“Di chi è questa storia? Autori nella rete tra sfide e opportunità” di Eleonora Benecchi

Prof.ssa Eleonora Benecchi, Lei è autrice del libro Di chi è questa storia? Autori nella rete tra sfide e opportunità edito da Bompiani: quali sfide e quali opportunità la digitalizzazione offre agli autori?
Di chi è questa storia? Autori nella rete tra sfide e opportunità, Eleonora BenecchiLe tecnologie digitali hanno reso più facile ed economica la distribuzione e diffusione del sapere, portando avanti quel processo di acculturazione generale iniziato con la produzione culturale di massa: sempre più persone consumano oggetti culturali e le competenze dei fruitori sono aumentate, tanto che la linea rossa che tradizionalmente distingue autore e lettore può diventare, a volte, molto sottile. Pensiamo alla pratica del “commento online”, con cui i lettori possono interagire con il testo e il suo autore, magari criticando o integrando con nuove informazioni l’articolo di un quotidiano o una diretta informativa, chiedendo delucidazioni o offrendo suggerimenti all’autore di un libro. Inoltre, nel momento in cui la digitalizzazione trasforma i testi da oggetti fisici a entità fluide, è evidente che questi stessi testi possono essere copiati infinite volte, viaggiare verso infiniti luoghi e soprattutto essere modificati e incorporati in molteplici modi, anche a dispetto delle intenzioni e della volontà degli autori originali e dell’industria culturale. Oggi più che mai i testi culturali, da oggetti finiti e stabili i cui esemplari più celebri sono destinati ai musei, luoghi estranei allo scorrere del tempo e alla contestualizzazione geografica e sociale, sono tornati a scorrere in un flusso di scambi continui e inarrestabili. Eppure questa se ci pensiamo non è una storia nuova o inedita. Non si può non tornare con la memoria all’epoca dei bardi, cantori di storie radicate nel contesto culturale dell’epoca, ma anche fluide e mutevoli, perché dipendenti dalle lingue che, di volta in volta, le cantavano e le tramandavano. Non esisteva ancora la Storia con la maiuscola, ma infinite versioni di una performance fluida di cui era praticamente impossibile individuare la prima origine. Quando queste storie orali si solidificano, per esempio perché vengono stampate su carta e inserite in un libro, da una parte possono essere riprodotte e conservate nel tempo, ma dall’altra la molteplicità dei loro autori è spesso cancellata. Pensiamo all’Odissea di Omero, uno dei testi più antichi della cultura occidentale e trascrizione di una storia orale, per cui il dibattito critico parla di questione omerica: è mai esistito “un” Omero? O forse è più corretto dire che Omero è soltanto il nome singolo che diamo a un processo creativo collettivo? Questo non significa che Internet, con la sua capacità di reimmettere gli oggetti culturali in un percorso fluido di scambi e relazioni, ci abbia riportato all’epoca dei cantori celtici, come se la storia della nostra cultura avesse disegnato un cerchio chiuso. Piuttosto dobbiamo immaginarci un percorso a spirale, dove di volta in volta ci riavviciniamo a un punto già visto, ma lo osserviamo da una certa distanza.Una delle novità introdotte, ad esempio, è il fatto che sempre più persone producono oggetti culturali, oltre a consumare quelli che l’industria culturale mette a loro disposizione. Ecco allora che la cultura digitale contribuisce a erodere la roccia dell’autorialità. Pensiamo alla storia di Anna Todd, di cui racconto nel libro. Da fan del gruppo musicale One Direction e autrice di storie amatoriali che pubblica online per altri fan come lei, diventa autrice di best seller per il mercato editoriale tradizionale. In gran parte grazie alla notorietà che ha acquisito online. Questo caso evidenzia sia la possibilità di entrare nel mercato editoriale tradizionale attraverso nuove vie, tutte digitali, sia i problemi legati alla diffusione di testi che mettono in discussione il concetto tradizionale di proprietà intellettuale e la sua difesa. La cultura digitale, così fluida, mette in crisi l’industria culturale tradizionale, che ha bisogno di prodotti che possano essere definiti in modo stabile, dei quali sia relativamente facile verificare e difendere l’autorialità, e soprattutto che possano essere commercializzati. È chiaro che le modalità tradizionali attraverso cui si producono, pubblicano e distribuiscono storie sono rimesse in discussione quando si parla di produzione collaborativa di contenuti, della possibilità di lasciare che una storia trovi il proprio pubblico in modo autonomo e della crescente popolarità dei lettori/creatori che attraverso le piattaforme di auto-pubblicazione online diventano prima moderni cantastorie per poi essere riconosciuti dall’industria culturale fino a entrare in diversi casi nel mercato editoriale tradizionale.

