
Nel nostro ambito, infatti, ci si interroga approfonditamente su quello che nel mio volume ho provato a definire come lo statuto epistemologico della didattica delle lingue con domande del tipo: qual è l’oggetto dei suoi studi? ha un ambito di riferimento specifico o si tratta semplicemente di un ambito di interesse che si lega principalmente al fare didattica in aula e che dal punto di vista teorico si rimanda ad un quadro di interessi più ampio?
Personalmente, e non potrebbe essere altrimenti avendo scritto un manuale su questi temi, propendo per un’idea che vede nella didattica delle lingue una disciplina dallo statuto autonomo seppur debitrice di molte altre scienze. Provo a sintetizzare il perché di questa mia posizione.
Innanzitutto serve distinguere nettamente tra l’insegnamento di una lingua straniera, cosa che si fa da sempre, e la riflessione teorica sul processo di insegnamento e di apprendimento di una lingua straniera. La riflessione su questi temi, inizia molto più avanti, sul finire dell’ottocento per dare un’idea, e partendo dalla riflessione sul metodo arriva ad espandere pian piano il proprio raggio di azione fino ad arrivare agli anni 70 del novecento dove inizia ad affermarsi come un ambito di interesse specifico. Resta comunque una disciplina quasi “alle prime armi” il che ha secondo me contribuito a ritenerla per alcuni una non disciplina.
Eppure essa è dotata di una sua terminologia tecnica, di settori di ricerca ben delineati e di cornici teoriche raffinate. Certo, resta una disciplina dallo statuto epistemologico debole, una volta si sarebbe definita una scienza morbida, ma questo non vuole dire che essa non abbia un proprio specifico campo di indagine.
Che rapporto hanno gli italiani con le lingue straniere?
Su questo tema mi sono dilungato nel mio volume perché ritengo la storia linguistica dell’Italia, del rapporto tra italiani e lingua nazionale e altre lingue copresenti sul nostro territorio, emblematico se non addirittura paradigmatico delle relazioni possibili tra popoli e lingue parlate.
Sono partito dall’amara costatazione che è sotto gli occhi di tutti: non siamo un paese che brilla per competenze in lingue straniere, ma ho provato ad andare oltre e cercare di capire più a fondo i termini della questione senza limitarmi a meri slogan del tipo “gli italiani non sono portati per le lingue” che banalizzano la questione senza spiegare alcunché.
Tanto per cominciare non credo si possa parlare di propensione verso le lingue. Tutti i cervelli sono “costruiti” per apprendere uno o più lingue, semmai è alla società italiana che si deve guardare. E guardando si nota come sia sempre stata presente una condizione di plurilinguismo tale per cui per una parte molto vasta di italiani l’italiano non è mai stato la loro lingua madre, o utilizzando un acronimo usato nella nostra disciplina, la loro L1. L’italiano è piuttosto la loro “L-non-1” se mi si passa il gioco di parole. Ovvero una lingua matrigna, non sentita da moltissimi di noi come la lingua della dimensione interiore, quella che amiamo parlare e ascoltare quando siamo in situazioni di relax tra amici. A tal proposito, si è anche detto che l’italiano è per noi il vestito buono da mettere nei giorni di festa. La lingua cioè delle situazioni formali e pubbliche. Ecco proprio perché essa è il vestito della festa, non è certo il vestito più comodo da indossare per la vita di tutti i giorni. A questo pensa il dialetto che lungi dall’essere un italiano parlato o scritto male è una vera e propria altra lingua che copre la maggior parte delle situazioni comunicative. Perciò quando noi italiani ci imbattiamo in un’altra lingua, per noi questa è da considerare come una ulteriore L2 da aggiungere all’italiano complicando le cose. A questo va aggiunto, come un correlato disposto, le scelte operate dalla società italiana in questi anni che sono state tutte o quasi non favorevoli alla diffusione delle lingue e, ancora più importante, non favorevoli alla diffusione dell’idea che conoscere le altre lingue sia importante per l’affermazione personale e professionale.
Da tutto questo, e non da una presupposta non predisposizione all’apprendimento delle lingue, derivano le difficoltà che andiamo riscontrando. Ma va anche detto che le cose iniziano a cambiare in meglio e se prendiamo in considerazione non l’intera popolazione parlante ma solo quella più giovane si può vedere come i dati sulla conoscenza delle lingue migliorino sensibilmente. Insomma, seppur con ritardo, ci stiamo rimettendo in linea con gli altri paesi europei più avanzati.
