
Tanto che Macron aveva proposto di rilanciare il progetto dal basso, chiedendo ai cittadini come volessero riformare l’Unione Europea, attraverso la convocazione di una Conferenza sul Futuro dell’Europa. Un’idea fatta propria dalla Commissione Europea. Ma deformata poi negli ultimi mesi fino a trasformarla in un puro esercizio retorico, senza alcun mandato preciso e nessun impegno per un percorso costituente, i cui risultati risultassero in qualche modo vincolanti per il Consiglio Europeo, che è ancora oggi il vero attore delle decisioni nella UE, con buona pace della legittimità democratica dei processi decisionali.
Insomma, un’Europa che si avviava a non avere un futuro, almeno come soggetto capace di affrontare e risolvere i problemi dei suoi quasi 500 milioni di cittadini e come attore mondiale. Un’Europa incapace di competere sul piano globale con le grandi potenze economiche e politiche mondiali, quindi incapace di svolgere un ruolo davvero propositivo nei grandi problemi avvertiti come cruciali per il nostro futuro (mantenimento della pace, migrazioni, cambiamenti climatici, etc).
Quali trend hanno caratterizzato le vicende dell’Unione Europea negli ultimi anni?
Fra i vari elementi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni ne spiccano tre.
Il primo è l’immobilismo, ascrivibile ad una eccessiva pervasività del diritto di veto nelle decisioni collettive, sia negli organismi comunitari sia (soprattutto) in quelli intergovernativi (che hanno avuto sempre maggiore spazio). Quando una scelta collettiva viene assunta all’unanimità il risultato più probabile è il mantenimento dello status quo. Ma in un contesto globale in rapidissima evoluzione, stare fermi significa marginalizzazione, decadenza.
Il secondo è l’ascesa dei nazionalismi, o meglio del sovranismo su scala nazionale, che contrasta con l’esigenza di ritrovare un posto come attori nel mondo (in un mondo, lo ricordiamo, in cui i grandi attori sono tutti Stati federali di dimensione continentale) sfruttando la dimensione più ampia della sovranità europea.
Naturalmente si tratta di una sovranità nuova, multilivello: articolata su base locale, regionale, nazionale ed europea. Un modello assolutamente innovativo, che può essere la ricchezza dell’Europa. Ma proprio per questo dai caratteri ignoti, tutti da costruire. Attraverso un percorso costituente; un patto costituzionale che rifondi il modo di stare insieme in Europa.
Ciò tuttavia collide con l’interesse dei singoli governi al potere nei vari paesi di continuare a gestire il loro (sempre più ridotto) spazio di potere nazionale senza interferenze. Si è venuto così a creare un divario profondo, direi addirittura un conflitto d’interessi, fra governi (veri attori delle scelte a livello UE che, al riparo dello scudo del diritto di veto, il più delle volte decidono di non decidere!) e i cittadini europei, che avrebbero bisogno di un livello efficiente di scelta collettiva che affronti e risolva i loro problemi.
Il terzo elemento caratterizzante gli ultimi anni è stato la pavidità. Una conseguenza, in larga parte, dei primi due. La crisi finanziaria e poi quella, tutta europea, dei debiti sovrani nell’area euro non hanno visto una reazione coraggiosa e solidale. E questo ha ulteriormente indebolito il consenso verso il processo d’integrazione europea e le sue istituzioni.
Quali sono stati i maggiori fallimenti nei processi d’integrazione europea ed internazionale degli ultimi quindici anni?
Ne abbiamo almeno due macroscopici sotto gli occhi: l’incapacità di reagire alla crisi economica in maniera bilanciata, in modo da evitare (piuttosto che aumentare) la formazione di divari fra individui, regioni e paesi; e la formazione di aree di crisi internazionale alle porte dell’Unione Europea, a dimostrazione del vuoto di potere creato da un soggetto incapace di assumersi le sue responsabilità internazionali: dal fallimento delle primavere arabe, alla tragedia siriana, alle migrazioni. Un vuoto di azione politica che i singoli paesi europei, con le loro politiche spesso antitetiche, non sono riusciti a colmare. E che ha anzi alimentato le strumentalizzazioni politiche interne di quelle tragedie.
Quali sono i limiti maggiori dell’attuale architettura europea?
Il limite principale consiste proprio nelle decisioni all’unanimità su tutte le questioni importanti, sulle quali esiste una competenza dell’Unione. Naturalmente, poi esiste anche il problema che l’Unione non ha affatto competenze (nemmeno concorrenti) su tutta una serie di problemi che richiederebbero invece una risposta collettiva, congiunta, non frammentata. L’emergenza sanitaria è una dimostrazione di questo. L’Europa ha una forza d’intervento di emergenza; ma dotata di così poche risorse e competenze che non si poteva che lasciare la gestione dell’emergenza pandemica agli Stati nazionali.