Quale importanza ha assunto il fenomeno dei fan?
La cultura digitale ha reso la cultura dei fan estremamente visibile e popolare. Un tempo le persone che si appassionavano ai prodotti della cultura popolare al punto da consumarli in modo intenso, incorporarli nella propria vita quotidiana, promuoverli, diffonderli e rielaborarli in chiave creativa, si riunivano in microcomunità. Queste comunità erano caratterizzate dalla necessità di una copresenza fisica in spazi definiti, dallo sviluppo di una specifica cultura e una vera e propria economia ombra, parallela a quella ufficiale, le cui manifestazioni e produzioni (convention, eventi, fanzine, fanart) erano considerate liminali rispetto ai canoni comunemente diffusi e accettati. Inoltre la stessa parola fan era poco conosciuta e spesso malvista: chi la usava lo faceva spesso con connotazioni negative. Se guardiamo ad esempio alla rappresentazione dei fan nei media, l’immagine ricorrente è quella di un individuo irrazionale, asociale, ossessivo e in certi casi anche pericoloso. Il cinema ci ha regalato ritratti inquietanti di questa audience appassionata, dall’ossessivo fan del baseball interpretato da Robert De Niro che arriva a uccidere per il suo idolo nel film Il Fan (Tony Scott, 1996) all’inquietante Annie di Misery non deve morire (Rob Reiner, 1991), interpretata da Kathy Bates, che rapisce un noto scrittore per obbligarlo a “salvare”, narrativamente parlando, il suo personaggio preferito. I social media hanno invece in qualche modo “normalizzato” il concetto di fan: su Twitter siamo follower, “fan” di qualcuno, su Facebook possiamo diventare fan di un prodotto, un gruppo o una persona. Inoltre le nuove strategie di racconto, cinematografico, televisivo, letterario, prevedono per gli appassionati un ruolo centrale: i siti dedicati a serie TV e saghe cinematografiche chiamano a raccolta una generica e indistinta comunità di “fan” per promuovere i propri prodotti o incentivare la partecipazione a iniziative collegate. “Essere fan” è diventata una modalità di consumo dei testi mediali sempre più “normalizzata” e incentivata dall’industria mediale. Ecco allora che a forme di culto generatesi spontaneamente si aggiungono modalità di creazione dell’universo dei fan, previste e richieste dagli stessi prodotti mediali. La campagna promozionale per la cinquantaduesima edizione dei Grammy Awards, gli Oscar della musica, puntava proprio su questo concetto: la campagna promozionale affermava “siamo tutti fan” e le persone erano invitate a partecipare alla “conversazione” online sotto l’hashtag #weareallfans. Dunque oggi siamo tutti fan? Un fan e un follower sono la stessa cosa? Certamente no. Essere fan è frutto di una scelta consapevole, una dichiarazione di intenti che non sempre riconosciamo nel follower. Certo è che, grazie ai nuovi media, i fan sono diventati un pubblico non solo più “visibile” ma anche più “spendibile” che in passato. Questo non stupisce se guardiamo ai numeri collegati all’economia del fandom. Uno studio del 2010 ha rilevato che una delle Convention di fan più importanti del mondo, la San Diego Comic-Con ha fatto guadagnare alla città ospitante $163 milioni solo per le camere prenotate in hotel da parte dei partecipanti. Nel solo Nord America il gettito complessivo derivante dalle convention di fan (biglietto di ingresso, pernottamenti, oggetti acquistati), è di tre miliardi di dollari. L’azienda che controlla in America la vendita di biglietti delle convention, Eventbrite ha stimato che nel 2013, anno di picco, sono stati venduti biglietti di ingresso per un ammontare di più di cinquecento milioni di dollari. Gli eventi collegati al fandom hanno le vendite più alte e redditizie rispetto a qualunque altro, fatta esclusione per i concerti musicali. Se facciamo riferimento alla saga di Harry Potter vediamo che ha collezionato quasi quaranta milioni di like sulle pagine Facebook ufficiali e la sua comunità online ufficiale, Pottermore, conta oltre duecentomila membri, mentre sono più di cinquecentomila le storie ispirate alla saga e pubblicate sul web. Senza contare che questi numeri crescono di anno in anno. Nel 2017 le storie scritte da fan e ispirate a prodotti della cultura popolare pubblicate sui tre principali archivi online di fanfiction hanno raggiunto i quindici milioni.