Quali teorie spiegano lo sviluppo della competenza linguistico-comunicativa?
Descrivere le ipotesi teoriche sullo sviluppo della competenza linguistico-comunicativa è un’operazione complessa perché convivono nella letteratura sull’argomento varie posizioni, alcune anche in aperto contrasto tra di loro, che rendono la questione priva di un approdo condiviso da tutta intera la comunità scientifica.
Anche per questo motivo nel mio lavoro ho preferito parlare di ipotesi, invece che di teorie, al fine di rendere l’idea di una materia soggetta a punti vista differenti, che giungono a conclusioni accettate e condivisibili solo da una parte della comunità scientifica e che non hanno un valore di verità paragonabile a quello di una teoria scientificamente dimostrata. Insomma, per noi 2 + 2 non sempre fa 4.
Allo stesso tempo, non dobbiamo cadere nel rischio opposto che ci spingerebbe a considerare tutto ammissibile, come una sorta di deriva dove qualsiasi ipotesi, anche la più strampalata, può essere ritenuta attendibile.
Per questo nel nostro lavoro abbiamo tenuto in debita considerazione tutte le ipotesi fondate scientificamente che nel tempo sono state formulate cercando di fornire un quadro il più possibile esaustivo delle visioni che sono in campo, ora e nel passato.
Come criterio ordinatore per la nostra esposizione abbiamo optato per il peso dato di volta in volta ai due macro fattori in gioco quando si parla di apprendimento: mente e ambiente.
Nel caso delle ipotesi “mentaliste” si pensa ad un individuo dotato di un qualche dispositivo geneticamente presente nella mente di ciascun parlante che coadiuva e rende possibile l’apprendimento linguistico; nel caso delle ipotesi “ambientaliste”, invece, la mente alla nascita è vista come una tabula rasa, un territorio vergine, e tutto quello che si apprende perciò lo si apprende per tramite dei processi di interazione con l’ambiente esterno e di cosiddetta “acculturazione progressiva”.
Come avviene l’apprendimento di una lingua straniera?
Una lingua straniera ovviamente può essere appresa in vari modi quel che conta è il risultato finale.
Pensando al luogo dove una lingua viene appresa si distingue tra lingua appresa nel luogo dove questa è anche lingua nazionale, parlata quindi in tutti i contesti comunicativi, e lingua appresa in un luogo dove questa non è lingua nazionale e quindi la si può incontrare solo nel contesto didattico.
Abbiamo quindi una coppia di termini che fa riferimento al luogo in cui l’apprendente si trova.
Lingua seconda per descrivere una lingua appresa da stranieri che vivono nel paese dove quella lingua è lingua nazionale. Si pensi ad esempio al nostro italiano con gli apprendenti migranti che lo apprendono utilizzandolo per comunicare con noi una volta giunti nel nostro paese.
Si usa, invece, lingua straniera per descrivere le situazioni di apprendimento nei luoghi dove quella determinata lingua non è lingua nazionale. È il caso, ad esempio, per noi italiani, dell’inglese appreso a scuola qui in Italia.
Nel mio volume mi sono posto il quesito se sia sempre così necessario distinguere nettamente tra apprendimento di una lingua fuori dai suoi confini geografici di utilizzo e apprendimento di quella lingua nel territorio dove è usata come lingua nazionale. E se lingua seconda e lingua straniera richiamano veramente due mondi così distanti e inconciliabili.
Personalmente ritengo che quando si fa riferimento alle grandi lingue di cultura, lingue parlate in tante parti del mondo, lingue che è facilissimo “incontrare” anche una volta usciti dalla nazione dove sono le lingue d’uso comune, resta un po’ complicato continuare a parlare di lingua seconda o lingua straniera. Quando si parla di una lingua come l’inglese, come facciamo a dire se la si sta apprendendo come lingua seconda o come lingua straniera? Ha senso legarsi ancora ai confini geografici?
La nostra proposta, quindi, propende per sfumare maggiormente i confini di questa distinzione sempre più difficile da mantenere rigidi, in favore di una visione più sfumata e dove far prevalere l’utilizzo del più neutro acronimo L2 che in sé racchiude i significati e i possibili utilizzi sia di lingua seconda che di lingua straniera.
