“Detroit. Viaggio nella città degli estremi” di Giuseppe Berta

Prof. Giuseppe Berta, Lei è autore del libro Detroit. Viaggio nella città degli estremi edito dal Mulino: da oltre mezzo secolo Detroit è precipitata nel baratro della deindustrializzazione, della povertà e della protesta razziale, diventando sinonimo di degrado urbano e di pericolosità sociale: come è stato possibile?
Detroit. Viaggio nella città degli estremi, Giuseppe BertaDetroit è diventata un simbolo del disagio sociale da quando venne sconvolta dalla rivolta razziale dell’estate del 1967. La città allora si era credeva ancora all’apice, ma era in realtà già insediata dal processo di deindustrializzazione, poiché era già cominciato un processo di decongestionamento della sua capacità produttiva. Detroit, in un certo senso, scontava l’eccesso di crescita industriale che l’aveva caratterizzata dagli anni Venti in poi, quando era diventata la città che cresceva di più in America, a un ritmo che pareva inarrestabile. Tale processo di concentrazione culminò durante la seconda guerra mondiale, quando Detroit divenne la “fabbrica della democrazia”, come venne definita nella propaganda di allora: le fabbriche furono infatti destinate alla produzione di armi, aerei da combattimento, carri armati. La guerra fu vinta dagli Stati Uniti e dai loro alleati grazie anche a questa straordinaria forza produttiva.

Dalla fine degli anni Cinquanta in poi iniziò una tendenza di senso inverso: le fabbriche presero a essere spostate fuori dall’area urbana per ridurre il grado di concentrazione, che implicava costi e salari più elevati. Nel medesimo tempo, la massa dei lavoratori neri, sopraggiunta a Detroit col boom industriale, era male alloggiata e socialmente discriminata, nelle residenze come ali come nelle scuole. Così nel ’67 esplose la collera sociale che accentuò la decrescita della città, da cui i bianchi fuggivano, mentre l’occupazione iniziava a declinare.

Questa tendenza non si poi più arrestata fino alla crisi urbana degli anni Dieci del nostro secolo.

Quando e come Detroit è diventata Motor City, la capitale dell’automobile?
“Motor City” è diventata tale durante gli anni Venti del Novecento, dopo l’entrata in funzione della fabbrica-monstrum voluta da Henry Ford, l’impianto di River Rouge, a pochi chilometri dalla città. Già nel 1929 essa concentrava oltre 102 mila lavoratori, ciò che ne faceva la più grande fabbrica non solo degli Stati Uniti, ma del mondo. È chiaro che l’impronta e la tendenza al gigantismo produttivo di Henry Ford sono state determinanti nel creare il modello della “Motor City”.

Quali personaggi hanno segnato la vita della metropoli americana?
I personaggi che hanno più contrassegnato la vita della città sono stati vari. Come ho già detto, l’influenza di Henry Ford fu decisiva nel plasmare il modello industriale. L’architettura industriale del Novecento invece deve moltissimo alla capacità progettuale di Albert Kahn, che non fu solo l’architetto di Ford, ma di tante altre fabbriche. La sua impronta si vede impressa nelle fabbriche del suo tempo, non solo a Detroit (anche lo stabilimento torinese Fiat del Lingotto ne fu condizionato).

Sul fronte del lavoro e del movimento sindacale ebbe grande rilievo Walter Reuther, che oltre a contribuire alla nascita del sindacato dell’automobile, la United Automobile Workers of America, divenne dopo la seconda guerra mondiale sia il più importante leader del mondo del lavoro Usa sia una figura di primo piano del partito democratico, consigliere di presidenti come Kennedy e come Johnson.

Sul versante delle lotte contro la segregazione razziale, è centrale una figura come quella di Rosa Parks, che per molti anni fu un riferimento fondamentale della mobilitazione degli afroamericani. Ma anche Malcolm X, che pure non visse prevalentemente a Detroit, fu una straordinaria figura anticipatrice della rivolta nera e del Black Power.

In campo musicale, infine, si possono ricordare personalità ancora viventi come Stevie Wonder e Diana Ross per la musica pop o come il famoso rapper Eminem. Ma io direi che il personaggio sicuramente più importante è la “regina del soul”, Aretha Franklin, celebrata con un funerale spettacolare nell’estate del 2018, che non si allontanò mai da Detroit, nonostante il successo internazionale.

Quale futuro a Suo avviso per Detroit?
Oggi Detroit non è più né la Motor City di un tempo né una capitale mondiale dell’auto, nel senso che questa espressione poteva avere un tempo, sebbene l’industria automobilistica abbia ancora un forte ruolo nella sua vita economica. Il suo futuro è legato, da un lato, all’interazione fra il sistema della mobilità e i processi di digitalizzazione e, dall’altro, allo sviluppo di nuove attività e di nuovi servizi in linea con le trasformazioni del mondo d’oggi. Naturalmente, si sta creando una base economica che corrisponde alla struttura dell’area metropolitana di Detroit (oltre 4 milioni di abitanti) e del Michigan attuali, dunque più differenziata, dove industria e terziario interagiscono strettamente e si condizionano a vicenda. La città ha oggi meno di 700 mila abitanti, in larga parte di colore (oltre l’83%) e resta segnata da vastissime plaghe di abbandono e di povertà. Ma il suo centro – la Downtown – sembra rinato e appare rivitalizzato, come pure si registrano segnali di miglioramento di Midtown, l’area dell’università, dei musei e delle istituzioni culturali.

Per alcuni versi, la città sembra aver tratto boni impulsi alla crescita nel corso dell’ultimo anno, ma non si può dimenticare che il suo profilo complessivo resta segnato, come ho detto, dall’abbandono e dalla povertà, che saranno assai difficili da sradicare anche nel futuro.

Quale lezione si può trarre dalle vicende di Detroit per la Motor City nostrana, Torino?
Evidentemente Torino, la città in cui vivo, rimane inassimilabile a Detroit. A fare la differenza, anzitutto, è il fatto che Torino non vive la drammatica situazione sociale e razziale che caratterizza Detroit. Certo, si misura anch’essa con le conseguenze della deindustrializzazione, ma complessivamente le zone di povertà non presentano l’ampiezza e il profilo lacerato della città americana. Esattamente come gli indici di criminalità sono lontanissimi dalle punte che ha registrato Detroit.

Va detto però che, a un confronto, Torino non ha nemmeno la vitalità del tessuto sociale di Detroit. Basti ricordare che là l’età media della popolazione è di 30 anni, a Torino essa è superiore ai 46 anni. Ciò spiega anche la diversa reattività sociale delle due situazioni. La nostra società, del resto, è caratterizzata da una presenza ben più massiccia degli anziani di quella americana e non ha perciò l’analogo dinamismo.

Non so se Torino possa avere qualcosa da imparare da Detroit. Vorrei però ricordare che la città degli Stati Uniti ha una concentrazione significativa di capacità tecnologiche e anche culturali. Per esempio, ha il quinto museo d’arte degli Usa, un polo museale di tutto rispetto e raduna attivisti sociali e performers piuttosto giovani, che la abitano a motivo dei bassi costi delle sue residenze. A me comunque Detroit continua a trasmettere l’impressione di una società viva e in movimento, una realtà che mi piace visitare.

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