Qual è l’impatto culturale delle comunità di «fandom»?
I fan sono persone che mostrano un intenso attaccamento emotivo e intellettuale nei confronti della cultura popolare, ma si distinguono dal comune spettatore appassionato soprattutto perché si impegnano in una serie di attività collegate a tale cultura: dalla riscrittura, remix o riproduzione delle opere di cui sono fan (fanfiction, fan video, fanart), all’analisi minuziosa dei contenuti culturali a cui sono appassionati, dall’organizzazione di incontri più o meno ampi collegati al testo oggetto di fandom (convention), alle performance spettacolari che rimettono in scena il mondo culturale di riferimento (cosplay). Quando introduce il concetto di cultura partecipativa, Henry Jenkins lo collega in effetti alla logica culturale dei fan basata sull’attivismo collettivo e su una comunicazione orizzontale e reciproca all’interno della comunità di riferimento. Questo tipo di comunicazione mette in crisi il tradizionale rapporto autore-pubblico, perché prevede e presuppone un potenziamento del soggetto consumatore di cultura che diventa produttivo e chiede la possibilità di influenzare non solo la comunità di pari (gli altri fan), ma anche la cultura popolare che lo ha appassionato in origine. I fan, infatti, non si limitano a diffondere i contenuti prodotti dalle aziende mediali, o a partecipare alle narrazioni ufficiali, ma partono dai contenuti disponibili per crearne di nuovi. Grazie alle tecnologie digitali gli appassionati hanno la possibilità di diventare a loro volta autori, prima dentro la Rete per poi arrivare a essere riconosciuti dall’industria culturale. I fan non solo partecipano attivamente alla diffusione e alla produzione culturale, ma sono anche dei cosiddetti early adopters, ovvero tendono ad adottare le piattaforme dei nuovi media con grande anticipo rispetto al resto della popolazione. Nel 2011, ad esempio, solo il 40% degli americani possedeva uno Smartphone, ma tra i fan della N.C.A.A., la National Collegiate Athletic Association degli Stati Uniti, la percentuale saliva fino al 94% e l’uso principale dichiarato era “connettersi con altri fan su Facebook e Twitter”. Inoltre le comunità di fan sono state le prime a sperimentare nuovi modi di produzione mediale: ne è un esempio la pratica del vidding, una forma di produzione audiovisiva grassroot, amatoriale e nata dal basso, che associa spezzoni di una serie televisiva o di un film a musica di vario genere. Quando YouTube viene fondato, nel 2005, i fan celebrano il trentesimo anniversario di questa pratica in una convention dedicata e intitolata Vividcon.

Quali dinamiche si innescano tra autori e fan?
Le nuove forme di narrazione sollecitate e supportate dalla Rete richiedono al contenuto di circolare il più liberamente possibile, e questo porta alla luce una prima tensione che informa la cultura digitale: quella che vede contrapposto un modello che vorrebbe chiudere a chiave il contenuto e renderlo un oggetto più facilmente commercializzabile e misurabile e uno che invece vuole spostare l’equilibrio del potere dalla parte dei consumatori. Tale prima tensione si concretizza in una serie di conflitti sulla proprietà intellettuale a volte interni alle stesse aziende, che da una parte vorrebbero diffondere il più liberamente possibile i contenuti per sfruttare la creatività degli utenti, ma dall’altra devono sottostare ai limiti posti dai propri avvocati, tesi prevenire abusi e appropriazioni da parte di altri rivali commerciali. Inoltre il nuovo ruolo collaborativo degli spettatori rispetto alla produzione e diffusione di storie, tuttavia, diventa problematico e produce una seconda tensione nel rapporto tra autori e fruitori, nel momento in cui le persone non si limitano a diffondere i contenuti prodotti dalle aziende, o a partecipare a narrazioni transmediali, ma partono dai contenuti disponibili per crearne di nuovi. Le tecnologie digitali ci raccontano, infatti, della possibilità di produrre storie per pubblici di nicchia, della possibilità di lasciare che una storia trovi i propri lettori in modi inaspettati e imprevisti, ma anche della possibilità per nuovi creatori di diventare prima moderni cantastorie e poi essere a propria volta riconosciuti dall’industria culturale.