Contestualmente andrebbe considerato il modo in cui una lingua si apprende. Esso può essere guidato da qualche docente o tutor, oppure spontaneo, cioè “ingaggiando”, per dir così, una sfida quotidiana con la lingua da apprendere immergendosi nei contesti comunicativi dove è obbligatorio usarla. Si dice spesso che questo secondo sia il modo più efficace, nel mio libro provo invece a risollevare le sorti dell’apprendimento guidato.
Quali fattori interagiscono nel processo di apprendimento?
Il processo di apprendimento è un fenomeno assai complesso e che chiama in causa diversi fattori.
L’esito finale diventa una sintesi tra “quello che accade nella testa di chi apprende” e “dalle opportunità comunicative determinate dall’ambiente esterno”.
Qualsiasi processo di apprendimento, infatti, è sempre l’esito dell’azione congiunta di tanti fattori interni e esterni all’individuo che apprende. Talvolta alcuni di essi non dovranno essere presi in considerazione perché si tratta di fattori che agiscono nei contesti guidati, specifici quindi della didattica in aula.
Nel mio volume ho parlato quindi dei fattori motivazione, età, genere, stile cognitivo, e personalità facendoli interagire con il ruolo dell’ambiente circostante, del docente che si incontra in aula e della società.
In particolare ho cercato di soffermarmi su quelli meno indagati, quale ad esempio l’aula, sia quella reale che quella cosiddetta virtuale. Qui ho cercato di mettere in luce come non solo le dinamiche studenti-docente che li si sprigionano, ma anche la conformazione stessa di questo ambiente (i suoi arredi, i supporti tecnologici presenti) possano o non possano coadiuvare il processo di apprendimento linguistico.
Quali competenze deve possedere il docente di lingue straniere?
Va detto che per anni la didattica delle lingue è stata vista un po’ come un processo automatico: si entra in classe e si apprende, qualunque sia il docente e qualunque siano i metodi e le tecniche da egli utilizzate.
Più di recente, invece, il processo di apprendimento è visto come un processo complesso e articolato che chiama in causa fattori differenti, compreso appunto il docente, e che per compiersi correttamente ognuno di questi fattori si deve allineare correttamente.
Il docente in pratica cessa di essere visto come un elemento neutro, qualcuno il cui unico compito è quello di passare le informazioni ai propri studente e di valutarli al termine del loro processo di apprendimento, per diventare un attore egli stesso di questo processo in qualche modo responsabile dei successi e degli insuccessi dei suoi apprendenti.
Se volessimo disegnare una parabola del cambiamento del ruolo del docente di L2, potremmo dire che si è assistito ad un passaggio da docente dittatore, unico autorizzato a stabilire contenuti, modi e tempi della didattica, a figura di primus inter pares, un coordinatore cioè delle attività proposte in classe e finalizzate allo sviluppo della competenza linguista dei propri allievi.
Questo cambiamento non deve essere inteso come un’abdicazione da parte del docente o peggio ancora una progressiva e imminente scomparsa di questa figura. Va inteso piuttosto come un suo riposizionamento e di un “avvicinamento” ai bisogni della classe. Tutte le trasformazioni però richiedono tempo per compiersi e soprattutto una rinegoziazione delle competenze necessarie per poter operare oggi in una classe di lingua straniera.
Per tutto questo, la figura del docente di lingua si è negli anni resa più difficile da svolgere. Se un tempo bastava sapere parlare bene la lingua oggetto di insegnamento, specie – occorre dirlo – nei contesti di insegnamento delle lingue nella scuola italiana, oggi per i motivi che abbiamo provato a spiegare non è più così. Servono conoscenze teoriche, conoscenze metodologiche e soprattutto una capacità di entrare in empatia con la classe. Se per i primi due aspetti la lettura di un manuale come il mio può aiutare, per il terzo non esistono manuali che tengano: si tratta di predisposizione al ruolo.
Come scegliere il metodo nella didattica delle lingue?
La questione del metodo è talmente complessa che la stessa definizione di ciò che è possibile indicare come tale è controversa.
Si è stentato, infatti, a distinguere tra approcci, metodi, strategie e tecniche. Oggi appare chiaro che le tecniche siano qualcosa di sottodimensionato rispetto a metodi e approcci e si riferiscono più alla dimensione delle attività e degli esercizi che gli insegnanti scelgono di proporre qualunque sia il metodo (o l’approccio) di riferimento. Anche sul termine strategia c’è condivisione ritenendola la dimensione che determina il modo in cui il docente attua il suo piano didattico.
Ancora non condivisa invece la distinzione tra approccio e metodo.
