
Quando e come avvenne la consacrazione letteraria di Dickens?
Da un secolo è ormai in corso la piena rivalutazione di Dickens, o come si sarebbe poi detto la sua “canonizzazione”. I primi libri critici su di lui, dopo le recensioni su rivista, furono ad opera di romanzieri che onestamente riconobbero la sua maestria nel congegnare le trame, l’efficacia dei suoi ritratti e bersagli satirici, e il carattere ubriacante e irrefrenabile del suo umorismo. In particolare vanno citati i due libri che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento furono dedicati a Dickens da George Gissing e da Gilbert Keith Chesterton. Il raggio degli scrittori posteriori che si dichiararono, o lasciarono trasparire di essere, “dickensiani” si allarga impensabilmente a figure tanto diverse fra loro quali quelle di un Tolstoy e di un Kafka. Ora, tanto Gissing che Chesterton affermarono per primi quanto è oggi sostanzialmente pacifico: che non esiste un singolo capolavoro dickensiano senza scorie e momenti di qualche stanchezza, e che il capolavoro di Dickens è insomma il suo integrale macrotesto. Il profilo della critica dickensiana in questi ultimi cento anni è comunque difficile da riassumere. In primo luogo la critica dickensiana è internazionale perché di lui hanno scritto e scrivono in inglese o nelle loro lingue studiosi di tutte le nazionalità. In secondo luogo perché il ritmo con cui gli approcci critici, o talora semplicemente le mode e le voghe, si succedono nell’universo accademico di lingua inglese – che con termine riassuntivo si può oggi definire il post-strutturalismo – è veramente travolgente. La bibliografia su Dickens anche solo in volume – nell’impossibilità di dar conto della produzione saggistica – è impressionante, e molte riviste gli sono dedicate, cosicché si può tranquillamente affermare che, dopo Shakespeare, e in compagnia magari di Spenser, di Milton e di Joyce, Dickens è l’autore di lingua inglese su cui da sempre più si è scritto. Ho indicato nel mio libro i quattro interventi storici che ritengo basilari ancor oggi per una riflessione sulla ricezione del romanziere nel tempo. Il primo è il saggio lungo di George Orwell, che nel 1939 dette la prima lettura approfondita e organica dell’idea politica di Dickens. Riporto dal mio libro un breve estratto del discorso di Orwell: “[Per Orwell] Dickens era sostenitore dell’ordine costituito perché era per estrazione un rampollo della bassa borghesia urbana a cui sfuggiva una valutazione obiettiva degli scenari oltre questo perimetro; come conseguenza non conosceva bene le due classi che gli stavano sotto e sopra. Nella sua opera si parla quindi quasi esclusivamente di borghesi inurbati dediti al piccolo commercio: avvocati, impiegati, mercanti, osti, artigiani e servi; mancano i contadini e vi è solo un piuttosto generico e assai poco veritiero operaio dell’industria. Tale borghesia aveva come massimo traguardo quello del benessere economico e addirittura dell’ozio permesso da una raggiunta posizione di rendita, ottenuta magari grazie a un fortunoso testamento”. Il secondo intervento dirompente nella critica novecentesca su Dickens mi è parso e mi pare tuttora il libro di Joseph Hillis Miller del 1958. Charles Dickens: The World of His Novels. In questo libro Miller operava per la prima volta un’esegesi minuta e lenticolare del macrotesto dickensiano esautorando per sempre la vulgata di un Dickens istintuale e vitalistico che respingeva le analisi al microscopio. Miller polverizzava inoltre le trame e “distruggeva” il personaggio e l’autore, facendo sistematicamente a meno di ogni richiamo alla biografia e all’autobiografia. Dickens veniva anzi proiettato avanti fra i modernisti, sincronizzato con Ibsen, Faulkner e Kafka, con Ernst e con Picasso. Gli ultimi difensori e arginatori – ineffettuali – di un Dickens “autentico”, che stava per essere a loro dire scempiato e corrotto, furono – e siamo al terzo libro fondamentale – F. R. e Q. D. Leavis con uno studio del 1970 che si può definire come una demarcazione, solo un po’ tardiva, tra una critica prima e una critica dopo. Il Leitmotiv del libro è la fiera resistenza a ogni sacrilego approccio di natura freudiana e a maggior ragione post-freudiana. Nel 1970 i due celebri critici non potevano prevedere il profilarsi minaccioso di una moda critica che avrebbe stritolato ogni teoria del controllo conscio dell’autore sul suo materiale e sulle sue affermazioni. Chi ha sostenuto a spada tratta la preminenza assoluta, e direttamente proporzionale al suo grado di occultazione, del filo religioso in Dickens è stata infine la studiosa americana Jane Vogel, che ha sostenuto in un libro del 1977, Allegory in Dickens, che “tutta quanta l’aspirazione [di Dickens] risiedeva nella promozione del cristianesimo, l’amore fondato su una roccia”. Senonché tale ipotesi sacrosanta è verificata più che sui contenuti manifesti o sui simbolismi appurabili e, diciamo, di primo grado, quasi del tutto sulla segnaletica allusiva dell’onomastica. Viene così messo a fuoco uno strato supplementare della significazione sempre prima trascurato dai critici: quegli echi scritturistici che sono decisamente troppi per essere inerti o immotivati. Questo insospettabile proliferare dei sensi può costituire la conferma di un’opera come quella dickensiana, che non ha ancora completato sino in fondo il tragitto della sua significazione.
Quali novità introdusse, nel panorama letterario ed editoriale, la produzione seriale dickensiana?
Il patto della narrativa a puntate, e a diciannove puntate, stipulato con gli editori e da Dickens liberamente sottoscritto, non fu sempre, come ho accennato, quel rigido telaio che come nel caso del sonetto o di un’altra forma metrica libera in molti casi, anziché tarpare il grande poeta. Per colmare la misura standard Dickens fu costretto ad “addobbare” il suo romanzo, ovverosia non solo a intesserlo di trame parallele e secondarie, ma anche a guarnirlo di digressioni e di puri diversivi comici e bozzettistici. Per cui ogni opera di Dickens tende a frazionarsi in episodi che potrebbero essere anche resi autonomi e che si fondono non sempre bene nell’alveo generale e presentano deboli o forzati raccordi. Le difficoltà che incontrò nel rispettare la misura si percepiscono anche negli scioglimenti, prolungati e ingarbugliati oltre ogni necessità, quando avrebbero potuto essere dati con un netto, fulmineo colpo di forbici. Le note manoscritte e i piani di lavoro, che si sono conservati, provano che Dickens, come ogni altro romanziere seriale eccettuato Trollope, non stendeva tutto il romanzo in anticipo, bensì partiva da un telaio o da una traccia a grandi linee, poi in itinere corretta e modificata; i capitoli erano stesi praticamente puntata dopo puntata. Oltretutto ogni suo romanzo fu scritto per così dire en journaliste, e tot pagine e tot parole dovevano costituire una puntata mensile o settimanale; più esattamente trentadue erano le pagine di ogni puntata per un totale di tre capitoli a puntata e un totale generale di venti puntate, o meglio di diciannove, perché per convenzione l’ultima era una puntata doppia, di sei e non più tre capitoli. Al tempo stesso tutti i romanzi di Dickens uscirono con il corredo ben remunerato delle illustrazioni dei maggiori vignettisti del momento. Testo e illustrazione furono in molti romanzi del primo decennio in un rapporto insostituibile di simbiosi; dopo Dombey and Son il bisogno delle illustrazioni diminuì per la differenziazione del pubblico e per una sempre minore caricaturalità e una minore visualità del linguaggio.
Quale rilevanza assume la pista religiosa e teologica all’interno della narrativa dickensiana?