Come detto il patto tradizionale che regola l’attribuzione dell’opera a un autore valorizza la creatività del singolo, unico responsabile del progetto narrativo, e non prende in considerazione la possibilità di intervento del fruitore sull’opera in questione. Naturalmente in questo contesto il pubblico era concepito come un mero ricevente, mentre l’autore come il genio solitario, capace da solo di dare vita all’opera che viene dunque classificata e interpretata in base, appunto, al suo creatore. Anche nell’ambito della cultura digitale, attribuire un’opera a un autore, soprattutto se noto, è operazione utile ad accrescere la riconoscibilità e spesso il valore dell’opera stessa. La reputazione di autori brand come J.J. Abrams li precede, “spalmandosi” su tutte le narrazioni che produrranno. Tuttavia, sia la forma aperta di queste narrazioni, sia i nuovi strumenti tecnologici a disposizione del pubblico fanno sì che il destinatario della narrazione si trasformi in suo collaboratore. Se poi portiamo all’estremo il discorso ecco che incontriamo sulla nostra strada la figura del prosumer, ovvero il consumatore che si fa anche produttore e che è prototipo della tanto celebrata cultura partecipativa. Una figura che è, di nuovo, incarnata dal fan.

Quali dimensioni ha assunto il fenomeno delle fanfiction?
Un momento cruciale che ha determinato lo sviluppo delle fanfiction trasformandole nel fenomeno che osserviamo oggi è il passaggio dal contenitore cartaceo delle fanzine a quello digitale dei blog e degli archivi online. Le fanfiction possono finalmente essere messe a disposizione di un pubblico ampio quanto lo è il numero di utenti dei vari archivi online. In Italia un archivio specificamente dedicato alla scrittura e lettura di fanfiction è Erika Fanfiction Page (EFP), il sito contiene circa quattrocentomila storie e ospita sia creazioni originali che fanfiction vere e proprie. La migrazione delle fanfiction su Internet contribuisce alla proliferazione di questa forma di scrittura, se guardiamo ai due principali archivi, AO3 e FFN, vediamo che, in media, ogni giorno sono pubblicate cinquemila nuove storie. Tuttavia questa sovrabbondanza genera anche una serie di problematiche. Da una parte, soprattutto nel caso di AO3, negli ultimi anni si è assistito a un aumento dello spam negli archivi online: in molti casi le storie postate non sono “vere” storie prodotte dai fan, ma contenuti promozionali postati da bot, allo scopo di sfruttare gli utenti degli archivi a scopi commerciali, o contenuti postati da troll, ovvero disturbatori, allo scopo di danneggiare gli archivi e la loro organizzazione. Inoltre la proliferazione delle fanfiction ha inevitabilmente portato a un abbassamento della loro qualità generale, tanto che sono nati corrispettivi siti destinati a recensire le storie prodotte dai fan o addirittura a ostacolare e criticare quelle ritenute di bassa qualità. Il passaggio online ha reso anche più evidente la natura volatile di questa forma di scrittura i cui prodotti si connotano come “lavori in corso”. Tradizionalmente le storie scritte dai fan tendono ad assomigliare ai classici romanzi d’appendice, pubblicati in più puntate lungo un arco temporale disteso, anche se esistono anche le cosiddette One-shot, ovvero storie brevi e autoconclusive. Nel momento in cui vengono pubblicate online le fanficiton accentuano la propria serialità e volatilità: possono essere abbandonate da un momento all’altro, riprendere improvvisamente dopo anni di pausa, o nei casi più estremi essere riprese e concluse da autori diversi. Se un fan è disposto anche ad aspettare mesi o anni per leggere la conclusione della storia che lo ha appassionato, questo accade molto più raramente nel caso di un lettore casuale. La lettura in “mobilità” consentita e sollecitata dalle nuove piattaforme di auto-pubblicazione come Wattpad ha poi accentuato la natura interattiva e seriale delle fanfiction. Il linguaggio è semplificato al massimo, per riflettere quello che si potrebbe rintracciare all’interno di una chat privata. Questi nuovi formati che puntano tutto sulla rapidità, la brevità e l’interazione continua tra autore e lettore in realtà non fanno che accentuare una delle caratteristiche principali delle fanfiction: il loro essere delle “storie inesauribili” o dei “lavori in corso”.

