“Di che cosa parliamo quando parliamo di libri” di Tim Parks

Di che cosa parliamo quando parliamo di libri, Tim ParksDi che cosa parliamo quando parliamo di libri
di Tim Parks
UTET

«È giunto il momento di ripensare tutto. Tutto. Che cosa significa scrivere e che cosa significa scrivere per un pubblico. E per quale pubblico. Che cosa chiedo alla mia scrittura? Denaro? Carriera? Reputazione? Un posto nella comunità? Un cambio di governo? La pace nel mondo? È un artificio o una terapia? È una terapia perché è un artificio o malgrado ciò? Ha a che fare con la costruzione dell’identità, di una posizione sociale? O è semplicemente un modo per intrattenere me stesso o gli altri? Continuerò a scrivere anche se non mi pagano?

E che cosa significa leggere? Voglio leggere quello che leggono gli altri, per poter parlarne con loro? Quali altri? Perché voglio parlare con loro? Per poter essere al passo con i tempi? O per poter conoscere altri tempi e altri luoghi? Leggo per consolidare la mia visione del mondo o per sfidarla? Oppure leggere per sfidare la mia visione è una rassicurante conferma che sono davvero quella persona coraggiosa che pensavo di essere? Più il libro che leggo mi pone una sfida, più mi compiaccio di me stesso.

L’idea di un mondo con una cultura condivisa a livello globale implica che siamo spinti a leggere tutti gli stessi libri? E, in questo caso, quanti scrittori potranno continuare a esistere? O faremo tutti gli scrittori, ma non pagati? «Nessuno può rinunciare a un simulacro di perennità», osservava Emil Cioran. «Da quando la morte è apparsa a ognuno come termine assoluto, tutti scrivono

Perché molto spesso siamo in disaccordo sui libri che leggiamo? È perché qualcuno legge bene e qualcun altro male? Da una parte il professore, dall’altra gli studenti? Perché ci sono libri buoni e libri cattivi, oppure perché inevitabilmente un diverso retroterra porterà ad apprezzare libri diversi? E, se è così, possiamo azzardare qualche previsione sui libri che più piaceranno a certe persone?

Molto spesso per parlare di libri si usano formule logore, ed è così ormai da decenni. La recensione standard offre un rapido giudizio di valore condensato in un certo numero di stelline, da una a cinque, poste in cima al pezzo. Perché procedere con la lettura? Ci sarà qualche riga sul tema (nobile), un giudizio sull’abilità narrativa dello scrittore, qualche accenno al protagonista e all’ambientazione (chi di noi non ha seguito un corso di scrittura creativa?), qualche elogio, qualche riserva. Soprattutto, è chiaro che tra i libri c’è una concorrenza spietata per raccogliere le poche briciole di celebrità che avanzano dai film e dalla tivvù. Bisogna autopromuoversi energicamente anche prima della pubblicazione. Forse verso la fine la recensione conterrà un prezioso elogio che l’editore potrà sfruttare per la copertina dell’edizione tascabile. Nel 99,9 percento dei casi il recensore è convinto di sapere perfettamente qual è la finalità dei libri, perché si scrivono e perché si leggono, che cosa è letterario e che cosa non lo è. Quasi stesse compilando un modulo. Non è difficile capire perché i giornali hanno ridotto la sezione dedicata ai libri a un francobollo.

Per il feedback c’è il web. A volte sembrano esserci più commenti che lettori. Ciò che più sorprende dei siti dove chiunque può offrire la propria recensione è quanto i contributi risultano simili alle recensioni dei giornali. La gente non si oppone alle stelline di Amazon. Sa benissimo come dispensare elogi e castighi. Ha i propri criteri di giudizio incontestabili. Il mezzo detta il tono. «A dire il vero il libro non l’ho letto, però…».

Nei settimanali in cui ancora si parla di libri l’intervista all’autore consta delle stesse dieci domande uguali per tutti. «Quand’è l’ultima volta che ha pianto?» «Qual è il suo principale difetto?» È un invito a cercare la distinzione nell’eccentricità. Di solito via e-mail. «Tra i romanzi che ha scritto qual è il suo preferito?» «Che cosa sta leggendo durante la giornata e prima di andare a letto?» Gli intervistatori sembrano dare per scontato che tutti gli scrittori scelgano qualcosa di diverso come lettura serale. Non è concesso non avere un romanzo preferito o un difetto eclatante. La piccola fotografia che affianca il pezzo è stata presa dalla pagina Facebook dell’autore senza costi aggiuntivi per il giornale.

La moltiplicazione dei premi letterari è in linea con questo scenario. Il loro progressivo sganciarsi dalle letterature nazionali dimostra che ciò che conta è la reputazione del premio, non aiutare gli scrittori di una comunità locale. Ci sono soldi di mezzo. Alla rosa ristretta dei candidati si aggiunge la rosa più estesa per spremere al massimo la pubblicità. La sera della premiazione uno scrittore è accolto nel pantheon mentre tutti gli altri sono gettati nelle tenebre. Poco importa che per nessuno dei giurati il vincitore fosse la prima scelta e che due di loro lamentavano di non essere riusciti a finire quel maledetto libro. Ora è un vincitore. Scelto democraticamente. E le vendite del vincitore superano di gran lunga quelle del perdente, di tutti i perdenti.

Nel frattempo nelle università il gergo della teoria letteraria è impenetrabile: forse meno astruso e monumentale che nell’esclusivo apogeo dello strutturalismo e del post strutturalismo, ma probabilmente perché oggi non occorre faticare tanto per non farsi leggere. Bastano i logori tecnicismi, la tendenza a confondere lo studio della letteratura con un’operazione di storia culturale. È stupefacente quante centinaia di migliaia di articoli accademici si producano solo per arrivare a questo o a quel contratto di docenza, quanto sforzo e quanto poco spirito d’avventura.

Sotto tutte le chiacchiere e la liturgia si annida uno struggente rimpianto per i miti letterari del passato, per le gigantesche figure di Dickens e Joyce, Hemingway e Faulkner. Oggi uno scrittore non può neanche sperare di raggiungere una simile aura. Ma è quel desiderio di grandezza immaginata a guidare tutta l’impresa letteraria. Oltre alla disperazione dell’editore alla ricerca di un bestseller per sbarcare il lunario. Ormai l’idea di grandezza è uno strumento di marketing. Pensiamo a Franzen.

Forse alla fine l’alta opinione che abbiamo dei libri, della letteratura, è semplicemente ridicola. Forse è solo una forma di incanto, il fascino collettivo per l’amor proprio e l’autocompiacimento, quello della giuria dei premi letterari, per esempio, quando invita il suo nuovo eroe a salire sul podio. Ma i libri hanno mai cambiato qualcosa? Con tutto il loro proverbiale progressismo, hanno forse reso il mondo più progressista? O piuttosto ci hanno offerto la foglia di fico che ci permette di continuare a essere come siamo sempre stati, liberali nelle letture e conservatori nella vita. Forse, più che la soluzione, l’arte stessa fa parte del problema; è vero che sta andando tutto in malora, ma guardate un po’ come raccontiamo bene la nostra disfatta, guardate che dipinti, che romanzi, che tragedie!

Dopotutto, non c’è da preoccuparsi per la sopravvivenza della letteratura. Non se n’è mai scritta tanta. Ma forse è giunta l’ora di mettere in guardia dalla sua pericolosità.»

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