguatamente e conseguentemente con un approccio totalmente multidisciplinare. Un aspetto decisivo nell’evoluzione degli studi credo sia stata una sostanziale integrazione di saperi e conoscenze scientifiche che in passato erano separati, ad esempio: gli studi paleoambientali, l’archeometria, l’archeologia muraria, gli studi demografici.
In senso più prettamente metodologico e tecnologico, la ricerca si avvalsa di nuove banche dati sulle città e il territorio, associate a studi in macro-scala su paesaggio, ambiente e contesti pre-urbani e urbani. In archeologia, ad esempio, negli ultimi decenni la ricerca si è finalmente focalizzata sullo scavo di aree urbane e non solo sulle necropoli (ad ex. nell’Italia pre-romana), e quindi sullo studio delle grandi infrastrutture, le produzioni, le attività industriali.
Un altro grande tema molto attuale è quello dello studio delle trasformazioni urbane: la città vista come un organismo vivente in sviluppo e cambiamento costante. A questo si aggiunge la definizione stessa di città in relazione al problema antropologico della formazione. Perché, come si sviluppa la città? Quali sono i modelli culturali, economici, demografici e ideologici che la generano e la caratterizzano?
Riflettendo queste tematiche sulla contemporaneità, viene da pensare a questo periodo pandemico come alla creazione artificiale di co-abitazione e non di condivisione sociale del modello urbano. Cioè la percezione dell’urbanità è incentrata sulle attività domestiche e insediative e non più sulla socialità degli spazi. Un esperimento quasi unico nel suo genere in macro-scala.
Quali le conseguenze della digitalizzazione della ricerca storica?
Prima di tutto l’archiviazione e mappatura digitali di vaste regioni del globo (dalla protostoria ad oggi) hanno convertito e trasformato il sapere storico in conoscenza digitale, democratizzando l’informazione attraverso le biblioteche digitali, gli archivi on line, i musei virtuali (in situ e on line), la moltiplicazione di dati spaziali accessibili gratuitamente e pubblicamente attraverso piattaforme dedicate on line. A questo si aggiungono mappe digitali espressamente dedicate allo studio dell’antichità, dalle strade romane, al paesaggio pre-romano, alla colonizzazione greca, ai trasporti e commerci, all’immigrazione, all’antropologia del paesaggio sino ad arrivare alla contemporaneità.
In breve, la rivoluzione digitale a larga scala ha offerto nuove prospettive di ricerca sulle città secondo una visione più olistica del tema di ricerca moltiplicando a dismisura l’accesso digitale a dati spaziali e non. Le grandi biblioteche universitarie e di ricerca condividono una grande quantità di risorse visuali e sonore, non solo testi, quindi, e questo ha avuto un grande impatto nella ricerca storica in senso lato ma anche sulla definizione del genoma delle nostre città. Questo processo si sta rapidamente evolvendo nella musealizzazione virtuale e sistematica della cultura materiale, degli archivi, delle collezioni d’arte, e dei beni culturali in genere.
Un esempio significativo deriva proprio da questo periodo di clausura forzata pandemica che stiamo vivendo: il consumo di risorse storiche on line è cresciuto notevolmente anche grazie al fatto che molte istituzioni hanno condiviso molti più dati on line e senza più vincoli di copyright.
Quali sono gli strumenti digitali più utilizzati nella ricerca storica e archeologica?
Il rapporto fra descrizione e narrazione di ambiti urbani passa forzatamente dalla creazione e rappresentazione di mappe spaziali. È un processo bio-culturale a cui il genere umano non può sottrarsi, sin dalla preistoria. Mi viene in mente, ad esempio, la mappa di Venezia realizzata da Ludovico Ughi nel 1729 con tecniche di rilevamento particolarmente innovative per l’epoca: in quel caso l’innovazione consisteva nel passare dalla tipica visione della mappa a volo d’uccello alla mappa topografica spaziale e in scala di dettaglio. Ovviamente oggi abbiamo strumenti molto più potenti a disposizione sia per la ricerca storica che archeologica ma la rilevanza spaziale del dato rimane prioritaria. Prima di tutto è corretto spiegare che ci sono molte aree di sovrapposizione fra ricerca storica (basata sulle fonti) e archeologica (cultura materiale) ad esempio nella ricostruzione e rappresentazione virtuale delle informazioni e dei modelli architettonici e visuali o nella modellazione procedurale. Una simulazione in realtà virtuale o in computer grafica si può basare su dati storici o archeologici o utilizzare entrambi quando possibile.