La grande popolarità raggiunta dal fenomeno fanfiction ha inoltre spinto alcune autrici a eliminare le tracce della propria presenza online per paura che i propri familiari o amici possano venire a conoscenza della loro opera autoriale. In altri casi le fanfiction sono rimosse perché pubblicate sotto forma di romanzi originali nel mercato editoriale tradizionale. Tutte queste circostanze rendono i fan sempre più consapevoli della necessità di creare spazi e progetti autonomi che possano sopravvivere nel tempo. Ecco allora che accanto ai classici archivi nascono veri e propri progetti volti a tutelare e conservare la cultura dei fan: un progetto di questa natura, tutto italiano, è quello di “BTVSATS Archivio Italia”. Nato nel 2008 dalla volontà di un piccolo gruppo di fan di preservare la memoria storica della produzione di fanfiction italiane dei venti anni precedenti dedicate alle serie Buffy the Vampire Slayer e Angel the Series di Joss Whedon. In tal modo sono state salvate più di quattromila storie ospitate originariamente su sessantanove siti e piattaforme differenti, di cui più di tre quarti erano scomparsi nel momento in cui è stato aperto l’archivio.

Quale evoluzione è destinato a subire il confine tra chi scrive e chi legge una storia?
La novità introdotta dalla cultura digitale non è la messa in crisi della figura tradizionale dell’autore. Questa figura, pur sotto attacco da decenni, continua a rivestire un ruolo importante, anche in epoca digitale. Anzi, in alcuni casi diventa forte e riconoscibile come un vero e proprio brand: si pensi al “brand” in cui si è trasformata J.K. Rowlings, che è talmente forte e amato da portarsi dietro il pubblico fan anche quando esce dall’universo narrativo che l’ha resa famosa, quello di Harry Potter, e scrive romanzi gialli come Il richiamo del cuculo, sotto lo pseudonimo maschile Robert Galbraith. Quello che la cultura digitale mette in crisi davvero è il patto narrativo stretto tra il produttore di una storia e il suo fruitore. Da una parte offre la possibilità di mettersi direttamente in contatto con gli autori più popolari e amati, dall’altra quella di diventare a propria volta autori. Come detto, i fan in particolare contaminano e riscrivono le storie a cui si sono appassionati, raggiungendo popolarità e visibilità grazie alle piattaforme digitali. In certi casi passano dalle piattaforme di auto-pubblicazione online agli scaffali delle librerie. Non basta però che i lettori, fan e non, diventino autori, a vario titolo. Non basta perché il punto di arrivo di questo processo, al momento, è l’ingresso dei fan-autori all’interno dell’industria culturale, la loro trasformazione in autori “tradizionali”. Quando Anna Todd da autrice di fanfiction viene “venduta” dalla piattaforma di autopubblicazione Wattpad a una casa editrice e trasformata in un’autrice “tradizionale”, il potere rivoluzionario della sua opera è in qualche modo domato e inscatolato. Stessa cosa accade quando fanfilm qualitativamente competitivi e culturalmente validi come l’italiano Voldemort: Origins of the Heir ispirato a Harry Potter vengono relegati in ambito amatoriale e obbligati a trasformarsi in modo da non entrare in competizione con le opere originali. L’industria culturale tradizionale è ancora predominante e il “lavoro” delle audience appassionate, anche quando viene riconosciuto e premiato da critica e pubblico, deve ancora cedere il passo di fronte alle richieste degli autori originali. Il vero cambiamento culturale, quello immaginato dai sostenitori della cultura partecipativa, avverrà quando la prossima Anna Todd troverà dei mezzi di finanziamento e distribuzione che siano davvero alternativi a quelli messi a disposizione dalle grandi aziende mediali e i prossimi fanfilm troveranno uno spazio di distribuzione equo anche da un punto di vista economico.

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