Dove invece le competenze ci sono, sono esclusive e le decisioni vengono assunte a maggioranza, le istituzioni europee funzionano egregiamente, con prontezza ed efficacia. Si pensi all’intervento della Bce, assunto a maggioranza, che ha permesso (e sta permettendo) di assorbire gli effetti asimmetrici di uno shock che ha colpito tutti i paesi europei. Nonostante la sentenza della Corte Costituzionale tedesca.
Quanto si è allargato il divario fra le istituzioni europee e i cittadini nell’ultimo periodo?
È proprio per questo, a mio avviso, che si è allargato, profondamente, il divario fra istituzioni e cittadini. Fra le logiche intergovernative, che difendono gl’interessi delle classi politiche occasionalmente al governo dei singoli Stati nazionali e i cittadini, che condividono preoccupazioni e bisogni.
La crisi economico-finanziaria del decennio scorso, non ancora completamente superata (in Italia, per esempio), ci ha colti nel mezzo del guado, del passaggio da un modello di gestione nazionale del potere ad una gestione condivisa. In settant’anni di percorso, abbiamo perso i punti di riferimento. Ci siamo dimenticati di quanto il modello nazionale fosse inefficiente e pericoloso. Ma abbiamo anche perso di vista i contorni precisi di quello che ci aspettava dalla parte opposta del fiume. I governi e le istituzioni europee non hanno saputo o voluto dare un quadro chiaro di cosa ci aspettasse e di quando lo avremmo raggiunto.
E si è venuto così, pericolosamente, ampliando il divario fra cittadini ed istituzioni. Un divario che deve essere ancora colmato, a maggior ragione adesso che il Covid-19 ha messo a nudo i nodi scoperti dell’integrazione europea, ma anche le sue enormi potenzialità.
Quali effetti sul processo di integrazione europea ha prodotto l’emergenza sanitaria legata all’epidemia di Covid-19?
Come suggerivo all’inizio, il Covid-19 ha cambiato completamente lo scenario. Un’emergenza richiede una risposta emergenziale. E probabilmente era l’unica possibilità per far emergere un orientamento diverso nelle scelte politiche europee, capace di superare l’impasse dell’unanimità. Quello che è stato compreso oggi è che si tratta di un’occasione storica unica per forzare la mano ad un processo di condivisione delle responsabilità europee che altrimenti sarebbe stato troppo dispendioso “vendere” a ciascun elettorato nazionale, rischiando di far perdere consenso a chi lo avesse proposto.
La reazione delle istituzioni europee è stata massiccia e decisa. Prima, naturalmente, con le istituzioni che funzionano appunto a maggioranza (Bce e Commissione), poi il Consiglio, che dovrà approvare il prossimo bilancio europeo all’unanimità.
La creazione di un fondo per la rinascita europea, il Next Generation EU, può portare alla creazione di un’autonoma capacità fiscale europea, preludio alla creazione di sistemi decisionali sempre più legittimati direttamente dai cittadini e meno intermediati dai governi. Sarebbe una svolta epocale.
Quale futuro, a Suo avviso, per il processo d’integrazione europea?
Credo che il Covid-19 abbia fatto emergere con forza tutte le debolezze dell’Unione Europea che abbiamo più sopra segnalato. Ed ha messo anche in evidenza come l’unanimità sia un processo di formazione della volontà collettiva inefficiente, costoso e pericoloso. Certo, aggirabile in presenza di un’emergenza globale come quella che stiamo vivendo. Ma comunque al prezzo di lentezze, incertezze, compromessi che non aiutano un comune cammino dell’Europa nel mondo.
Mi auguro che i dibattiti ai quali stiamo assistendo nelle ultime settimane siano l’inizio di una nuova era per la UE: un’era caratterizzata dall’esercizio della discrezionalità politica legittimata dai cittadini, non di tecnocrazie che riflettono interessi di corporazioni o di egoismi politici nazionali. Esattamente come sembra stia accadendo in questi giorni.
Ma per consolidare questi processi virtuosi non è sufficiente concordare un grande piano di rilancio economico. Servirà riscrivere rapidamente il patto della convivenza civile in Europa, un po’ come fecero le tredici colonie a Philadelphia nel 1787. In questa logica, è necessario che il Parlamento Europeo, unica istituzione che rappresenta la legittima espressione dei cittadini europei, si assuma la responsabilità di scrivere una vera e propria costituzione per l’Unione Europea del domani, mettendo da parte una volta per sempre gli infiniti ed estenuanti negoziati diplomatici tra Stati, che hanno caratterizzato inefficienze e fallimenti di questi ultimi anni.
Economista, docente di Storia e teorie delle relazioni economiche internazionali e titolare di una Cattedra Jean Monnet sulla Governance Economica Europea a Roma Tre, Fabio Masini è uno studioso dell’integrazione economica e monetaria europea ed internazionale. Consulente per le politiche europee del Comune di Firenze dal 1996 al 2004, ha svolto incarichi di coordinamento e consulenza per progetti di ricerca e formazione sull’UE per conto di varie istituzioni nazionali ed internazionali. È Managing Editor di History of Economic Thought and Policy e di Euractiv Italia.