Più nello specifico, la ricerca storica si avvale principalmente di tecnologie di acquisizione e rappresentazione del dato cartografico, mappe digitali, GIS (sistemi informativi geografici), strumenti di simulazione di dati complessi e dati di archivio digitali (i “repositories”).
In archeologia, oltre ai GIS, la ricerca sul campo utilizza un ampio spettro di tecnologie avanzate per l’acquisizione e la rappresentazione/simulazione dei dati. Per l’acquisizione di dati sul campo: prospezioni geofisiche (georadar, magnetometria, geoelettrica), telerilevamento da aereo o da drone (dotati di sensori multispettrali per l’identificazione di aree archeologiche), rover-robot dotati di sensori per mappare lo spazio circostante, laser scanner, scanner ottici, strumenti ottici e fotogrammetrici. Per la simulazione: strumenti di realtà virtuale (gaming e caschi virtuali), realtà aumentata, modellazione tridimensionale, intelligenza artificiale.
Come prospettiva futura vorrei citare gli esperimenti di ricerca che il mio laboratorio, il [email protected] della Duke University (https://diglab.duke.edu) ha avviato sulla neuroarchaeology, che si occupa della simulazione di processi cognitivi da dati materiali. Nel nostro caso stiamo utilizzando sistemi tracciamento visuale (eye-tracking), elettroencefalogrammi (EEG) e altri sensori per capire come reagisce il cervello durante applicazioni di realtà virtuale e simulata, utilizzando come caso di studio il nostro scavo archeologico a Vulci (Viterbo), una città Etrusca e Romana e altri monumenti antichi digitalmente ricostruiti. Temi di ricerca come memoria visuale, impatto cognitivo, memoria spaziale, hanno enormi potenzialità in ambito neuroarchaeologico e umanistico.
Nel panorama della Digital City, quale ruolo per la storia e archeologia delle città?
Direi un ruolo assolutamente centrale; la storia e archeologia delle città è un tema di ricerca fondamentale che connette passato, presente e futuro. Non esiste processo urbano che non sia influenzato da preesistenti modelli culturali, sociali ideologici e che non influenzi a sua volta modelli futuri. Una formazione urbana contempla sempre una genesi complessa e molto ricca di informazioni. La conoscenza di un tessuto urbano non è solo un problema empirico basato sullo studio delle evidenze (sotterranee o degli alzati) ma rappresenta una sfida scientifica molto complessa che deve tenere conto di variabili architettoniche ma anche ambientali, paesaggistiche e cognitive. Un tema primario è costituito dai processi di identità e ibridazione culturale: un modello culturale urbano è l’effetto di migrazioni, integrazioni, ma anche di discriminazioni marginalizzazioni, conflitti sociali. Quale è dunque la memoria storica e sociale di una città? A chi appartiene?
A questo proposito vorrei citare un caso di studio e musealizzazione virtuale che abbiamo realizzato nel 2013 per la città di Reggio Emilia, il [email protected] Project 2200 (https://diglab.duke.edu/projects/regiumlepidi-2200) in cui abbiamo cercato di coniugare la conoscenza della città contemporanea con le sue origini romane simulando in realtà virtuale i due piani urbanistici. L’esperimento antropologico alla base del progetto è stato il tentativo di suggerire ai cittadini e visitatori un livello di lettura diverso di una città antica quasi invisibile, empiricamente intangibile, ma in effetti riconoscibile nella riproposizione degli spazi, della viabilità, di un urbanesimo simulato. Anche nelle “smart cities” del futuro ci dovremo ricordare della complessità storica e archeologica delle città.
Maurizio Forte è professore di Classical and Visual Studies alla Duke University e Direttore del [email protected]