Ogni romanzo di Dickens è o diventa un’azione parallela, allegorica, parabolica, futuribile: è un canovaccio virtuale, anche se ha molteplici punti di contatto con il reale. Determinati passaggi e soluzioni dell’intreccio che sembrano posticci, poco motivati, e persino goffi, rispondono a una pianificazione seconda. Ogni personaggio, e ogni evento raccontato, va letto e interpretato nel suo valore e letterale e traslato e simbolico; ogni personaggio in particolare è sempre rappresentante di una categoria e di una classe e delle tre classi che si fronteggiavano, il popolo, la borghesia e l’aristocrazia, tra le quali si creano degli intrecci allusivi e anche, di romanzo in romanzo, variamente illusori. Tra queste classi si disegnano alla fine unioni e alleanze bizzarre, strampalate, sgraziate, che hanno la cacofonia delle utopie, e nessun riscontro in quanto avveniva nella realtà. In simili epiloghi festosi allietati da svariati matrimoni misti, si ridisegnava nostalgicamente un recente passato che si voleva prendesse uno svolgimento che non aveva preso, e che sarebbe stato meglio che prendesse. La rifondazione che Dickens prospetta non è di tipo puramente economico; è bensì una rifondazione della società, una palingenesi fidentemente basata su di una legislazione altra, che combacia con la predicazione di Cristo e si fonda sulla figura stessa di Cristo. L’unica forma di eroismo che Dickens contempla con sempre maggiore frequenza è proprio quello di capri espiatori, di figure sacrificali, di santi e soprattutto di sante giovinette, di martiri implumi che s’immolano, e persino di taumaturghi mimetizzati; è insomma di figure cristologiche. L’evidenza dei testi è tale che fu agevole riconoscere in Dickens quasi subito, con il sostegno di precise ed esplicite indicazioni nelle lettere e negli articoli giornalistici, una forte e genuina religiosità pur inortodossa, ferocemente polemica nei confronti dell’impostura religiosa delle chiese costituite e dello spirito punitivo dell’Antico Testamento, ma altrettanto protesa a un diretto contatto con la parola di Cristo e alla legge del suo amore vivificante e del suo perdono.
Cosa rivela l’analisi dei singoli romanzi, da Pickwick sino a The Mystery of Edwin Drood?
Questa è una domanda a cui posso solo rispondere… che ho cercato di dirlo nelle 196 pagine del mio libro. In estrema sintesi è ciò a cui ho già accennato nelle risposte precedenti, che Dickens non è un istintivo ma un romanziere eccezionalmente calibratore e ferreo organizzatore delle sue trame d’invenzione. Ho usato di proposito nel mio libro il termine “partiture ciclopiche” per i suoi romanzi. Intendo dire edifici estetici altamente relazionati nei quali come diceva Lavoisier nulla si distrugge e tutto si trasforma. Quasi mai un personaggio è introdotto da Dickens semplicemente per far numero, bensì viene magari eclissato per esser fatto riapparire a tempo debito e quasi fingendo un faticoso riconoscimento, perché sempre e comunque è strumentale a romanzo inoltrato. I collegamenti interni sono, come nella musica sinfonica tardo-romantica, di tipo timbrico e leitmotivico; i singoli strumenti si presentano e ripresentano con il tema a loro associato, e disegni, frasi e nuclei tematici sono sviluppati, ripresi, variati, modificati, conclusi anche ciclicamente. I famosi esordi dickensiani, e cioè quegli inizi abissalmente contrapposti, a volte quei tre o anche più fuochi dati subito in apertura e apparentemente del tutto scollegati fra loro, davvero costituiscono un procedimento musicale violentemente diatonico. Cosicché una risposta alla domanda è che Dickens, come di solito tutti i grandi geni della letteratura, ha plasmato un cosmo, un universo personale in cui tutto si tiene e dove si ripresentano romanzo dopo romanzo in variazione gli stessi motivi ricorrenti o Leitmotive.
Franco Marucci ha insegnato inglese all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Tra le sue più recenti pubblicazioni: History of English Literature (Oxford, Peter Lang, 2018-2019, 8 vols in 18 Books, 10017 pages); L’occhio del diavolo. Agoni, smarrimenti, riscatti nel cinema di Ingmar Bergman (Nardini, 2020); Authors in Dialogue: Comparative Essays in Nineteenth- and Early Twentieth-Century English Literature (Oxford, Peter Lang, 2020); R. L. Stevenson e Lloyd Osbourne, Il riflusso della marea, traduzione e cura di F. Marucci (Elliott, 2020); Letteratura inglese. Un profilo storico (Carocci, 2020); Altomare, romanzo (Castelvecchi, 2020). È in corso di stampa Hitchcock. Il prurito della pistola (Vicenza, Ronzani).