Per alcuni approccio e metodo sono in relazione gerarchica; con approccio usato per indicare più la visione di apprendimento correlata alle scelte metodologiche messe in atto e metodo che invece viene usato per indicare un piano generale e ordinato di azioni per arrivare allo sviluppo della competenza linguistico comunicativa.
Altri invece, usano i termini metodo e approccio come completi sinonimi.
Altri ancora, invece, pur mantenendo sullo stesso piano semantico i due termini preferiscono usare metodo per riferirsi ai modi di insegnare le lingue più tradizionali e strutturati e approccio per indicare quelli meno strutturati e più aperti alle variazioni legate alle istanze dei corsisti.
Comporre una storia del metodo mostrando i cambiamenti che ci sono stati in tutti questi anni è un cosa che è possibile fare da molti punti di vista.
Io ho scelto di mostrare l’evoluzione dei metodi osservando i cambiamenti che ci sono stati nella relazione docente – studente, che è un po’ il filo conduttore adottato nel corso di tutto il mio volume allorquando mi son trovato a discutere di questioni didattiche. Una lunga e faticosa trasformazione, fatta di spinte innovatrici e rallentamenti in talune prassi didattiche che continuavano su vie più tradizionali, che ha portato ad una nuova visione di metodo.
In questa nuova visione al centro del processo viene collocato l’apprendente e il docente, come ho detto in precedenza, cambia ruolo e funzioni.
Nessuno metodo è buono per tutte le occasioni, serve dotarsi di tanti metodi per scegliere quello più opportuno sulla base di chi si ha di fronte in quel momento, i suoi bisogni e le sue motivazioni.
Cosa cambia con la didattica delle lingue on line?
L’utilizzo delle nuove tecnologie per la didattica delle lingue è certamente uno dei tratti pertinenti della fase che stiamo attraversando. Per questo gli ho voluto dedicare nel mio libro un intero capitolo. Se posso dire, per la prima volta un manuale di didattica delle lingue affronta così sistematicamente il tema.
Dovendo riflettere sull’apporto dell’innovazione tecnologica alla didattica delle lingue serve a mio avviso fare un po’ d’ordine e stabilire un criterio ordinatore che ci consenta di circoscrivere il discorso alle sole nuove tecnologie, lasciando in disparte tutto quello che è stato utilizzato nel corso dei decenni in aula e che all’epoca si sarebbero potute chiamare forme di innovazione tecnologica mentre oggi non sono altro che forme, al massimo, di modernariato tecnologico.
Questo criterio ordinatore è, a mio avviso, internet. Solo le modalità didattiche che utilizzano la rete, infatti, possono oggi essere catalogate come nuove.
Lo stesso utilizzo di un personal computer, che pure si avrebbe la tentazione di classificarlo tra le nuove tecnologie per la didattica, se privato di un accesso alla rete internet è da derubricare a macchina da scrivere e con videoproiettore incorporato. Tutta roba che nelle aule di lingua straniera circola da decenni.
Il punto ora è capire se il ricorso alla rete possa essere una garanzia di successo per i corsi di lingua. Su questo, lo diciamo subito, i pareri discordano e di molto. Per alcuni la didattica tramite la rete o didattica a distanza (DAD, come si usa definirla oggi) è per definizione inutile se applicata alla didattica delle lingue e per altri, invece, solo perché dotata di un alto tasso di tecnologia è in grado risolvere tanti problemi che si incontrano con gli apprendenti. Mai come in questo caso la risposta è nel mezzo. La didattica a distanza per le lingue può portare dei vantaggi. Questi vantaggi possono però non essere validi per tutti i tipi di apprendenti e per tutti tipi di bisogni da soddisfare e soprattutto possono non essere colti se a praticare la DAD ci si mettono persone non preparate specificamente e ignare delle conseguenze teoriche e metodologiche derivanti da questa loro scelta.
Andrea Villarini è professore ordinario di Didattica delle lingue moderne presso l’Università per Stranieri di Siena, dove dirige anche il Centro di Ricerca FAST, che si occupa di didattica delle lingue tramite e-learning, e la Scuola di Specializzazione in Didattica dell’italiano come lingua straniera. Svolge attività di aggiornamento per insegnanti lingua straniera sia in Italia che all’estero. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in volumi e riviste italiane ed internazionali sui temi della didattica delle lingue. È autore del volume pubblicato nel 2021 dal titolo Didattica delle lingue straniere edito da Il Mulino.